Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2010 “Odalengo, mele a Porta Palazzo” di Lino Di Gianni

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

Io, per me, vendo mele a Porta Palazzo.

Al mercato piccolo, quello sotto la tettoia.

Non quello grosso, della frutta e verdura, dove comprano a casse.

Dove il banco te lo montano ragazzi marocchini. Dove ci sono molti cinesi che vendono vestiti.

No, tutta quella confusione, non potrei sopportarla.

Qui, la maggioranza sono piccoli contadini che portano frutta, fiori, verdura dei propri campi.

O cosi dicono tutti. Poi, certo che ci sarà chi compra patate al mercato di Canale, e le vende come sue.

A me, per vivere, bastano piccole quantità.

La mia pensione è poca, 700 Euro, al mese. Poi faccio lavoretti, e insomma, va bene cosi.

A proposito, il mio nome, per chi vive in Piemonte, non fa una bella rima.

Mi chiamo Odalengo.

Non è che son ricco di famiglia. Più che altro, mio padre voleva darmi il nome del nonno.

E mia madre, venuta da un Sud di fame e ignoranza, disse

“ No, chiamiamolo come il paese dove stiamo”

 

( Che poi a me, da bambino mi chiamavano Piccolo, essendo la frazione minore chiamata così.

A mio cugino, è toccato Odalengo Superiore- povero, chiel lì.)

 

A questo banchetto del mercato incontro i clienti, al mattino.

E anche qualche amico, viene a mangiare il suo sanguis con il salame cotto tagliato spesso, o con i peperoni e le acciughe.

Vicino al mercato c’è la trattoria Valenza, una vecchia piola.

A volte ci incontro Rocco, un maestro che lavora con gli extracomunitari.

(Ma lui si arrabbia se li chiamo così.

Io rido, e dico “ Ah, i Mau Mau, come voi terroni che siete venuti al Nord..)

Ma nessuno dei due se la prende. Ci conosciamo da troppi anni.

Sa che io rispetto tutti quelli che lavorano e si fanno i fatti propri.

Per me, passi lunghi e ben distesi, se porti rogne.

Altrimenti, mi piace quando vengono a contarmela.

Mi piace prendermi il tempo.

Offrire una mela rossa, piccola, gustosa

e profumata di vigna.

E guardare se , a chi mi parla, viene l’occhio che ride.

Son soddisfazioni, ascoltare.

Come Rocco, oggi.

Che non riusciva a capirsi con una ragazza cinese.

Lui voleva darle un passaggio. Lei non capiva.

Lui a disegnare la pianta della città.

Mi tenevo la pancia dal ridere, a sentir Rocco che diceva:

“ Sai, dopo tutto quel parlare, lei diceva sempre si.

Poi ha iniziato a camminare, ed è uscita

Io mi son nascosto in classe, che non sapevo piu che fare,

con tutta quella confusione.”

 

Al mattino alle 5, le foglie hanno il massimo splendore.

Nel buio, senza la tentazione dell’aria viziata, del sole che sfiacca.

Come due occhi minerali che spuntano dal verde opaco della siepe distinguo lo sguardo di Mira Flores, la mia compagna basca.

Quando io mi alzo, lei è andata a dormire da poco.

Siamo uccelli diversi. Lei ama il mantello della notte, nero sul nero.

Io comincio il giorno aspettando con impazienza l’alba, e se mi attardo dopo il tramonto mi trovano già in catalessi.

Quando ci svegliamo lei mi stringe, per controllare che non sia scappato.

Io un po’ rimango, a portare via un po’ di quel calore.

Poi vado di là. A far colazione. A leggere.

Fino a che non sento MiraFlores che mi chiama.

Mira Flores, per vivere, suona.

Ha studiato anni, al Conservatorio. Poi, un giorno, la rottura di un legamento.

Niente più chitarra suonata 8 ore al giorno. Muta. Silenzio, per anni.

Fino a pochi anni fa.

Niente più chitarra, niente più violino.

Adesso riprendeva, ma con un corpo a corpo più stretto con lo strumento.

Il flauto traverso è un’estensione delle tue viscere, se sei bravo.

Le corde vocali che si stendono come i fili dei rioni a Napoli.

E sei in equilibrio con la pelle che sente le vibrazioni dei toni, dei semitoni, dei colori delle armonie.

L’altra sera mi ha detto “ Ody- cosi mi chiama, per brevità- Ody, voglio morire prima io, di te”.

– Perché, amore? le ho detto mentre la guardavo intensamente (come il mio melo per vedere che succede.)

Perché non voglio che finiscano le cose che ci inventiamo. I desideri che viviamo.

Non voglio soffrire pensando che non ci sei.”.

Nemmeno io, Mira, nemmeno io- senza te.

(La propria morte è un pensiero che non si contiene, non si riesce a concepirla.)

Invece quella degli altri, a cui tieni ,ti assale come il nero di una Pantera nella notte, col fiato che puzza e i muscoli paralizzati )

Sembrerà strano, l’affetto che Odalengo portava al suo vecchio motocarro, un Ape degli anni 70.

Ci caricava le cassette di mele, i cavalletti, l’ombrellone del mercato e una bilancia.

Dentro, aveva il cassettino dei Toscani ammezzati, la bottiglia di Grappa di Arneis- per i microbi del mattino, e sotto i sedili, quattro libri in edizioni economica.

Erano anni, che se li teneva lì, per le pause del giorno.

Non sapeva tanto bene perché proprio quelli. Forse per il titolo del libro.

Ma gli piaceva ritrovare le righe sottolineate, rimaste lì mica ferme, ma ogni volta partite verso un viaggio diverso.

“Un uomo che dorme, tiene intorno a sé in cerchio, il filo delle ore, gli ordini degli anni e dei mondi”*

Cosi, per gratitudine all’autore, aveva chiamato Marcel il suo vecchio Ape, perché con il suo movimento lento e il carico di profumi gli sembrava di muoversi come una formica nella tappezzeria della stanza a Combray

” dove si dorme quasi all’aria aperta, come la cingallegra cullata dalla brezza in cima a un raggio “*.

Eh, Marcel, facciamo insieme questa salita.

Io non ti tiro il collo, tu non lasciarmi col culo per aria.

Stamani ho degli appuntamenti importanti.

Sempre che vengano, neh poi.

Forse verrà la signora cubana, quella che si chiama Tapas.

Ha sempre un basco rosso e scarpe col tacco, cammina dietro al

suo Chihuahua che ha chiamato Fidel, e quando mi incontra al mercato,

sapendo dei miei trascorsi politici, alza il pugno di nascosto e ridendo mormora, !Viva la Revolucion

E io alzo il pugno intrepido e insieme al suo ciuffo biondo faccio abbaiare

Fidel al suono di Hasta la Victoria, siempre.

Poi prendo il vasetto di miele e le mele renetta, per la sua torta.

Stamani aspetto anche visite dalla Svizzera, una donna che mi regala sempre dei foglietti di carta di pane con scritte poesie.

E una signora russa che mi ha promesso dolcetti da Dubai.

Si, nostra patria è il mondo intero, mi è sempre piaciuta, sai Marcel?

Ah, dimenticavo.

Una cara signora napoletana mi ha promesso le sue mele Annurca, splendide e saporite. Non vedo l’ora.

Alla ricerca del tempo perduto.Marcel Proust.

Seduto su bordo del Lungo Po, con quel senso di acqua che scorre.

Acqua sporca, per non dimenticare il male che c’è in giro.

“ Una rapina, dovrei fare una rapina- pensava tra sé e sè, Odalengo.

Basterebbe studiare le abitudini della guardia , degli impiegati.

Presentarsi gentile, con voce candida. Una maschera di Totò sul volto.

E poi allontanarsi a piedi. O al massimo una motoretta dietro l’angolo.

Sentiva già nella testa gli strilli di Mira Flores “ Sei pazzo, brutto sgombro del Baltico?

Ma se è tutta la vita che rifiuti i soldi, anche quando qualcuno ci avrebbe fatto comodo.

No, meglio non dire niente . Le avrebbe fatto una sorpresa, dopo.

Avrebbe detto di aver vinto al Lotto. Soldi perché Mira Flores

potesse aprire quella scuola per ragazzi in difficoltà.

Piena di libri, colori e musica.

Gia, ma una rapina, non è uno scherzo. Mai toccata un’arma.

E allora, per i soldi?

Mica li avrebbe fatti vendendo mele. Questo lo sapeva.

In quel momento passò una ragazzina magra, fatta di “fumo” o qualcos’altro.

Barcollava, una bottiglia di birra in mano e delle calze a rete smagliate, nonostante l’inverno.

Un inverno di parecchi anni fa. Una ragazza ribelle, scappata di casa.

Quel pomeriggio di freddo, di sapore agro di vomito in bocca.

Il fumo o la pastiglia da sballo, il vomito che la fece svenire, la roulotte

che si incendiò.

Una lattina bucata, con un fiore secco scorreva, lì davanti, impigliata.

Nella schiuma dei rifiuti.

Figlia di meridionali, ribelle, col suo amore tossico venuto dalla Tunisia,

soffocata e morta come se un Chupa Chupa le fosse rimasto di traverso in gola.

L’urlo , con gli occhi asciutti, della zia.

Le mani dentro la terra. La terra con un peso in più, nel dolore del mondo.

“Andrò in una notte stellata, che non faccia troppo freddo, su una spiaggia solitaria dove natanti in disuso si calano in mare con poco sforzo e ancora galleggiano .“

(Luigi Pintor. I luoghi del delitto.)

 

 

No, nessuna rapina. Era uno scenario troppo estraneo a che aveva combattuto tutta la vita le violenze, quelle fisiche sui più deboli, ma anche quelle altre, più nascoste.

La violenza di non far vivere i bambini in mezzo alle cose naturali: campagna, alberi, animali. Veri e vivi, con gli odori e le puzze, i cambiamenti, le necessità del terreno di rifornirsi di Sali minerali.

Invece, si riempiva la testa e gli occhi di automobili, soldi, e donne da godere, con rapina .

Ecco, il furto, la cifra segreta di una società cosi che ti ruba del tempo necessario.

Io assegnerei ad ogni nuovo nato un albero, un cucciolo e un quaderno.

Questa capacità di cura, sarebbe il suo conto in banca per il futuro.

Pensava, Odalengo, a quella pellicola salvata, girata a Sarajevo con l’ultimo film del suo grande attore preferito, Gian Maria Volontè: Lo sguardo di Ulisse.

Testimone della memoria, aveva cercato di salvare la cinemateca dalla guerra.

Salvare i sogni dalla barbarie. Ma l’attore era morto sul campo di guerra , in scena e nella realtà.

 

Ecco, forse Odalengo poteva salvare i semi delle mele più rare.

Tramandare i profumi, i sapori di una mela, piccola bomba a mano della biodiversità lanciata nei tempi bui che si annunciano a venire.

Loading

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.