Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “Estremità invisibili” di Martina Ilari

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

Una fotografia, due, tre. Le dita premono, si infilano nel computer, afferrano gli spazi. Quattro, cinque, una cartella, un’altra ancora, come una matrioska interminabile: non finiscono i pezzi, non finiscono. Foto, Foto1, Foto2, Video, VideoOK. Sentieri intrecciati uno dentro l’altro, fa caldo, la foga di arrivare alla fine consuma gli attimi. Mancava una settimana all’ultimo esame, avevo chiesto a Francesco di prestarmi il suo computer, il mio giochetto era troppo lento e meno avanguardistico, intasato di inutilità e mai sfiorato da backup, scansioni e terminologie incomprensibili. Play, 32 secondi, le dita martellano la scrivania. Da una stanza scura parole sussurrate come il sibilo di un uomo rauco: “Dai salutami”, l’inquadratura insiste su una bambina e il suo disagio, “La conosci Peppa Pig?”, strisce grigie, fine. I clic diventano tuoni di cannone, le pupille riproducono gli stessi fotogrammi: i sorrisi, la piccola forma delle unghie, i sandali con gli occhi e le cuciture ai lati. Rita, 5 anni: capelli lisci biondi, la riga in mezzo, l’iride striato dalle venature. Cristina 4 anni, due codine sopra le orecchie, la collanina di hello kitty vicina all’obiettivo e la mano sinistra appoggiata con accortezza sulla culla in cui dorme il fratellino di tre mesi, a pugni alzati. Marta 5 anni, dietro il vetro della scuola materna con la lingua operosa tirata fuori e le guance sporche di colori a tempera, i capelli disordinati come fossero di lana. Quaranta, cinquanta volti mischiati a nomi, a frasi, a tenerezze. La vita inghiottita di colpo da un vuoto che azzera la memoria e infligge la sua condanna su un innocuo triangolo verde, play: “Ti piace il gelato?”, “Sì buono”, “Vieni con me, ho portato anche Peppa, facciamo una magia insieme e te la faccio vedere”, “Dov’è Peppa?”, insiste la bambina, alberi al tramonto. Reset. Gli angoli di quelle strade diventano fili aggrovigliati di uno stesso, impietoso vestito sporco. Le sinapsi tornano a girare come la ruota metallica di un vecchio congegno arrugginito, è Garbatella, dietro al bar con i tavolini all’aperto, dove ho fatto le elementari. La mia stanza diventa un loculo cubico, oppressa dagli otto anni d’amore e dalle promesse incastrate tra complicità e distanze. Rincontrai gli attimi, i film in streaming con la birra, gli aghi e i fili con cui da feriti avevamo rammendato gli orli sfilacciati, l’asciugamano piccolo con due bambini stampati abbracciati in un fiore di zucca che mi regalò a Natale. Il mio corpo era troppo piccolo e impotente per trattenere quel grumo impazzito. Francesco, in poco tempo ingegnere aerospaziale per emanciparsi dai vestiti impregnati di gesso e dalle dita callose, per fuggire dalla vita del padre, dal terrore che sarebbe stata la sua. Il portatile l’aveva guadagnato dopo una notte insonne a gomiti larghi all’entrata del centro commerciale. La chiavetta nera lasciata nella custodia non l’avevo mai vista. Mi tocco il collo a volerlo penetrare, per aggrapparmi a un presente corporeo che svanisce in un attimo tra allucinazioni, invenzioni e razionalità apparente. Mi infilo in gola due pezzi di sushi presi al ristorante sotto casa, il riso è una poltiglia di intonaco, qualche goccia di soya cade sul piumone.

Francesco non risponde, il martedì gioca a calcetto, con le casacche fosforescenti che puzzano di umido stantìo e gli integratori bluastri a bordo campo. Pensavo a mia madre lontana, ventimila euro per insegnare italiano sei mesi in Somalia e i pacchi di fotografie che ci inviava con occhi profondi, mosche sul naso e lunghe panche di legno simili a quelle della chiesa. Il telefono squilla a vuoto a casa di mio padre. Non tornavo in Puglia da parecchi mesi, Torino e Bitonto sono troppo distanti e Francesco partiva tutti i weekend, spesso anche dal giovedì, rendendo più sopportabile il mio confino studentesco.

Nella mente il vento in faccia. Ho sempre tolto dall’armadio a metà marzo la giacca nera di pelle, ogni volta con lo stesso rituale: la pellicola di plastica sfilata come il velo di una sposa, il numero della lavanderia strappato, i graffi ritrovati e le righe del tempo, come sugli alberi. Quando la indossavo immaginavo i capelli volare sulla visiera, le righe bianche dell’asfalto, i rinforzi ai gomiti e alle ginocchia e il casco integrale. Il mio incantesimo era invece la vespa rossa in garage, gli occhiali a goccia e il profumo degli azzurri di Polignano, sarà che quel sole, l’eremita nel mare, la fiorona e riso patate e cozze scaverebbero nostalgie anche sotto i grattacieli di Manhattan.

Casa di mio padre, un accumulo decennale di fatti e personaggi nello studio scuro, una proiezione fedele della sua esistenza dedicata ai libri e alla scrittura, un genio della filosofia ombroso e scuro come quelle quattro pareti in cui aveva trascorso quarant’anni di vita e trascurato mia madre. Gli spazi e gli elementi immutati: il compasso di noce, il mappamondo lucido, le gocce di pioggia essiccate attaccate ai vetri. Per un attimo mi sembra di sentirlo respirare nella pipa, rimuginando tra le righe nei fogli segnati a penna. Gli anni e gli eventi l’avevano privato di umanità, pesanti come una lastra di marmo che si tenta di sollevare con il solo aiuto dei deboli polsi artrosici irrigati di sangue. Uno scatolone altera la semplicità apparente di quel compresso ordine geometrico. Dieci, venti, trenta videocassette. Il mio corpo si irrigidisce in un un brivido, in un lampo scintillante da tempia a tempia come un attacco emicranico, le gambe tremano scomposte e insopportabili, poi le dita delle mani, il palato, i denti. Spingo la prima con violenza nel videoregistratore, semicoprendo gli occhi, come il bambino che ha paura dei mostri. Tante inquadrature uguali alle altre, la stessa infanzia, “ti ho comprato il costume per la piscina”, “più tardi arriva anche Peppa Pig”. Un mondo parallelo si era impadronito di me. Nel quarto video appare un anello nella mano sinistra di chi riprende e di colpo Bologna, io a cinque anni con mia madre alla ricerca della casa di zia Rossana. Al bar centrale incontrammo una signore sulla cinquantina con il viso da uomo d’affari e il sigaro in bocca. Aveva un anello con una pietra: “Giada come il nome del mio cane” disse, premendo inorgoglito il dito sul bracciolo della sedia e mio padre fece 600 chilometri per andarselo a comprare. Era vistoso e inelegante, una pietra verde incastonata nell’oro giallo, mi ricordava i mercanti del suk di Marrakech, tra gioielli berberi e foglie di menta. Tante volte provai a nasconderglielo ipotizzando una sua dimenticanza tale era il mio ribrezzo, ma non riuscì mai ad infilarmi nel suo cerimoniale quotidiano: sul bordo del lavandino prima di lavare le mani, sul comodino la notte prima di andare a dormire. Le immagini scorrono, trattengo il respiro con lo stesso terrore che mi accompagnava alle sue spalle quando suonava il pianoforte, con la paura che si accorgesse di me. La sua testa era china in avanti, il mento a tratti agitato, le mani avide sui tasti; le nocche arrossate, i tendini rigidi sotto le pieghe della pelle. Talvolta, quando avvertiva lievi spostamenti d’aria, ruotava il collo per scovare qualcuno dietro di lui, con gli occhi semiaperti e meditabondi. Lo immaginavo a fracassare la pedaliera o a pestare coi pugni i tasti inveendo per quell’ingerenza. La mia testa adesso disegna quelle striature verdi che mi hanno sempre fatto pensare alle radici intricate di una pianta o alle vene in rilievo di un polso poco abbronzato. Ingoio tre dita di vermut da un bicchiere opaco rigato ai lati e lo lascio lì, con l’alone del mio alito misto a saliva e la bottiglia aperta sul tavolo, con il tappo appiccicaticcio al lato.

Le uniformi dei carabinieri e i loro bottoni dorati luccicano sotto il neon del commissariato, una camera iperbarica che comprime gli attimi, i respiri non armonici e un sibilo affannato. La mia solitudine trova spazi di quiete tra le domande poco carine di estranei. Francesco aveva scoperto i divertimenti di mio padre quando mi ero trasferita a Torino e insieme avevano optato per il mutuo soccorso: mio padre gli dava dei soldi e Francesco non avrebbe parlato, soldi con cui riusciva a camparsi, divertirsi e raccontare ai genitori strabilianti storie inventate di soddisfazioni lavorative. Io non ho mai visto, mai sospettato.

Nell’aula delle udienze mio padre disegna gli spazi senza vederli realmente, come pagine di un giornale sfogliate e non lette: l’angolo tra le sedie e i tavoli, gli aloni della moquettes, il riflesso verdone delle lampade delle scrivanie. Si mozzica le unghie con un impeto violento, la pelle zigrinata dalle sagome dei denti si vede a pochi metri di distanza. Dieci maschere bianche, decine di paia d’occhi scrutano i loro simili come un medico coi pazienti. Madri, padri, zii, zie, nonni con le gote rosse e lo sguardo inacidito. Rumori pesanti, taccuini, notizie aggiornate, tempi reali e giornaliste all’ultima moda che difendono la loro mattonella. Il suono stridente del campanello proietta l’impazienza al suo apice, come il muezzin con l’altoparlante richiama la comunità alla preghiera. Davanti ai miei occhi, due sagome sfogate. Pretendevo di placare i vortici che avevo intorno con la sola incredulità sospesa. Quando una donna entra nelle meschinità di un uomo, nel suo essere tracotante e animale, può solo galleggiare impotente e sola. Quel giorno mi spaventò vedere uomini rimanere spauriti di fronte al loro destino come il pulcino davanti al leone, loro che erano stati soldati, per tutta la vita.

 

 

 

 

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4 commenti »

  1. Mi piace la tua scrittura densa e corposa, e l’intensità che sai dare a dettagli, oggetti, momenti.

  2. Mi piace il tuo modo di scrivere, di costruire le frasi e le immagini, il ritmo che dai alla prosa. Mi ci rivedo.
    Complimenti.

  3. Flash su una mostruosità che non è raccontata ma si percepisce ad ogni riga. L’epilogo chiarisce tutto: solo la sensibilità femminile può smascherare l’osceno che la solidarietà a pagamento tra maschi avrebbe permesso di perpetrare.
    Angela Lonardo

  4. Grazie di cuore per aver letto il racconto e per i vostri commenti lusinghieri. Martina

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