Premio Racconti nella Rete 2014 “Diario del turista” di Giovanni Valentini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Caro diario,
Ci avrò pensato sù almeno quattordici volte, quella volta, prima di partire senza alle spalle un corposo corso d’inglese in grado di aiutarmi ad affrontare le piccole ma vitali interazioni da turista.
Sì perché, ripensando all’esperienza dell’anno precedente, non riesco a capire con quale incosciente presunzione abbia potuto pensare di intraprendere quel “Germania on the road” e fare il Kerouac delle Puglie con all’attivo solo due parole – “buongiorno” e “birra” – senza rischiare di rimanerci secco.
E certo, perché una volta soddisfatte le fisiologiche necessità di idratazione corporea ti ritrovi in un limbo, in balìa degli eventi, dove il prevedibile destino è quello di patire freddo e fame, immobile, impalato al centro della strada, sotto gli occhi dei passanti che si interrogano sulla tua reale sanità mentale.
L’ultima volta, invece, mi sono attrezzato e ho puntato al meglio: grazie a quell’infallibile strumento sociale del passaparola sono venuto a conoscenza di un’arzilla insegnante madrelingua, attempatella ma ancora energica, che mi ha fornito tutti gli strumenti necessari a intrattenere una lieta conversazione con gli abitanti di quel delizioso paesino rannicchiato tra le spumose colline delle Midlands verso il quale ero diretto.
In realtà, nella scelta del corso, ho dovuto snocciolare un po’di alternative e analizzare un ampio ventaglio di opzioni, ossia:
1) Corsi online tenuti a lunedì alterni in videoconferenza dal lungomare di Nuova Delhi;
2) Pratici e-book leggibili su un solo dispositivo: il più piccolo e accecante;
3) Lezioni frontali intensive tenute da docenti certificati dalle migliori università pagabili previa vendita al mercato nero di un congiunto entro il terzo grado di parentela;
4) Piattaforme social appositamente studiate per metterti in contatto coi peggiori sniffatori di colla seriali;
5) Audiolibri narrati da allevatori di canguri da traino con la erre moscia.
Alla fine non ho avuto difficoltà a scartare gradualmente le alternative che mi lasciavano sospettoso: diciamo che ho scelto di puntare sul classico optando per l’insegnante old style dai capelli color ruggine che ha tutta l’aria di aver frequentato le elementari con la regina Vittoria.
Bei tempi, quelli.
Armata di quantità bibliche di tè Earl Grey e biscotti al burro (che sono tuttora in fase di digestione), in un solo mese la signorina McWoodencake mi ha abilmente addestrato gettando delle solide basi linguistiche coronate dalle espressioni di uso più comune, così, giusto per non fare la fine del turista che comunica servendosi solo di suoni gutturali tipici di un gabbiano intrappolato nel traffico dell’ora di punta.
Tuttavia, come ben sai, mi si rimprovera spesso di essere un po’ troppo pignolo ed esigente, ma, caro diario, quello che mi aspettavo dall’interazione con la gente del posto era qualcosa di leggermente diverso.
Ci tengo a precisare che sono assolutamente soddisfatto delle lezioni d’inglese della signora McTortaDiLegno, per carità. Il suo approccio pratico mi ha sempre deliziato: non faceva che ripetermi “in Italia ho imparato che un caffè chiesto col verbo al presente ha lo stesso sapore di un caffè chiesto col congiuntivo imperfetto”, e la adoravo per questo.
Ad ogni modo, osservando l’espressione di alcuni simpatici abitanti del ridente paesino, ho avuto come la sensazione che alcune delle espressioni che ho imparato da lei sarebbero state perfette se la guerra dei cent’anni non fosse ormai finita da un pezzo.
Ricordo di essermi imbattuto nella bancarella di un rosticciere, durante una fiera locale, e di essere stato conquistato dal delizioso profumo di soffritto di non-importa-cosa che aleggiava nella piazza.
Così, affamato come un rinoceronte col vizio dei video poker, dopo essere riuscito a schiodare gli occhi da tutte quelle prelibatezze dorate e fragranti esposte davanti a me, salutai cortesemente l’uomo al banco chiedendo un pezzo di pasticcio di carne e patate (quella roba dall’apporto energetico calcolabile in chilowatt) e mi misi in attesa di veder sortire qualche effetto dalle parole appena pronunciate.
Macché.
L’ometto baffuto al di là del banco mi fissò in silenzio. Notai sul suo petto un piccolo cartellino che indicava il suo nome. Lo ricordo ancora… Charles!
Lentamente, l’angolo destro della sua boccuccia si sollevò, quasi mosso da un filo invisibile, e si lasciò sfuggire un risolino delicato, dal suono simile a quello di un neonato che sonnecchia.
Charles mi guardò incuriosito.
Ricambiai lo sguardo comunicando con gli occhi che, per quanto avessi piacere a osservare quell’allegra facciotta frizzantina, 1) avevo fame e, 2) due giorni dopo avrei dovuto prendere l’aereo che mi avrebbe riportato a casa.
Tutto ciò accadeva mentre dentro di me si faceva strada il timore di avere sbagliato qualcosa nella pronuncia e avere inavvertitamente offeso i suoi avi accusandoli di essere dei ladri di bestiame dall’alito pesante.
Fu allora che, onde evitare incidenti diplomatici, ricorsi all’extrema ratio (pare che si dica così nel Kashmir orientale) del suono gutturale da gabbiano di cui sopra. Tolsi a Charles l’occasione di ribattere “A sòreta” affrettandomi a indicare timidamente quel pasticcio fumante stirando un sorriso imbarazzato e con la tipica espressione “Ah, a proposito, ti ho inavvertitamente espanso il barboncino facendo retromarcia. Pardon.”
Il grazioso omino dai baffetti grigi mi rispose gentilmente, sorridendomi e servendomi il mezzo cottage pie che gli avevo chiesto, e fu allora che notai… una dissonanza… una discrepanza… qualcosa che non tornava alle mie orecchie.
Realizzai quanto la sua risposta suonasse diversa e lontana anni luce dalla mia domanda. Non era ovviamente questione di pronuncia, figuriamoci se la signorina McWoodencake mi avesse trasmesso l’accento del Worchestershire.
Era qualcosa di più profondo… Era proprio una questione di lingua!
In quel momento compresi come il mio semplice “Buongiorno, potrei avere un pezzo di cottage pie, per favore?” fosse suonato alle orecchie di Charles come “Salute, buon uomo. Mi è concesso, di grazia, ghermire un tozzo di codesta succulenta pietanza?”.
Sollevato dal fatto di non aver inflitto alcuna irreparabile onta agli avi dell’amabile Charles, presi il mio incarto caldo, ringraziai e girai i tacchi disorientato.
Il mio inglese non era male, semmai era solo un po’fuori moda, amabilmente arcaico e con una nota aulica.
Trascorsi il resto del pomeriggio ruminando il mio pasticcio di carne, vagando per il paesino e godendomi il fresco vento che si faceva strada tra i salici.
Quella sera, quando del caldo sole primaverile non restava che una delicata corona dorata dietro le nuvole all’orizzonte, realizzai come le mie orecchie fossero come svuotate dal caos martellante della città… Così tanti rumori che non ti appartengono e che ti affollano il cervello, che entrano a far parte del tuo DNA al punto da sentirti come a disagio quando non avverti nulla…
Riabituarsi al silenzio e ricordare la sua forma. Ecco cosa ho riscoperto tra quelle colline.
Quello che ne è stato dopo lo sai già.
Nel mio caso, le lezioni della signorina McWoodencake sono state più che utili. Direi vitali. Certo, un buon corso può fornirti le basi teoriche della lingua e prepararti a districarti dignitosamente in molte situazioni, ma sarà solo ascoltando, riascoltando e stimolando la capacità della mente di mettere insieme le tessere che compongono il puzzle linguistico che sarà possibile avere la piena padronanza della lingua e renderne automatica la pratica.
Ora scusa ma devo scappare, sono in ritardo per il MIO di corso d’inglese.
A presto.
P.S.: Ti ho raccontato che, oltre ai corsi serali per adulti, tengo delle lezioni di inglese medievale anche presso il liceo della contea? Devo ricordarmi di spedire un cottage pie alla signorina McWoodencake: così, giusto per ringraziarla e farla sentire un po’a casa…
Un umorismo fine. Forse dovrei scriverlo in inglese.
Grazie! Sì, in effetti ho pensato spesso di tradurre i miei racconti in inglese…