Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “Come la prima volta” di Andrea Fabiani

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

Penso spesso di uccidermi.
Ogni volta che mi affaccio da un finestra o da un terrazzo o comunque da una certa altezza, una vocina dentro di me mi sussurra: “Dai buttati”. Allo stesso modo ogni volta che, come adesso, sono sul binario di una stazione, in attesa di un treno, se ce n’è uno in transito la solita vocina mi chiede se non vorrei fare un passo oltre il marciapiede subito un attimo prima che passi il locomotore.
Che la vocina in realtà non c’è lo so. Cioè, lo so che è solo un modo in cui il mio inconscio elabora la fascinazione che provo per il suicidio.
Comunque, anche se l’idea di ammazzarmi mi affascina, non lo faccio mai. Lo penso e basta. Tra l’altro lo penso solo in queste situazioni, non credo che potrei in un altro modo. Con un coltello o una pistola, ad esempio non ci riuscirei mai, l’idea di usare uno strumento, rivolgerlo verso di me, mi terrorizza. Anche le pillole non mi ispirano, troppo macchinose. Se dovessi ammazzarmi sarebbe così, con un passo, un piccolo gesto, una grande conseguenza.
Queste cose al dottor Merlo, ovviamente non le ho mai dette, non posso, si preoccuperebbe troppo. E io non voglio farlo preoccupare, gli voglio bene.
È un bravo analista, il dottor Merlo. E lo dico con cognizione di causa, ne ho conosciuti tanti, nella mia vita. Tutte persone che fondamentalmente non volevano altro che sentirsi dare ragione. Li rassicura evidentemente, ne hanno bisogno. E credo che non potrebbe essere diverso, visto che vivono di interpretazioni e teorie. La mente umana non è una scienza esatta, risponde a schemi difficilmente interpretabili, e loro saltano di teoria in teoria con la solita faccia, una maschera di sicurezza dietro la quale ti implorano di dir loro che ti stanno aiutando, che non hanno sbagliato.
Sono persone che a me alla lunga mi annoiano.
Col dottor Merlo invece è stato subito diverso. Dopo due sedute abbiamo cominciato a non parlare solo di me, ma anche di lui. È un rapporto tra pari direi, onesto. Lui mi confida i suoi casini con la moglie e io gli parlo dei miei problemi con le donne e col sesso.
Non serve a nessuno dei due, ma è meglio che raccontare e basta, parlare e basta. Da tempo non mi chiede nemmeno più di essere pagato. Rimanda, quando la seduta è finita dice:  “poi ci aggiustiamo”. E mi accompagna alla porta.
Non so davvero chi aiuti di più chi. A me passare del tempo con lui rilassa, mi da tranquillità.
Quindi non è che posso dirgli che sento le voci, si spaventerebbe.
Che poi a dire la verità non è che sento le voci, ne sento una sola, sempre la stessa. Come se ci fosse uno dentro la mia testa che se ne sta lì e osserva e ogni tanto commenta quello che faccio, interpreta i miei comportamenti, mi da consigli, anche giusti spesso. In fondo ha solo questa fissa di buttarsi dai terrazzi o sotto i treni, ma poi per il resto mi aiuta, la voce, abbiamo un bel rapporto e spesso sono contento che ci sia.
Però al dottor Merlo non lo posso dire, no. Avrei potuto dirglielo all’inizio forse, ma adesso è troppo tardi. Si chiederebbe senz’altro perché non gliene abbia parlato prima. O peggio penserebbe che sia una cosa nuova. Lui ha paura delle novità, sta bene nella routine, come un po’ tutti in fondo. E poi finirebbe per pensare di aver sbagliato qualcosa, lo so, lo conosco, si convincerebbe di non avermi capito, di aver fatto male il suo lavoro. E alla fine si sentirebbe sicuramente inutile e ne soffrirebbe. E io non voglio farlo soffrire. Odio ferire le persone a cui voglio bene, mi fa sentire da schifo.
Alla fine sono buono, credo.
E oltretutto poi per consolarlo sarei costretto a mentirgli, a dirgli che è un bravo dottore, e io questo sinceramente non lo credo. Non è male, ma non è nemmeno bravo, la maggior parte delle volte non ci prende per niente, con me. Ogni tanto si, ma solo ogni tanto.
Per esempio una delle cose che mi ha detto in questi anni, e che forse non è proprio campata per aria, è che mi fisso troppo sui particolari, finisco per farmi affascinare dalla forma di un ricciolo, da un particolare taglio di occhi, perfino dal colore delle labbra di una persona, ingigantendo quel dettaglio fino a trasformarlo nella persona stessa. In questo modo, sostiene lui, faccio di quella persona una non persona.
Ecco, questa teoria credo che non sia sbagliata, non del tutto almeno. Una volta, per dire, mi sono innamorato alla follia di una ragazza che mi camminava davanti, in centro, dalla sottigliezza delle sue caviglie. Non c’è assolutamente niente di più amabile di una caviglia sottile, ho pensato quella volta, delicate sporgenze del malleolo, piccole concavità nella parte terminale della fibula. Un miracolo di architettura, ecco cos’ho pensato quella volta. E così me ne innamorai, di quella ragazza che mi camminava davanti in centro. Poi la conobbi davvero e rimasi deluso. Niente in lei era all’altezza del valore quasi divino che avevo attribuito alle sue caviglie.
Ora sto provando a fissarmi con dettagli non direttamente collegati alle persone: un paio di scarpe, una maglietta, o, come adesso, l’ondeggiare armonico di una piccola tazza legata ad una fibbia dello zaino.
È ipnotico, questo movimento, mi rapisce, mi riporta indietro attraverso un numero imprecisato di anni, verso il ricordo di un’altra ragazza, la più bella, la mia prima volta, Erika. Portava anche lei una tazza legata al suo zaino rosso. Una tazza bianca, con una sola scritta nera, in corsivo, fatta a mano: la parola “Leukòs”.
Mi raccontò che gliel’aveva donata il pope di Nikìà, un paesino dell’isola di Nisyros, nel Dodecaneso. Era stata sua ospite per una settimana l’anno prima. I suoi genitori erano morti due anni prima, aveva vissuto per un po’ con una zia che odiava, a Suzzara, poi aveva preso i soldi che aveva ereditato dal padre e era partita. Girava le isole della Grecia da più di un anno ed era per la seconda volta a Creta quando la conobbi.
Io avevo diciannove anni e praticamente non ero mai andato più in là del mio quartiere. Quella vacanza avrebbe dovuto essere un premio per il diploma. Io non ne avevo nessuna voglia, ma mia madre aveva insistito tanto, diceva che dovevo vedere il mondo, che alla mia età era la cosa giusta da fare. Ero partito con tre compagni di classe che in realtà odiavo. Dopo una settimana che loro hanno passato solo a bere e fumare una mattina li ho lasciati lì. Ho preso le mie cose, ho lasciato un biglietto e sono andato via. Tre giorni dopo, a una stazione degli autobus a Hania ho incontrato Erika.
Certe cose si capiscono subito, basta uno sguardo. Mi portò sulla spiaggia di Elafonissi, prendemmo in affitto una piccola casetta indipendente nel cuore di un uliveto, sul fianco della collina. Rimanemmo lì tre giorni. Il secondo si scottò, la sua pelle chiara come la sabbia della spiaggia divenne di un rosso acceso, e la sera mi chiese di spalmarle la crema sulla schiena. Si sdraiò sul letto e io mi sedetti accanto a lei, massaggiandola con una mano, poi con due, salendo a cavalcioni su di lei. Poi mi ritrovai a scivolare sul suo corpo. Era calda e profumata, profumo di eucalipto.
Il giorno dopo, all’alba, lasciai Erika e Elafonissi. Mi sentivo leggero e grande, mentre il sole allungava le ombre contorte degli ulivi.
Forse fu la prima volta che la sentii la voce. Mi disse: “ecco, questa è l’esperienza, non dimenticarlo mai. Impara a riconoscerla ogni volta che la incontri, la vita”.
Da allora viaggio sempre da solo, rende più facile incontrare persone, incrociarne la vita, legarsi per un breve piccolo istante, lasciarsi qualcosa a vicenda.
Tutto è cominciato con quella piccola tazza oscillante. Leukòs, bianco. Da quella parola, mi raccontò Erika quella volta, deriva l’italiano “luce”.
E come la luce di un faro mi attira anche la tazza che ho davanti adesso, che non è bianca, ma rossa a pois viola, e però ondeggia esattamente come quella di Erika. E forse la ragazza che la porta, che è bionda anche lei, e ha la pelle chiara anche lei, ha anche quelle fantastiche tette che aveva Erika.
La guardo e sorrido, mentre il treno si ferma. A volte basta niente. Le cedo il passo, la faccio salire prima di me sulla carrozza, sorridendole, e poi mi siedo nel suo stesso scompartimento. L’aiuto ad alzare lo zaino e a metterlo sul ripiano portabagagli.
Certe cose si capiscono al volo. Due persone sanno subito quale sarà il loro destino, capiscono al primo sguardo cosa si concederanno a vicenda. Tutto il resto, tutte le parole che di solito si dicono prima di arrivare a quel punto, sono costruzioni che ci impone la socità.
Jenny è dolce, ha la voce bassa, un po’ spaventata dal viaggio verso Milano da sola e di notte. Va a prendere l’aereo per tornare in Australia, a Camberra. Mi fa i complimenti per il mio inglese, e mi racconta tutti i posti che ha visto in Italia, mi chiede se li conosco, mi chiede come si pronunciano determinate parole. Io le rispondo con tranquilla gentilezza e poi mi lascio prendere e le parlo dei miei viaggi, dei miei sogni. Le dico che anch’io preferisco viaggiare sempre da solo. Mi sembra di parlare di nuovo con Erika, la stessa intesa, forse perfino lo stesso odore.
Poi arriva il momento, Jenny mi sorride con una luce brillante negli occhi e mi dice che deve andare in bagno. Esce dallo scompartimento e prima di richiudere la porta scorrevole si volta di nuovo e strizza un occhio. È allora che la voce dice: “ecco, è il momento”.
Aspetto solo un istante e poi la seguo nel corridoio, a metà lei si volta e ride. Scompare dietro la porta della toilette. Aspetto un secondo, poi busso. Lei apre e io faccio un passo avanti, le centro il cuore con il coltello e la spingo dentro chiudendomi la porta alle spalle. Do un mezzo giro alla lama, come sempre e ammiro la sua bellezza mentre la vita scivola fuori dai suoi occhi e la pelle le si fa ancora più bianca. Nessuna donna è mai più bella di quanto non sia nell’attimo esatto in cui muore.
E stavolta è anche un viaggio nel passato, mi chino verso di lei, verso le sue labbra, le accarezzo una guancia, sussurro “oh, Erika”.
Poi mi rialzo e faccio tutto quello che mi dice la Voce. È lei che gestisce queste cose, io non sarei mai capace. Tolgo i guanti e li getto nello scarico. Il coltello lo lascio lì, come sempre. Le prime volte volevo portarmelo via, ma la Voce mi ha ordinato di non farlo. “Hai presente i telefilm in cui ti fanno vedere sempre che un punto fondamentale è il ritrovamento dell’arma del delitto? – mi ha detto –  Non è vero”. Per questo io i miei coltelli li ho tutti abbandonati nel cuore delle mie ragazze. Ne compro altri, un po’ qua e un po’ là, durante i viaggi, mai due volte nel solito posto. “Accomodatevi, se pensate di trovarci grazie a quello”, dice come sempre la Voce.
Richiudo la porta, cambio scompartimento, vado a sedere davanti ad una coppia di anziani che dormono abbracciati. Lui russa come un trattore.
Il treno sfreccia nella notte, chiudo gli occhi e ripenso a quelli di Jenny, poi a quelli di Erika, in quella camera, la prima volta. La Voce mi dice: “ti lascio solo.”
Inspiro più forte: odore dolce, profumo di eucalipto. Lo lascio scorrere dentro, in profondità, mi da pace.
Uccidere mi da pace.
Nemmeno questo l’ho mai detto al dottor Merlo, direbbe come dicono i giornali: che sono un mostro. Cioè, non lo dicono di me ovviamente, il mio nome mica lo sanno, però lo so io che quando scrivono mostro è a me che si riferiscono.
Ma io non sono un mostro.
Ho solo dei problemi, come tutti.

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2 commenti »

  1. Caro Andrea ci fai conoscere un pluriomicida, un killer seriale che sembra vivere in ognuno di noi e che predilige i dettagli. Eviterò di viaggiare di notte sui treni.
    Ciao, Emanuele.

  2. 🙂 grazie

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