Racconti nella Rete 2010 “Il mio primo giorno di lavoro” di Enrico Arlandini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Il mio primo giorno di lavoro: a dire la verità ne ho vissuto più di uno, perché alla mia seppur verde età (se io mi sento ancora tanto giovane che posso farci), ho già diversi anni di lavoro alle spalle.
Passando quindi da imberbe pulcino a ragazzo più o meno maturo, qualcosa avrei da raccontare in proposito, ma mi sembra maggiormente simpatico procedere con un “se fosse” che può dare libero spazio alla fantasia.
Non chiederei tanto, un posto da dirigente bisogna guadagnarselo, con tanti anni di gavetta, o con tanti metri di linguetta, dipende dai casi.
Mi andrebbe benissimo un’occupazione media, senza il fiato sul collo di un esercito di superiori nevrotici, ma nemmeno con l’onere di dover segnare a schiere di neo lavoratori appena usciti dall’università o da corsi che creano nei partecipanti un’autostima esagerata.
Così, quando gli si chiede di fare una fotocopia ti fissano con occhi sgranati, guardandosi i intorno per essere sicuri che stai parlando proprio con loro.
Quindi, passata egregiamente la fase del colloquio, davanti a un esaminatore che mi ha fatto sentire a mio perfetto agio, alternando domande pertinenti al motivo dell’incontro ad una serie di facezie su argomenti disparati, ora tutto è pronto per iniziare un’avventura gratificante per entrambe le parti.
La sera precedente ho messo la sveglia alle ore 6.30 anche se il mio orario di lavoro sarebbe iniziato due ore dopo. Non avevo alcuna intenzione di fare brutta figura, arrivando in ritardo proprio il primo giorno.
Colazione, mi vesto, doccia, mi alzo dal letto ed esco di casa.
No, forse ho invertito le varie azioni, ma invertendo l’ordine dei fattori il prodotto non cambia.
E il prodotto in questo caso e’ di pregevole qualità, quando mi rimiro nello specchio del portone, prima di uscire in strada.
Non ho voluto indossare il classico completo giacca e cravatta, tanto elegante, quanto ormai inflazionato, poiché al giorno d’oggi non identifica solo i manager, ma calza a pennello pure a propagandisti del folletto e di tante altre meraviglie della tecnologia moderna.
Una certa eleganza unita ad un savoir faire naturale, il tutto condito dalla mia consueta modestia, serviranno a dare un’ottima impressione di me.
Salgo in auto e vengo subito avvolto dal piacevole odorino del mio cane il quale, anche se al momento non è presente, vuole comunque regalarmi la sensazione di averlo sempre accanto, mischiando profumi e puzze l’uno dell’altro.
Già che ci sono potrei dare una bella testata sul volante, così sul lavoro avrei l’aria del cane bastonato.
Procedo di ottimo umore, fischiettando.
Probabilmente gli altri mi prendono per pazzo, ad avere un’espressione così allegra il lunedì mattina.
Beato e tranquillo, mi immetto nel traffico.
Anzi, sto sbagliando: il traffico, questo giocoso serpentone lungo da qui all’infinito, ingoia la mia automobile insieme a un mare di altre.
Per ingannare il tempo dò un’occhiata ai personaggi che mi circondano.
Si passa dalla donna con lo sguardo fisso nello specchietto, intenta a dare una ripassatina al trucco, all’uomo dell’auto di fronte, lo sguardo fisso sulla donna, immaginando di dare una ripassatina a lei.
Insomma, tra sinfonie di clacson, insulti che vanno a ricercare antenati ed eredi fino alla decima generazione, alla fine mi trovo a poche centinaia di metri dalla meta.
Non ho ancora discusso con il capo del personale circa la disposizione del mio posto auto.
L’ideale sarebbe una zona un po’ in ombra, ma non troppo, vicina all’uscita dell’azienda, ma nell’estremità del parcheggio, in modo che nessun imbranato mi danneggi la fiancata, aprendo la portiera con la foga di un bersagliere ubriaco.
Soltanto per oggi mi adatto a posteggiare sul marciapiede, bloccando quasi l’ingresso di un ristorante.
Eccomi, la mano sulla balaustra delle scale, pronto a iniziare la mia scalata verso il successo.
Veramente la scalata e’ fino al settimo piano, a piedi, poiché un cartello informa che l’ascensore e’ in manutenzione.
Dovrò parlare anche di questo con i dirigenti della ditta.
Tali inconvenienti non contribuiscono al decoro, e soprattutto mi costringono a fare un’inutile ginnastica mattutina.
Gradino dopo gradino, nella mia mente pregusto già le scene che si svolgeranno a breve, avendomi ovviamente come protagonista indiscusso.
Sono convinto che non avranno rimostranze nell’assegnarmi un ufficio soleggiato, ma non troppo, con mobili di un certo pregio e l’opportunità di aggiungere un mio tocco personale, per rendere più accogliente la stanza.
Non disdegnerei la presenza di un frigobar, ovviamente in conto all’azienda, per sorseggiare uno spumantino dopo l’ennesimo contratto stipulato con holding internazionali, o stappare una birra quando inviterò gli amici per renderli rossi dall’invidia nei miei confronti.
La mia segretaria personale non chiederei venisse scelta tra le copertine di Cosmopolitan, ma nemmeno tra quelle di Postal Market.
Dovrebbe parlare un italiano forbito e almeno alcune altre lingue, compresa quella nel mio orecchio, durante le lunghe serate di straordinario, che sopporterei volentieri di affrontare, per il bene dell’azienda.
Se proprio fosse necessario, accetterei addirittura il lavoro durante il fine settimana, sempre con l’ausilio della mia cara assistente, soggiornando in qualche ridente località di mare,lago, o montagna, a seconda della stagione.
Sono convinto che stabilirò fin dall’inizio un rapporto meraviglioso con i colleghi, la maggior parte dei quali diventeranno ben presto i miei sottoposti.
D’altronde, dovrà pur servire a qualcosa il mio master sullo studio delle possibili cause dell’abbassamento della temperatura durante l’inverno, e del suo incremento con l’arrivo della bella stagione.
Prima o poi verremo a capo di questo grande mistero.
Parteciperò ai loro puerili passatempi adottati nei momenti di svago,
come il rito della pausa caffè tutti insieme o quello della giocata al superenalotto e gratta e vinci vari.
Poiché non vado certo in giro con monete o banconote di piccolo taglio, saranno orgogliosi di pagare anche tutte le mie quote, in cambio di una pacca sulla spalla da amicone e una promessa di carriera, che non manterrò mai.
Queste scale incominciano a pesarmi, mi gira la testa, sto sudando, e sono arrivato soltanto al terzo piano.
Sono uomo da fatica intellettuale, il mio cervello e’ come un flipper, i miei neurani schizzano come palline, collezionando punteggi pazzeschi.
Mi fermo un attimo, alle soglie del quinto piano.
D’improvviso mi domando come mai non ho ancora incontrato nessuno, nè sentito il classico brusio di tante formichine all’opera.
Tutto ciò e’ molto strano, in una ditta di tali dimensioni.
Probabilmente la dirigenza, che ha tutto il mio plauso, ha circolarizzato ai dipendenti il divieto dell’uso della parola durante l’orario di lavoro, se non in casi di estrema urgenza, e comunque dopo richiesta scritta al superiore diretto.
Man mano che mi avvicino al sospirato settimo piano, aumenta in me la certezza che la realtà sarà ancora migliore di tutte queste congetture mentali; infatti mi ritroverò ben presto nell’olimpo nel paradiso dei “io posso, tu no”.
Nonostante stia sudando come Dorando Pietri ai tempi d’oro, e attraverso la coltre di profumo e dopo barba si faccia strada un leggero odorino da impiegato di terzo grado, nulla scalfisce la mia sicurezza granitica nell’ormai prossimo successo.
Mi affaccio ad una delle finestre del sesto piano, per prendere una boccata d’aria e riposarmi un poco.
La visuale non e’ delle migliori, tutto un susseguirsi di palazzoni grigi e anonimi, intervallati da sparuti spazi verdi, abbastanza inutili secondo me, perché al loro posto si potrebbe costruire l’ennesimo palazzone, tanto per non interromperne la serie.
Lungo la strada che costeggia l’ingresso dell’azienda si avvicina una colonna di camion, tutti dello stesso colore.
Da quest’ altezza non riesco a leggere la scritta sulla fiancata.
Se il buon giorno si vede dal mattino,però, il traffico creato da questa azienda deve essere imponente.
Mancavo giusto io, la ciliegina sulla torta di un meccanismo bene oliato.
Finalmente arrivo al traguardo del settimo piano.
Mi preoccupo di riassettare i vestiti, una veloce pettinata, ed eccomi varcare l’atrio con passo perentorio.
Davanti a me un lungo corridoio, scarsamente illuminato. Ai due lati diverse porte, tutte chiuse, ciascuna con la targhetta ad indicare le mansioni dell’ufficio e i nominativi di chi lo occupa.
Mi dirigo verso l’unica forma di vita umana in vista, seppure la testa ciondolante e il russare stile motosega non facciano ben sperare.
Batto con violenza sulla scrivania; il portiere si sveglia di soprassalto, uscendo dal sonnellino che si era concesso.
Inizio a fare mille domande, ovviamente senza presentarmi, lui sicuramente saprà già chi sono.
Mi preme sapere soprattutto il motivo per cui non sono stato accolto come merito, e come mai non c’e’anima viva in giro a quest’ora.
L’uomo, al quale la veneranda età ha donato una stanca saggezza e pazienza, mi osserva con occhi comprensivi, quindi mi spiega sommariamente le mie future mansioni.
Il mio castello mentale si sgretola dall’alto fino alle fondamenta, una volta che comprendo il significato della terminologia utilizzata in quella ditta.
Infatti quando il capo del personale, con un largo sorriso, mi aveva annunciato l’assunzione come responsabile della corrispondenza estera e dei bisogni primari dell’azienda, si riferiva a tonnellate di
buste da consegnare in posta e alla mansione di factotum per ogni esigenza di tutti i dipendenti.
Addio segretaria sexy in minigonna, devota e adorante nei miei confronti.
Al massimo mi capiterà una collega acida, bisognosa che le faccia la spesa e altre mille piccole commissioni.
Addio ufficio mega accessoriato, sostituito da una stanzetta tanto piccola che Giuliano Ferrara entrando rimarrebbe incastrato.
Addio a tutti i benefit e scroccaggi vari che mi avrebbero permesso una vita agiata, con poco lavoro e molto profitto, sogno proibito di tutti gli italiani.
Completamente affranto , mi appoggio ad un muro, le mani sul volto, prossimo ad una crisi isterica.
Un uomo mi si avvicina, informandomi che la ditta oggi e’ ancora chiusa, sta per essere effettuato il trasloco del nuovo arredo di tutti gli uffici.
Mi invita quindi a tornare direttamente domani, quando la sede sarà operativa.
L’andatura lenta e goffa, lo sguardo fisso a terra, seguo mestamente il suo consiglio.
Dopo pochi passi mi sento chiamare per nome.
“Ah, ma lei e’ il signor Orlandoni. Mi scusi, c’e’ stato un errore.
Davvero, abbia pazienza, non avevo immaginato.”
Ha in mano un foglio , nella quale evidentemente è scritto il mio nome.
Ampiamente sollevato, gli sorrido dicendogli: “Finalmente, mi sembrava un incubo, l’importante è che tutto sia chiarito ora che avete capito chi sono”.
Si, hanno capito chi sono, ma non cambia proprio un bel niente.
L’uomo infatti mi riconferma sadicamente tutte le mansioni alle quali sarò destinato.
Il motivo per cui mi ha richiamato prima e’ che io sono presente nella lista dei dipendenti precettati per occuparsi del trasloco, il tutto per risparmiare sui costi dello stesso.
Da dietro un angolo spuntano una quindicina di individui in tuta da lavoro, i quali mi squadrano in maniera lievemente sarcastica.
Intavolano tra loro vibrate scommesse su quanti viaggi riuscirò a fare prima che debba essere richiesto l’intervento di personale ospedaliero.
Infatti quei sette maledetti piani che ho appena fatto a piedi, dovrei percorrerli su e giù per tutta la giornata, trasportando i nuovi mobili dell’ufficio.
Fiducioso nelle mie provate capacità di attore, improvviso uno svenimento, lasciandomi scivolare lentamente a terra.
Spero solo che ad uno di quegli energumeni non venga la malsana idea di praticarmi una respirazione bocca a bocca.