Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “A noi importa”di Edoardo Brosio

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

Leni chiamò una sera mentre rientravo dal lavoro.

“Devo venire a casa”, disse. Ma si capiva che non aveva intenzione di tornare.

“Che succede?”, le chiesi. Era da quando se n’era andata che non scambiavamo una parola.

“Non al telefono”, tagliò corto lei.

Provai ad alzare la voce, ma non mi riuscì. Volevo che pensasse che ce l’avevo con lei almeno un po’, anche se non era così.

“Vieni quando ti pare”, le dissi. “Tanto non vado da nessuna parte”.

Mi sdraiai sul letto ad aspettarla.

Fuori dalla finestra dell’appartamento si accese l’insegna del ristorante che stava di sotto, il Chop Suey. Erano giorni che una delle lettere era spenta.

Restava accesa fino a tarda notte, l’insegna del Suey, quando la strada diventava silenziosa e il mondo sembrava scomparire e non restavano che le sue lettere blu e la stanza.

Mi piaceva addormentarmi in quella luce. Anche a Leni era sempre piaciuta l’insegna del Suey. Chissà se la notte riusciva ancora a dormire senza tutto quel blu.

Mentre aspettavo Leni, presi il telefono e chiamai di sotto perché mi portassero qualcosa da mangiare. Era una ragazza a prendere le ordinazioni.

Ordinai per due e lei mi chiese: “Ha ospiti stasera?”. Lì per lì le risposi che non sapevo.

“Forse”, aggiunsi poi. “O magari ho solo molto appetito.”

Era una cosa stupida da dirsi.

Prima di attaccare le ricordai dell’insegna. Le dissi: “C’è sempre quella lettera da aggiustare, ricorda?” e lei mi rispose “Ha ragione. Ma sa come vanno certe cose”.

Magari sì, magari lo sapevo anche, come andavano certe cose.

A me e Leni era successo lo stesso. Avevamo pensato che fosse meglio starsene da soli per un po’, che avrebbe aggiustato le cose. Era sembrata una decisione sensata. Ma erano mesi ormai che lei non tornava più a casa. Forse per lei stava funzionando meglio che per me.

Cercai di non pensarci. Mica lo sapevo se avevo voglia di vederla o no.

Spesso la sera diventavo nervoso e facevo qualche sciocchezza.

Il più delle volte bevevo solo un bicchiere di troppo e mi addormentavo guardando la tv.

Ma delle notti prendevo il telefono e chiamavo qualche amico. Gente che non sentivo da anni, dai tempi del matrimonio o da prima ancora. Chiamavo per sapere come se la passavano, se stavano peggio di me o cos’altro.

Di punto in bianco mi mettevo a raccontare del bambino, del problema al cuore che aveva avuto, di come se n’era andato in pochi mesi. Nemmeno riuscivo a chiamarlo nostro figlio. Ripetevo sempre il bambino, come se fosse stato figlio di qualcun altro.

Raccontavo che io e Leni non stavamo più insieme, ormai. E che avevamo spezzato il cuore al bambino, perché nessuno dei due lo aveva davvero voluto, e lui si era ammalato e aveva fatto a pezzi il nostro matrimonio.

Mi facevo schifo a dirlo, nemmeno fosse stata davvero colpa sua. Ma lo avevamo pensato, Leni e io. E anche se nessuno dei due aveva avuto il coraggio di dirlo a voce alta, non faceva alcuna differenza.

Giuro su Dio, era così che trascorrevo le notti. Chiuso in casa, attaccato al telefono a raccontare i fatti miei a gente che nemmeno si ricordava più che faccia avessi. Mica mi ricordavo la loro, io.

Alcuni mi stavano anche ad ascoltare. Un po’ li detestavo perché mi facevano andare fino in fondo. Ma gli altri mi mandavano al diavolo. Non me la prendevo quando accadeva. Forse li chiamavo apposta per quello.

A quel punto Leni suonò di sotto.

Mi chiesi come ci sarebbe rimasta, a vedere l’appartamento dove avevamo vissuto insieme per anni, con tutti quegli spazi vuoti lasciati dalle cose che si era portata via andandosene, e poi tutta la mia roba, buttata lì a prender polvere, e l’insegna del Suey con la sua lettera spenta.

La conoscevo, Leni. Sarebbe andata su tutte le furie. Anche se non viveva più lì. Anche se per quel che ne sapevo si stava rifacendo una vita altrove.

Mica ci pensavo a rifarmela, io. Di vita ne avevo una che stava su per miracolo, piena di buchi, ma me la facevo bastare.

Aprii la porta per ascoltare i passi di Leni su per le scale.

Certe cose non lo sai che ti mancano fino a quando non tornano indietro, quando meno te lo aspetti.

Si era tagliata i capelli. Forse erano un po’ troppo corti, ma le stavano bene.

La immaginai sopra di me, a letto, muoversi nella luce dell’insegna del Suey, con la frangetta che le sfiorava le ciglia e la pelle chiara rivestita di blu elettrico.

Mi vergognai un po’ di quel pensiero, ma era difficile mandarlo via.

Non sapevo se abbracciarla o cosa, ma sulla porta mi disse solo “Che è successo all’insegna del Suey?”.

Le risposi che era così da quando se n’era andata. Forse suonò un po’ melodrammatico, ma certe bugie lo sono.

Si sedette sul letto. Per un po’ nessuno dei due disse un bel nulla.

Mi sedetti vicino a lei. Ogni tanto le buttavo un’occhiata.

Aveva l’aria stanca. Il taglio di capelli si rivelò per quello che era. Non aveva nulla di sexy, era solo un modo per tagliar corto.

Qualcuno dal ristorante bussò alla porta.

“Hai fame?”, le chiesi. “Ho ordinato anche per te”.

“Non sono venuta per mangiare, lo sai.”

Ma non aggiunse altro. Mica lo sapevo perché era venuta. Magari non lo sapeva nemmeno lei.

Non dovevamo per forza parlare. Mi bastava stare nella stessa stanza con lei, in quella stanza. Andava bene anche se c’era quell’insegna da aggiustare.

“Che cosa hai preso di sotto?”, mi chiese.

Glielo dissi. Sembrò sollevarla un po’.

Poi, mentre mangiavamo, sentimmo un bambino piangere. Veniva dal piano di sopra.

Leni mi guardò. “È il figlio della coppia che vive di sopra”, le dissi. “Te li ricordi?”

Mi resi conto che non era la prima volta che lo sentivo. Erano settimane che piangeva. Mica ci avevo mai fatto caso.

Leni annuì. Sapevo che si ricordava di quei due.

Tante volte li avevamo sentiti litigare da sotto. E quando accadeva, restavamo in silenzio, come due bambini che ascoltano i genitori urlare uno contro l’altro. Vorresti che smettessero ma trattieni il fiato per ascoltare quello che si diranno dopo. Non fai che ripeterti a me non capiterà mai. Ma quando accade, te ne sei dimenticato da un pezzo, di quella promessa.

Delle volte li incontravo, per le scale o giù in strada. Sembravano felici adesso. Mica li avevo più sentiti litigare. Chissà se avevano sentito noi farlo, prima che Leni se ne andasse. Chissà se sapevano che non stavamo più insieme.

“Come si chiama il bambino?”, mi chiese Leni.

Scossi la testa, senza dir nulla. Era la verità, per una volta.

Non l’avevamo mai portato a casa, nostro figlio. Quel problema di cuore era venuto fuori che aveva pochi giorni di vita. Non aveva mai lasciato l’ospedale.

“Ci sono delle volte che lo sogno, sai?” le dissi. Presi fiato prima di continuare. Era una bugia bella grossa e dovevo dirla senza interrompermi o lei avrebbe capito.

“Sogno che siamo a letto. Io e te. E in mezzo c’è il bambino. È blu elettrico, come l’insegna del Suey. Ci guarda. Ha gli occhi spalancati e non emette un suono. Ci guarda e basta, capisci? E noi guardiamo lui.”

“E dopo che succede?”, mi chiese lei.

“Nulla. Non succede nulla. Dopo mi sveglio e non c’è nessuno. Solo io e quell’insegna con la sua lettera spenta.”

Leni posò il suo piatto a terra. Ormai il cibo era freddo. Nemmeno io me la sentivo più di mangiare.

Si sdraiò sul letto. Il bambino aveva smesso di piangere.

“Vuoi sdraiarti qui con me?”, mi chiese.

Non sapevo se ne avevo voglia. Magari mi sentivo solo in colpa per averle raccontato del sogno. Per quello e tutte le altre frottole. Ma mi sdraiai accanto a lei. Leni si rintanò contro di me e io la circondai con un braccio.

Restammo lì per un’ora o due, a fissare quella lettera spenta. Ogni tanto ci addormentavamo. Quando accadeva a me speravo sempre di fare quel sogno che le avevo raccontato, o qualcosa che gli assomigliasse almeno un po’, tanto per rimediare alla bugia che avevo detto.

Ma di sogni non ne facevo più da un pezzo, da quando il bambino era morto.

O da prima ancora. Da quando avevo convinto Leni a tenerlo. Da quando le avevo detto che non ci sarebbe successo nulla se avessimo fatto un po’ di spazio tra di noi per accogliere qualcun altro.

Quando più tardi l’insegna si spense, Leni si tirò su e disse “Andiamo di sotto ora”.

Mi prese per mano e io la seguii fuori dall’appartamento, e giù per le scale.

Un uomo stava abbassando la serranda del locale.

Leni si avvicinò e gli disse “Buonasera”.

Lui non si scompose e le sorrise, rispondendo “Buonasera a voi. Ma forse è un po’ tardi per dirlo, non crede?”.

“Si ricorda di noi?”, chiese lei.

Lui scosse la testa. Chissà quante facce vedeva ogni sera.

Mi chiesi cosa avrei risposto io al posto suo. Magari avrei mentito dicendo di sì.

“Si mangia bene nel suo ristorante”, gli disse Leni.

“La ringrazio.”

“E ci piace la sua insegna, sa?”

L’uomo la ringraziò nuovamente. Non sembrava aver fretta di tornarsene a casa.

“La finestra della nostra camera da letto è proprio quella lì, accanto all’insegna.”

“Abitate qui da molto?”, chiese lui. Guardò anche me, poi tornò a posare gli occhi su Leni.

Magari stava pensando che era solo una svitata, ma a vederlo dava l’idea che la stesse davvero ascoltando.

“Abbiamo vissuto qui insieme per cinque anni…”

L’uomo attese pazientemente di ascoltare quel che restava.

“…Ma ora ci vive soltanto mio marito.”

Lui annuì e poi ci sorrise. Aveva un non so che, quel sorriso. Magari era solo uno che ne sentiva tante, di storie come la nostra.

“È un momento difficile. Sa come vanno certe cose”, gli disse Leni.

Lui annuì ancora.

“Pensa si possa fare qualcosa per quella lettera?”

L’uomo alzò lo sguardo verso l’insegna e disse “Ha ragione. Ci vuole del tempo per decidersi a mettere a posto le cose, vero? Ti chiedi sempre se a qualcuno importi davvero”.

“A noi importa”, gli disse allora Leni.

Mi teneva ancora per mano, quando l’uomo se ne andò. Mi aveva tenuto la mano per tutto il tempo.

Avrei voluto chiederle perché era venuta a casa quella sera, ma lei disse solo “Torniamo di sopra, vuoi?”, così non le chiesi nulla e la seguii su per le scale.

Loading

19 commenti »

  1. Una storia bellissima. Il dolore che lo pervade esce con forza dal racconto, facendo sì che il lettore lo viva in prima persona. Bello anche lo stile asciutto della narrazione.
    Davvero complimenti!

  2. Ciao Alessandra. Ti ringrazio tanto!

  3. Non fidatevi di quella lettera spenta nell’insegna del Suey. Se ne sta sospesa in alto, ottusa, morta, in una sera come tante. A chi importa? pare domandare. Ma intanto la strada si fa buia. E quella, crudelmente, allude ad altri morti. Ad altre cose da rimettere a posto. Un bel racconto e una scrittura precisa. Complimenti.

  4. Grazie Carmen! Bellissimo commento

  5. Ho sentito una atmosfera molto “americana”, ma il racconto è davvero gradevole nelle sue sfumature emotive rese con tratti brevi; il fatto che non si concluda, così come non ha inizio definito, credo possa, a seconda del gusto di chi legge, essere considerato una sottrazione di elementi oppure una maggior suggestione del lettore; a me, ha dato questa seconda e dunque è sembrato un bel racconto anche per questa architettura, oltre che per lo stile espressivo.

  6. A volte il dolore divide. A volte ci fa sentire soli e non troviamo la forza di condividerlo per consolarci a vicenda. E la solitudine si mette di mezzo e la fa da padrona. Ci Sembra che nessuno sia capace di provare quello che proviamo noi. La verità è che ognuno soffre a modo suo e ognuno pensa di soffrire più dell’altro. E invece……..
    Mi piace il finale che restituisce la vita ai protagonisti con un paragone che sembra banale mentre è la metafora dell’esistenza. Tutto si può aggiustare. Basta volerlo.
    Struggente!
    Angela Lonardo????

  7. Bravo Edoardo, ci hai dato il profilo psicologico del protagonista, riflessivo, maturo e a volte bugiardo e quasi un giocatore d’azzardo. E’ la tragedia della morte del figlio piccolissimo che lascia i genitori con i sensi di colpa e forma un muro alto tra loro. La sofferenza divide e la condivisione aiuta a portare il peso. Al protagonista va riconosciuto la bravura di non aver preteso nulla e a Leni va dato il merito di aver voluto la riappacificazione; così avviene nella maggior parte dei casi.
    Emanuele

  8. Ciao Edoardo, il tuo racconto è davvero bello.

  9. Ciao Edoardo, il tuo racconto è davvero bello.

  10. Il dolore che piomba addosso ad una coppia già indecisa se tenere o no quel bambino e che poi deflagra, distruggendo l’amore che quella coppia aveva unito. La scrittura asciutta permette di sentire lo stordimento dell’uomo di fronte a quello che è successo/succede/succederà. Il racconto è bello ed è quello che al lettore importa. Bravo.

  11. Complimenti Edoardo!: un racconto intenso e toccante scritto in modo asciutto e lineare, dove i sentimenti più profondi emergono piano piano regalando al lettore una conclusione volutamente non definita ma che lascia speranza… 🙂

  12. Grazie. Vi ringrazio davvero tutti per i vostri commenti e per il tempo che avete dedicato alla lettura!

  13. Un bel racconto sulla solitudine e sul dolore ma anche sulla riconciliazione.. Si respira un non so che di un statunitense, anche se tutto e’ quasi anonimo ad eccezione della donna e del’insegna.Ben scritto.
    Complimenti

  14. Molto bello. Denso di struggente malinconia, di rimpianto, di sentimenti forti e contrastanti narrati con grande efficacia.
    Crudo ma poetico.

  15. Mara, Marco: grazie per i vostri commenti!

  16. Sono sicuro di interpretare il pensiero degli altri lettori, che però non possono sbilanciarsi a dirlo, visto che sono tutti concorrenti all’ambito premio, hai scritto un piccolo capolavoro ! Non ha un inizio, ma ha una fine suggerita che lascia a tutti la possibilità di sognare quella che più preferiscono, in realtà l’inizio viene fuori poco a poco ed anche qui, oltre alle meravigliose immagini che hai dipinto, ognuno aggiunge i particolari a proprio gusto. I personaggi sono solo suggeriti, escludendo i capelli della ragazza, eppure sono presenti vividamente, stampati negli interlinea, ed il dolore che ha fatto implodere le vite dei due coniugi è tanto presente che prende lo stomaco. La necessità di parlarne, non importa con chi, basta parlarne, è un bisogno che tutti conoscono, prima o poi, e tutti si riconoscono nel protagonista, ne capiscono la rassegnazione nonostante il disperato desiderio di riprendere da dove la vita si è interrotta. Il sollievo per la possibile lieta fine, ipotizzabile, toglie al lettore un gravoso peso dalle spalle, tanto ci hai invischiati nelle tue righe, Edoardo.
    Sono io che ti ringrazio per averle scritte.
    Meraviglioso racconto!!
    Giovanni Fioret

  17. C’è tanto “non detto” tra queste righe, soprattutto il coraggio di dire le cose come stanno a voce alta. E sono le parole “mute” quelle che poi fanno più male. Lo so bene. E’ un racconto toccante, Edoardo. Mi scuso per non aver commentato prima ma sarò lieta di conoscerti a Lucca. Liliana

  18. Ciao Liliana, grazie per il tuo commento. Sarà un piacere conoscerti. A presto!

  19. Profondo e intenso, con un non so che di Carver. Il dolore divide, il tempo guarisce. Molto belli e veri i pensieri e le riflessioni del protagonista. Un bel racconto, complimenti.
    Francesca

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.