Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2009 “Il colpo della strega” di Federico Ligotti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009

Tutto d’un colpo. Un unico strappo, secco e formidabile. Di un’efficacia perversa. Strazio delle ossa, tortura del nervo, friggitura del muscolo. Insomma, dopo quella stramaledetta sveltina di venerdì mattina, Mario Ruggiti, trequartista fallito di borgata, non risultava più nel novero dei vertebrati. Una fulminante lombosciatalgia, nel gergo colpo della strega, era riuscita a incrinare un fiore di fisico possente e atletico che anni di privazioni, incubi reali e risi amari non avevano minimamente scalfito. Mai una contusione, nemmeno dopo la rissa in quel di Tor Sei Capre, mai una frattura dopo le cadute dallo scooter, mai uno stiramento, dopo i ceffoni a vuoto dati alla moglie, niente di tutto ciò che ora lo struggeva. E dire che s’era pure alzato di ottimo umore quel giorno all’alba, per di più allietato da una signora erezione. Aveva bevuto il suo solito caffeino triplo di densa miscela arabica, si era raso con il coltellino Muerte Maxima Macelleria 71, era uscito di casa fischiettando con gioia Bring your daughter to the slaughter dei Maiden. Invidiabile inizio di disoccupata giornata, rapido incontro erotico con la prima baldracca incontrata per strada. De Andrè ci avrebbe fatto una mitica canzone. Mario si limitò a farsela da dietro. Del resto, il senso agrodolce della lirica non lo aveva mai conquistato; quello era un quartiere di ramici malavitosi. Una sfilza ininterrotta di bugigattoli, case cantonali in disuso e parallelepipedi squadrati da grigio e polvere tagliava in diagonale il vialone che segnava il principio, il cuore e la fine di quel cesso di quartiere. Un rione fetido come il nome ovino suggeriva; ogni minima viuzza dissestata, ogni anfratto, piccionaia, ripostiglio dava l’idea di un’ammorbante lanosità. Una trappola di scassi, buche e oliosi acquitrini che infiacchiva il respiro, scurendo l’orizzonte importunato da quel sole cattivo. Le notti a Tor Sei Capre erano altrettanto beffarde, con le loro lune gialle di bile dai crateri in minuscola lontananza che tu li vedevi e subito ti veniva da pensare al ghigno sbucciato di un tossico divenuto alcolista per senso dell’umorismo. Che poi era dappertutto così in periferia, e sempre quel tipo di esistenza vi sarebbe stata per le persone che in quei rigagnoli di dispiacere nascevano, rubavano e come pensione avevano la galera, oppure nascevano, studiavano in strettezze di squallore ma poi si salvavano e vivevano una vita da vivi.

 Mario Ruggiti capiva ciò che aveva intorno, sapeva che l’alito del Tor Sei Capre avrebbe finito per stordirlo, paralizzarlo e dargli la definitiva bastonata. Lui però avrebbe reagito in tempo, la putrida lana di periferia se la sarebbe lasciata alle spalle, come una maglia bisunta che l’uomo benpensante si pone sugli omeri, chiazzata di sapori consumati in fretta: ciò che potrebbe ferirti gli occhi e ammazzarti il cuore se lo carica la tua schiena, questa discarica della coscienza.              

Era il 5 gennaio, il giorno che precede la svolta epifanica; Ruggiti non aveva più la voglia di restare emarginato. Quel giorno si sarebbe rialzato per la riscossa.

Rientrato nel proprio misero monolocale, aveva azionato la pompa di riscaldamento per la doccia, era entrato in bagno e s’era sfilato, con cautela e calcolata lentezza, maglietta, scarpe, pantaloni e calzini, uno dopo l’altro, arrivando infine al pezzo forte, la mutanda leopardata.

Con ghigno di falsa modestia da vincitore beffardo e incontenibile, afferrò con leggiadria l’orlo più esterno, quello con le fastidiose sporgenze di tessuto sintetico. Poi abbrancò con la mano libera l’altra estremità del capo intimo, si curvò di due-tre gradi e, senza indugio, lo abbassò. Tragicamente tirò. Il colpo fu repentino e quasi indolore. Poi, la sacrale impotenza che accompagna, come una sentenza, qualcosa di fatale. E l’ineluttabile fu. Come un osso marcio che sfrega la sua puntina impertinente contro la cassa toracica e annulla il respiro. Un rantolo: il famigerato colpo della strega.

Umiliante postura supina, manco fosse il re dei froci. Sogni di rivalsa addio, ora rimpiangeva anche di aver buttato fuori di casa l’odiosa moglie, la sera prima. “Io rinascerò! Non ho più alcun bisogno di una meretrice che mi giri intorno e mi alleggerisca le palle, capito?!”

“E adesso… ma chi minchia mi aiuta?? … Sono solo, definitivamente solo, e incastrato come nemmeno il peggior rottame di Roma Est…” E via in un coerente concerto di bestemmie, imprecazioni e vaffanculi assortiti. La fortuna pareva veramente averlo abbandonato in un vicolo cieco, senza orbi che gli facessero compagnia, però. Ruotò gli occhi di 45° e, con uno sforzo micidiale da desperado all’ultima spiaggia, strisciò fino al bordo della vasca da bagno. Effettuata la presa sulla lucida superficie di marmo grigiastro, riuscì appena a far leva sull’osso del gomito, a issarsi e voltarsi parzialmente. Quando un inenarrabile dolore lo raggiunse al cranio, capì al volo che era tardi per completare l’operazione. Svenne. Poi, l’allucinazione onirica.

Si trovava davanti al caminetto del salotto e tossiva: di fronte a lui, una pompeiana eruzione di lapilli, uno sbuffo vaporoso usciva dalla canna fumaria, lasciando intravedere una grottesca figura di…

La tramontana notturna coglieva la notte di sorpresa, sputazzando il suo gelido catarro contro i vetri di palazzi e automobili, sui rami degli alberi che in un solo colpo quel catarro rinsecchiva, sulla linfa delle foglie che inceneriva, sui lacerti di coperta che rendeva pesanti sopra la carne morta agli angoli del marciapiede, sul piscio animale che trasformava in lamina di sozzura lungo strade trafficate da anime buie. Un fischio riecheggiava di tanto in tanto, originale composizione cui qualche rapinatore alle prime armi si abbandonava; nervoso, compiva il suo giro di ricognizione e occhieggiava verso questo o quel negozio, stabilendo con immediatezza l’abbordabilità o l’insidia nascosta nella futura preda.

 Sorvolando appena due isolati, l’occhio scrutatore della notte scende su un cortile camuffato da fitti e aspri oleandri disposti a cubo: muri alti e sbreccolati lo isolano dalle altre abitazioni del circondario. Al centro esatto del cortile sale un caseggiato né bello né brutto, accuratamente predisposto per passare inosservato, alle cui estremità si possono notare due cani randagi che forse s’azzuffano forse fanno all’amore e un branco di ragazzotti che provano le loro sgangherate modifiche su una Toyota Celica, la targa ripittata con vernice fresca nera e blu. L’occhio a questo punto zumma sulla costruzione lì al centro del cortile, sgranandola nei particolari, come se tutta l’attenzione cosmica vibrasse su quel viscidume di parete amorfa e scalcinata. Le finestre, palpebre metalliche, sono chiuse in faccia alla notte, tranne una: quella al terzo piano, spalancata al gelo. Pare che un’ombra maligna, un filamento vagabondo si sia staccato dal nero circostante, e, sospinto dalla tramontana, abbia valicato la finestra. La finestra del terzo piano, dove abita Mario Ruggiti.           

Mario si risvegliò immediatamente: il casino del maledetto pendolo a cucù era sempre lo stesso. Mezzanotte. Era iniziato il 6 gennaio.

 Cù… cùùù…”. La litania si interruppe all’improvviso. Si voltò. L’atmosfera era rarefatta, la sensazione di sottosopra provata dall’anestetizzato che, finita l’operazione, riprende il contatto visuale col mondo. Una sfocata caligine continuava a chiedere spazio all’iride di Mario, spettro ambulante forse balzato fuori da un quadro divisionista o, peggio ancora, dall’esasperata penna di un vorticista. Mario provava a schiarirsi la vista, ma era un pessimo ottico di sé stesso, e le sue due lenti, ormai, erano spacciate. Gli rimase la lucidità per assistere al colpo della sua assalitrice, impietoso, sul dosso delle vertebre posteriori, poi un altro, che gli fece zompare in aria il mascellone.

Alzò in aria gli occhi tristi, e, con voce biascicante, al fantasma che lo sovrastava:

“Sei tu…sei la Befana, vero?”.

“Può essere. O almeno, una volta, lo ero.”

Ruggiti Mario morì sorridendo, la sorpresa aveva annullato il dolore…

 

Aperto il sacco, la strega si diresse nello studiolo del defunto, poggiò la scopaccia insanguinata sul letto, si tolse di dosso i residui di cellule cerebrali, individuò la cassaforte, azzeccò la combinazione con un colpo di magia nera, l’aprì. La ripulì, ne versò il prezioso contenuto nel sacco del carbone, poi lo richiuse con accurata attenzione. Almeno mezzo miliardo, fra furtarelli occasionali e risparmi di una vita.

La troiaccia, soddisfatta, montò adagio sulla scopa e ripartì.  

         

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4 commenti »

  1. Bravo, mi è piaciuto molto.

    MF

  2. ciao, il tuo racconto ha molto ritmo e si legge con curiosità,ho molto apprezzato lo stile concreto e secco del linguaggio,però ho dovuto rileggere più volte perchè passi dalla prima descrizione del “colpo della strega” alla descrizione dell’ambiente,molto ben riuscita,ma mi sarebbe piaciuto non fare il passo indietro che tu proponi al lettore sulla mattinata e l’uscita di mario per poi tornare al momento centrale della schiena. Mi ha creato un pò di confusione come se il dolore iniziale fosse immaginato e non vissuto,mentre è descritto con grande tangibilità.Potrebbe non essere un tuo “errore” nei tempi della storia ma solo una mia preferenza di linearità degli eventi.Comunque lo considero fra quelli letti uno dei più interessanti.
    saluti francesca giulia

  3. L’hai gia pubblicato da altre parti vero?
    Mi sembra di averlo letto da qlc altra parte ma nn so dove. se mi è rimasto impresso comunque buon segno.

  4. Ritmo e lessico adeguato al personaggio.
    Un unico neo: Ruggiti Mario rimasto in “umiliante postura supina, manco fosse il re dei froci” non può aver detto alla moglie “meretrice”
    Questo epiteto è sfuggito all’autore delle originalissime metafore: “sputazzando il suo gelido catarro” e “finestre, palpebre metalliche”.
    Molto meglio il “troiaccia” finale.
    Bravo.
    Ciao.

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