Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Racconti nella Rete 2010 “Il gioco della sedia fantasma” di Gino Falorni

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

-Buongiorno chi è?

Quelle tre parole furono sufficienti per mettere la voce che le aveva pronunciate nella sezione fastidiose.

– Sono Nico Valente, ho un appuntamento con il direttore per quel posto da magazziniere.

– Il direttore ha avuto un contrattempo ma tornerà tra poco, vuole salire intanto?

Cazzo pensai. Ero disoccupato da più di cinque mesi e quello si permetteva di avere dei contrattempi. Che razza di stronzo.

– No preferisco ripassare tra un po’! – le dissi spazientito.

– Come vuole signor Valente, allora a dopo.

– A dopo!

E adesso? Stare davanti a quel citofono non mi sembrava il caso. Mi guardai intorno: un’edicola chiusa, una sala giochi mezza vuota e in fondo la strada un meccanico. La sala giochi era invitante, ma pensando al mio portafogli abbandonai subito l’idea. Mi ricordai invece di un bar che avevo visto su una piazza poco distante da li, e che avrei potuto raggiungere anche a piedi. Mi sembrò la soluzione migliore, anche per smaltire un po’della rabbia che in quel momento stava giocando a ping pong nel mio cervello.

Erano passati tre anni, ma lo riconobbi subito, al primo sguardo.

Stava seduto ad un tavolo in fondo alla sala con un altro uomo. Parlavano e ridevano.

Rimasi un po’a fissarlo. Non era cambiato per niente: la solita faccia di merda.

Raggiunsi il banco e ordinai un caffè. Mi sentivo elettrizzato. Avevo davanti agli occhi una vendetta che avevo sempre desiderato consumare. Una vendetta che aveva un nome, e per quanto mi riguardava, anche un grado: Caporale Istruttore Antonio Salimbeni.

– Ecco er caffè – disse un ragazzo che poteva avere più o meno la mia età.

– Grazie, senti il bagno? – gli domandai.

– Scese e scalette a prima porta su a destra!

Il ragazzo tornò veloce al suo lavoro.

Io finii il mio caffè e mi diressi in bagno.

Cercavo nello specchio i ricordi di quel tempo. Stare li dentro, avevano detto, lo dovevamo ritenere un onore, che quella era una caserma speciale, dove passavano tutti i segreti scomodi dell’Italia. Scoprimmo ben presto però che i segreti li dentro da tenere nascosti erano ben altri, e non riguardavano certo la nazione. Riguardavano noi. In quel posto ognuno aveva un numero identificativo, e che quel numero, era il tuo nome fino a quattro mesi dal congedo. I caporali istruttori invece, che erano a tutti gli effetti militari come noi, con l’unica differenza che erano più anziani, e che per qualche misteriosa ragione erano stati scelti per “occuparsi” dei nuovi arrivi, li dovevamo chiamare con il loro nome vero preceduto dal grado. Ripensai a tutto quello che io, e tanti altri, avevamo passato in quella caserma: alle tre del mattino irrompevano nelle camerate, ci facevano mettere gli anfibi, e con il pigiama ci portavano a marciare nel cortile sottostante. Oppure ci tiravano, mentre dormivamo, secchiate d’acqua gelata addosso. L’ordine ovviamente era quello di stare zitti, perché se solo uno avesse parlato, le conseguenze, per tutti, sarebbero state disastrose. Il passatempo più piacevole per loro era sicuramente quello che chiamavano il gioco della sedia fantasma. Lo eseguivano prima del contrappello ufficiale, e consisteva nel farci mettere con le spalle attaccate al muro e obbligarci, con grida e minacce urlate nelle orecchie, a piegare le gambe ad angolo retto. In quella posizione praticamente stavamo seduti, ma senza sedia sotto. Dopo un po’ le ginocchia iniziavano a tremare. Sentivi crampi violenti ai polpacci, fitte di dolore alla schiena. A quel punto loro cominciavano a dire i nomi di ognuno. I primi tre che cadevano a terra o che non rispondevano all’appello, l’indomani sarebbero stati consegnati tutto il giorno. Mi venne in mente che era stato proprio lo stronzo in quel bar, una sera di Gennaio, a pochi giorni dal suo congedo, ad aprire le finestre della nostra camerata e a farci gridare per un’ora intera in mutande l’anno del suo scaglione.

La porta che si apriva mi allontanò dai quei pensieri.

Non potevo crederci.

Andò dritto verso il bagno senza neanche girare lo sguardo verso di me.

Guardai l’orologio e sorrisi.

Avevo ancora abbastanza tempo per divertirmi un po’.

Tirò lo scarico e uscì.

Io aspettai alcuni secondi, poi feci lo stesso dal bagno accanto, dove mi ero messo per sorprenderlo alle spalle.

– Ciao Antonio.

La mia voce era fredda come una lama.

– Chi sei? – mi domandò guardandomi dallo specchio.

– Non mi riconosci?

– No.

– Recluta 19867. Ti dice niente?

Il suo viso avvampò.

– Che vuoi?

Non parlai. Continuai solo a fissarlo. Immobile.

– Senti è passato tanto tempo. Mi dispiace va bene?

La mia rabbia scoppiò appena finì di pronunciare la parola bene.

Con una manata gli spinsi la testa contro lo specchio.

Cadde a terra quasi svenuto, con la faccia piena di sangue.

Mentre fissavo la ragnatela di crepe che si era creata sullo specchio, cercai di analizzare la situazione.

Arrivai ad una conclusione molto semplice: dovevo uscire dal bagno e dal bar subito.

Così risalii le scale e tornai nella sala.

Uscendo guardai ancora il tavolo dove stava seduto lo stronzo poco prima.

Il suo amico era andato via.

– Il direttore sta arrivando, prego venga.

Oltre la voce, aveva anche la faccia fastidiosa. Mi accompagnò in una sala d’attesa accogliente, ma le feci capire che ci sarebbe voluto ben altro che delle poltrone confortevoli per farmi assorbire il veleno che sentivo in quel momento.

– Ma non può chiamarlo!

– Le ho già detto che sta arrivando, non insista.

Entrai nella sala sospirando. Lei intanto intanto era tornata alla scrivania. Aveva gli occhi puntati verso il basso. Ero sicuro che tenesse sulle gambe qualcosa che non voleva far vedere, come il calendario di qualche coglione tutto incremato. Infatti all’improvviso mise apposto tutto, si ricompose in fretta e si alzò in piedi. Finalmente era arrivato pensai, mentre osservavo la segretaria portarsi le mani alla bocca esclamando qualcosa di indecifrabile.

Avevo ragione, perchè poco dopo mi fece segno di uscire.

– Il direttore l’aspetta nel suo ufficio – mi disse con voce sconcertata.

– Signora, davanti vedo un corridoio con molte porte. Puo dirmi qual’è quella che interessa a me?

– Cosa?

– Dove devo andare!

– Ah si scusi, la prima porta a sinistra.

Quando aprii quella porta capii all’istante il motivo della voce sconcertata della segretaria.

Le mie gambe vacillarono come quelle di un pugile che sta per andare al tappeto.

I suoi occhi erano increduli.

E anche i miei.

Ero nella merda.

Scappare era inutile, ormai sapeva il mio nome e poteva benissimo denunciarmi. Quindi non mi restava altra scelta che affrontare la situazione e vedere cosa sarebbe successo. Sulla sua faccia si formò un sorriso malvagio, che la vistosa fasciatura che aveva sulla fronte, insieme alla giacca e la camicia macchiate di sangue, rendevano ancora più inquietante. Senza parlare mi indicò la sedia davanti a me. Mi accomodai. Continuava a fissarmi col solito sorriso. Io cercavo di non guardarlo. Poi all’improvviso allungò una mano sulla scrivania e prese il mio curriculum. Di quello che c’era scritto si vedeva lontano un miglio che non gliene fregava un cazzo.

Aveva altro per la testa, ed io, ne ero sicuro, tra poco avrei capito cos’era.

– Bene così sei disoccupato – disse con voce pacata.

Se il suo intento era quello di mettermi nelle condizioni di supplicarlo aveva sbagliato tattica.

– Tu avresti fatto la stessa cosa – dissi deciso.

– Qualcuno infatti ti ha detto che hai sbagliato?

Li per li non riuscii a dare un senso a quella risposta.

– Senti cosa vuoi! Vuoi denunciarmi? Vuoi sbattermi fuori a calci? Fallo! – tagliai corto

– Ma io non voglio denunciarti. E voglio anche dartelo questo lavoro. Certo dovrai superare una prova, ma credo che per te non sarà un problema.

– Che prova!

– Il gioco della sedia fantasma.

Capii tutto.

– Allora? – gli chiesi sapendo già quale sarebbe stata la risposta.

– Allora se resisti più di un minuto e mezzo il posto è tuo.

Quelle parole me le sussurrò con aria complice. Come fosse un segreto intimo tra di noi.

A quel punto mi alzai dalla sedia e mi avvicinai alla scrivania. Poggiai le mani sul tavolo e mi piegai in avanti per avere il suo sguardo più vicino al mio. Poi parlai.

– Ci sto. Solo che lo faremo insieme.

– Cioè?

– Insieme. Se cado prima io me ne vado, se cadi prima tu, mi dai questo cazzo di lavoro.

Il sorriso gli si allargò ancora di più sulla faccia.

– Quando vuoi – disse allentandosi il nodo alla cravatta.

– No, quando vuoi tu – risposi allentando il mio.

Ero convinto che la segretaria si fosse accorta dell’espressione affaticata che avevo sul viso quando uscii da li, ma non mi importava niente.

Prima di entrare in macchina lanciai un ultimo sguardo in direzione del palazzo.

Lui stava li, affacciato ad una di quelle tante finestre.

– Al prossimo gioco caporale… magari per un aumento sulla busta paga – mormorai a denti stretti.

Poi montai, misi in moto e andai via.

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