Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “Lunga esposizione” di Ilaria Gaudiello

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

Lei, aveva tutto il tempo di ricordarseli i suoi inferni.

Il primo amore si attardava sui Lepini, e disegnava spesso tartarughe quasi del tutto rientrate nel guscio.
Il secondo amore si abituava alle risaie del novarese, e trattava il suo cane come un figlio.
Il terzo amore rinnegò la baia puteolana, ed ebbe molta paura quando incontrò un cinghiale nel bosco.
Il quarto amore reagì alla carica di un vitello pontino senza minimamente scomporsi.
Il quinto amore le regalò un uovo di cioccolata, e lei ricambiò con una gallina di cioccolata.
Il nuovo amore, non aveva né demoni né totem, e nemmeno controfigure.
Ma se la diede a gambe nel momento stesso in cui lei lo scelse.

Più precisamente: prese un bus, poi un treno, poi un aereo.  Atterrato a Thopodupuzha comprò una Royal Enfield 350cc del 1997 per 80.000 Rupie – e la rivendette alla fine del viaggio, in condizioni pessime, a 65.000 Rupie. Su una cartina, mise quanti più chilometri poteva tra lui e lei. Si caricò a spalla due corpi macchina Canon EOS 5D MKII, un 50mm f1.4, un 24mm f2.8, un 85mm f1.8, un 16-35 mm f2.8, un telezoom 100-400 mm f4.5/5.6, un flash, che probabilmente non utilizzò, e un portatile 13 pollici. La moto, la chiamò Amanda:  perché non ci si mette in viaggio su un mezzo a due ruote da Thopodupuzha a Nuova Delhi senza prima averlo battezzato.

Voleva vedere i tuffi santi nei fiumi santi. Voleva vedere come una highway si trasforma in mulattiera. Voleva vedere i camionisti salmodiare seduti sulla loro carcassa di lamiere bevendo Chiaia dopo un incidente quasi mortale.  Voleva fare tutto questo lontano, lontano. O almeno, lontano da lei.

L’India avrebbe potuto essere questo lontano. Se, dopo i primi chilometri in sella all’Amanda ruggente, un insetto altrimenti insignificante non avesse sorvolato la strada nel senso di marcia opposto, saettandogli nel casco, e accecando il motociclista in corsa con la stessa repentina incongruenza con cui lui, l’insetto, moriva, accorciando in modo del tutto imprevisto il suo già di norma breve terzo ciclo di reincarnazione.  Visualizziamo: questa connivenza di uomo e veicolo che diventano centauro giusto il tempo di imbizzarrirsi; questa zavorra che si stacca dal dorso, rotolando per metri e sparpagliandosi in obiettivi e cavi, bulbi e ; questo centauro che ridiventa uomo frizionando ogni velleità di eroica traversata in un paese tutto da fotografare, scendendo dal veicolo, cercando di espellere l’iridescente animaletto dall’iride offeso, piantando il cavalletto su un terreno morbido, troppo morbido, precipitandosi a recuperare il bagaglio caduto prima che l’arrivo imminente di un camion faccia all’attrezzatura fotografica quello che l’insetto ha fatto al suo occhio, accorgendosi che  è troppo tardi per evitarlo, voltando la testa indietro verso il veicolo lasciato in sosta, constatando che il terreno era così morbido che il suddetto veicolo rovinava su un fianco a discapito di specchietto sinistro, paramotore, spoiler faro, staffa del clacson, serbatoio. Con l’unico occhio sano rimasto, e un minuscolo esoscheletro colloso e colluso (col destino) in una mano, lui, l’uomo,  rimane a guardare il rigagnolo di carburante che la Royal evacua affranta e impudica, chiedendosi per quale pietosa combinazione ha perso in pochi secondi la vista, gli strumenti del mestiere, quindi il mestiere, e infine anche l’Amanda.

L’amata invece, non ne seppe mai niente. Ogni sera, circospetta come l’investigatore di un reato scomodo, si metteva a comporre in versi retrospettive accorate per ricostruire la balistica di una fuga, la meccanica di quell’individuo in fuga. Era ottobre quando lui l’aveva portata nelle ex-vigne di famiglia, o nelle vigne della ex-famiglia, in fondo alla Loira. I tralicci ricamavano la collina, e l’arancio pulviscolare del tramonto con il blu dei chicchi mettevano addosso una voglia di futuro che la metà sarebbe bastata a convertirsi a qualsiasi religione o quasi.  A dicembre l’oceano si era ritirato sulle coste della Bretagna, lasciando nudo un paesaggio lunare che iniziava dopo il bagnasciuga e continuava fino a dove solo chi stava ridisegnando la geografia di quel posto poteva sapere, e un esercito di cacciatori d’ostriche era apparso dal nulla avanzando a falcate ampie nei crateri. Loro due avevano interrotto il pranzo per andare a pesare le stelle marine sul palmo della mano. Verso aprile visitarono i menhir, insieme ai genitori di lui, e ai rispettivi bastoni. I menhir erano più bassi in certi campi, e più alti in altri campi, allineati come una dentizione sacra della terra. Tra l’ocra inter-rail dei capelli di lui, l’argentato delle rocce levigate a schiera, e il bianco  alcalino dei sorrisi  dei genitori, ogni cosa si corrispondeva in una gamma di colori prossima all’eternità. Ad Agosto, parteciparono alle gare dei portatori di frutta bendati, nelle isole del golfo. Lei smise di fumare, e lui fumava sigarette dal lato sbagliato, dicendo che era l’aria che il mondo si dava a dover essere filtrata, e non il tabacco. Nel momento in cui l’anno solare e l’anno lavorativo cominciavano appena a divorziare, affittarono un appartamento all’ultimo piano, in una Roma carica di terrazze rampicanti, di viste spioventi su storie dal piedistallo facile, lenta nei commiati tra amici sulla porta di casa, con un piede appoggiato sui vasi di citronella, e ancora una cosetta mordace da dire. Nella cucina, entrava talmente tanta luce che qualunque cosa si decidesse di lessare, friggere o abbrustolire, bisognava passare una mano sui fornelli per accertarsi che fossero accesi. Le fiamme erano del tutto invisibili, fuoco nei raggi, luce nella luce. Bisognava anche fare colazione con gli occhiali da sole. E dormire sul lato meno rovente del letto, l’uno il sudario dell’altra. Finché un giorno lui evaporò, lasciandola in quella sagoma da delitto, in quel contorno irrisolto, in quell’ombra ottusa.

E ora eccolo fare colazione con quattro spremute a Santra Nagari, raspare avvilito sul ciglio della strada, oracolare il responso del meccanico. Eccolo rimuginare su tutti i primi piani e le lunghe esposizioni mai azzardati. Eccolo pedinare con il suo sguardo ciclopico la bambina col vestito a coda di pavone che fa la spola tra due villaggi tutte le mattine e gioca con una cannuccia nera infilata in un cubetto di ghiaccio bucato, fin quando il ghiaccio si scioglie e la bambina rimane con la cannuccia nera in aria. Eccolo sbattere tre volte le ciglia davanti ai bouquet di fiori poggiati con garbo su ogni traccia di sterco di vacca sul terreno asfaltato e non. Eccolo al risveglio spiare dalla serratura del suo alloggio se i palazzi abbiano cambiato di posto durante la notte. Eccolo scrutare gli orizzonti in cerca di un segno che gli dica se rimanere o partire. Eccolo dichiarare che dell’India non ci capisce nulla, meno di nulla. E negoziare la cessione della moto a un conducente di tuc tuc.

– Non ce l’ho la patente per questa – obietta il conducente del tuc tuc.

– Prendila lo stesso – gli dice lui. Ci farai crescere intorno una siepe, una siepe in forma di Amanda, e i fiori li userai per metterli sullo sterco di vacca.

In aeroporto gli chiedono se vuole un visto per l’Italia federale o per quella lealista. Avrebbe la gentilezza di ripetere? Risponde, mentre cerca di ricostruire il ricordo di Roma come la somma di tutti gli scorci visti da tutte le terrazze.  All’atterraggio il cellulare emette i seguenti messaggi.

Benvenuto, per conoscere le tariffe di roaming, chiamate ed sms per l’Italia federale prema asterisco. Per conoscere le tariffe di roaming, chiamate e sms per l’Italia lealista e estero, prema cancelletto.

Il saldo dell’apparecchio dei denti dei tuoi figli è un salasso, se non torni avranno sorrisi da mostri.

L’Istituto di Fotografia Popolare la invita  a rinnovare il suo tesseramento annuale per continuare a beneficiare delle nostre iniziative e riduzioni. Le ricordiamo inoltre che la data limite per la restituzione del materiale non è procrastinabile (consultare l’ufficio amministrativo per prendere conoscenza dell’ammontare della mora).
Sudando a profusione spegne il telefono, taglia l’aria e il chiasso a passi grandi, si acquatta in una cabina telefonica, ne esce con una camicia diversa, riaccende il telefono. Che, per un difetto di fabbrica, intitolava tutti i messaggi “nome di artista sconosciuto”.  L’operatore telefonico, la sua compagna, l’Istituto di Fotografia e Arte Popolare erano tutti artisti sconosciuti. Che vita agra dovevano  fare.
Dalla cabina alla casa incontra: un uomo inginocchiato che ricolora le strisce del parcheggio a suo arbitrio, un pre-adolescente che ottura un formicaio con una bottiglia d’acqua a testa in giù, una signora sulla settantina che chiede al semaforo lisciandosi un doppio mento di trina con una mano e rigirando le perle degli orecchini nell’incavo di una montatura dorata con l’altra mano: ma il papa, la vedeva Giovanna d’Arco mentre bruciava? E i bambini in fondo al pozzo li vedeva? E a quelli color caffellatte, gliele scriveva le lettere? O qualcuno le scriveva al posto suo?

E ne conclude che nemmeno dell’Italia ci capisce nulla, proprio nulla. E che il modo più certo di sapere quanto tempo aveva passato lontano da questa Italia, o da queste Italie, era chiedere ai suoi presunti figli con sorrisi da mostri quanti anni avessero. Quindi in piedi al centro dello zerbino – su cui, della scritta  “Le mille e una notte” non rimaneva che “una” – si strofina bene le scarpe, su quell’una, e invece di bussare alla porta torna indietro, esce, prende verso la scuola elementare di quartiere. Pedinamento di madri con bluastre sacche di sport, pranzi senza glutine,  flauti esorcizzati, compassi in formalina, regoli posticci. Sosta all’edicola. Ripresa della marcia su marciapiedi che si inarcano come per espellerlo dalla città. Arrivo alla scuola. Corruzione di bidello con giornale dello sport. Attraversamento di corridoi e ispessimento progressivo delle due file laterali di giacche a vento, mantelline, giubbotti jeans e k-wai su appendiabiti a perdita d’occhio. Ingresso nell’aula IV F, bocca aperta della maestra,  bocca spalancata dei bambini. Ispezione dei denti. Riconoscimento dei mostri. Dei mostri gemelli. Dei mostri gemelli con un padre con un occhio solo. Rapimento benevolo di entrambi.

Venti minuti dopo, nella cabina telefonica del cambio di camicia, stipati padre e figli.
– Diciamo pure che sei nostro padre. Diciamo. Allora che ci facciamo in questa cabina. I padri non portano i figli nelle cabine. Se volevi davvero sapere quando siamo nati, potevi portarne via uno solo di noi dalla classe. Che tanto la risposta è la stessa no? Comunque mio fratello non è capace di dirti la data giusta. Lui mette i due dappertutto.

– Dappertutto dove. Quali due.

– Dappertutto. Lui conta a partire da due. Si lava la bocca con due spazzolini. Di notte sente rumori a due a due. Sente una frenata, sente abbaiare, dice che sente una frenatabbaio. Ha pure due fidanzate.

– Cretino. Non è vero.

– Sì che è vero. E una delle due sa di colla Print, me l’hai detto tu.

– Cretino.

– Adesso chiamiamo vostra madre e lo chiediamo a lei se è vero. Ecco che ci facciamo nella cabina. Prendiamo la cornetta rossa e chiamiamo vostra madre. E le chiediamo se è vero. Poi ci trasformiamo e usciamo di qui. Porco mondo. Siete la mia copia sputata e non so nemmeno se vi assomigliate, perché vi vedo uno alla volta. Fate quel numero. Fatelo subito.

 

 

 

 

 

 

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2 commenti »

  1. Ilaria, non so che cosa dire. La lettura del racconto è scorrevole ma mi sento preso in una spirale di situazioni, ben definite e per nulla assurde. In tanta confusione però il protagonista si muove bene, va in ansia o angoscia solo trovandosi difronte i figli che gli assomigliano. Mi vien da dire, la frase del mio amico di scuola Riccardo, “il mio cervello è preso a calci come un pallone”. Il racconto è bello proprio per le situazioni narrate e le belle espressioni sono tantissime, una per tutte: “I menhir …. allineati come la dentizione sacra della terra”.
    Complimenti Ilaria.
    Emanuele

  2. Bravissima Ilaria! La prosa brillante, ricco il vocabolario, originali i neologismi, serrato il ritmo, proponi immagini vivide, scolpite, facilmente riproducibili nella fantasia del lettore. Complimenti!

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