Racconti nella Rete 2010 “L’illazione del tempo” di Eleonora Salto
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010Era sera o notte o mattina. Io non potevo sapere che ore fossero perchè era uno di quei momenti della vita di ciascun essere vivente, in cui il tempo, non ha ragione d’esistere. Tutto si muove dentro a te e la realtà non segue più il tuo ritmo o sei tu a non seguire più il suo. Guardi quelle strane, piccole, lancette girare e ti dici che in fondo, anche quando gira una volta sola, nel silenzio della tua casa, per quel solo secondo, il tempo sembra vincere la battaglia su di te.
Ma allora non m’importava di capire se ero io che dovevo seguire il tempo o il tempo a non essere vero, né giusto, né clemente con chi vive. Sapevo solo di essere lì e non potevo essere altrove. Sapevo solo che non potevo chiedere ad un altro di sopportare il dolore perchè era parte di me ed in me confluiva, come io confluivo nella sospensione del tempo.
In un termine generico, potremmo definire il mio stato, in dissociazione, ma io non ero dissociata, ero solo investita dalla realtà e giuro, non avrei potuto non esserlo, La realtà mi aveva investita e solo riflettendo su questo termine potreste capire, quanta roba e quanto pesasse la realtà mentre mi cadeva addosso.
Ma è così, niente di più semplice che cercare di vincere la propria battaglia personale su ciò che non puoi combattere mai: la vita.
Generiche fitte, che via, via si alzano. Trottano, e poi galoppano per arrivare a fondersi e farti disconoscere la realtà, perchè tutto diventa dolore, e dove nel dolore, tu provi a te stessa, di vivere e non puoi più fuggire o negare…Devi solo attendere…solo attendere…attendere. Come in una campana che scema.
E così,poi, mi trovavo in un ospedale, in una sala che non ricordo che nome avesse, con altre donne che non ricordo che facce avessero, ma del buio quello si, che ricordo. Lui regnava indisturbato, al di fuori del corridoio mentre io sentivo l’onda crescere e come, in una grande mareggiata avvolgermi, stringermi, soffocarmi ed infine con lentezza, ma proprio senza fretta, lasciarmi poco alla volta libera.
Le ore passavano, non che io lo sapessi perchè per me il tempo, da tempo, manteneva la stessa non forma, indistinguibile e beffarda. Giocava con me e io non potevo fare niente se non assistere al suo svolgersi, involversi, avvolgersi ed avvolgermi per poi mollarmi al dolore vero e proprio e alto e forte che saliva in un gioco di toni alti.
Il medico mi stava portando in una sala. Strana gente trafficava davanti a me, ma io non li vedevo. Io ero intrappolata in quella non forma di vita, non tanto diversa da quella che avevo visto in mia madre, morente.
Anche lei, aveva visto le onde crescere, tramutarsi in forza, travolgere tutto…e di lei alla fine, non era restato che un corpo. Finito, altro non c’era più.
Ma le mie onde mi avevano portata lontano. Quando le avevo sentite arrivare, nel buio del silenzio che mi circondava, avevo solo pensato che di me non sarebbe restato nulla. Che dovevo cercare la luce, in quel buio, in quel dolore, in quella fatica. E così, alla fine, era giunta l’ultima vera onda ed in lei avevo trovato conforto, abbandonato il mio corpo e visto finalmente la luce afforare.
Un pianto, dapprima piccolo e soffocato.
Un viso arrossato, dalla testa allungata.
Delle manine che annaspavano rabbiose in cerca dell’unica ragione di vita…l’amore, il nostro
Questo racconto è stato scritto di getto. Le mie mani e la mia mente erano mosse da qualcosa che generava in me questa forza creativa. Credo fossero l’esperienza della vita e il dolore che appartiene ad essa. Ringrazio quelli che apprezzeranno il mio scritto sin da ora.