Premio Racconti nella Rete 2014 “Lo zio Brichet” di Laura Montagna
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Alla fine Nina si decise a guardare giù. Ormai era un bel pezzo che la mamma aveva smesso di chiamarla. Poteva anche tentare una sbirciatina fuori dalle fronde dell’albero sul quale stava rintanata e farsi un’idea di cosa succedesse lì intorno.
Non c’erano rumori, a parte il cinguettare dei passeri e l’insistente fischio di un merlo che forse aveva il nido da qualche parte sui rami più alti. Nina ispezionò il prato, e anche quel poco di vigna che riusciva a scorgere dal suo nascondiglio. Sapeva bene che dopo pranzo cercavano sempre di affibbiarle qualche lavoretto noioso, tipo mettere in ordine la credenza o, peggio ancora, stirare e rammendare. E per questo, quando riusciva a sgattaiolare fuori di casa senza essere vista, scappava a nascondersi sul vecchio albero di amarene. Nessuno sapeva che era capace di arrampicarsi là sopra e alla mamma non sarebbe mai venuto in mente di alzare la testa per cercarla così in alto. Nina lanciò un’occhiata anche dall’altra parte, al di là del giardino e della selva di camelie della zia, dove la casa, simile a un’arcigna torre di guardia, dominava il panorama sbiadito nella luminosità estiva. Non un’anima viva in giro. Poteva quindi lasciarsi scivolare a terra senza paura di rivelare il suo rifugio segreto e andare a piluccare un po’ di uva tra i filari. Ma non appena si sporse per afferrare il ramo più adatto a calarsi, un terribile urlo echeggiò tutt’intorno.
Il merlo volò via in un frullo d’ali. I passeri tacquero.
Di scatto Nina ritrasse le braccia, come se avesse posato le palme su un cespo di ortiche, e in un attimo si addossò al tronco, tornando a nascondersi nel fogliame più fitto. L’urlo era venuto dalla casa. Nina restò in ascolto.
Dopo pochi istanti intravvide il cappello grigio di suo padre che avanzava fra i filari. Riconobbe anche la testa bionda di suo fratello e poi la camicia a scacchi dello zio Vittorio, quello che la vigna la lavorava tutti i giorni. I tre uomini si fermarono poco oltre il grande albero e ognuno di loro sembrava protendersi verso la casa, stupito ed allarmato.
– Anna! Ma cosa è successo? Chi è che gridava?
– Era l’Antonia. Devi venire subito. Hanno trovato una cosa giù in legnaia.
La mamma. Se era venuta a cercare il papà fin nella vigna doveva essere successo qualcosa di brutto. Nina si fece ancora più piccola dentro la chioma dell’albero, ma con le orecchie ben tese.
– E perché ha gridato a quel modo? Cosa può esserci di tanto terribile nella legnaia?
– Il Brichet, Mario. Ha trovato lo zio Brichet. Quello dell’Alice.
– Santa Madòna! – le grosse mani da contadino del Vittorio si alzarono al cielo. Pareva faticassero a farsi largo nelle ampie maniche a scacchi bianchi e rossi. E fu lo zio ad avviarsi per primo in direzione della casa con gli altri che si sforzavano di stargli dietro.
Nina non rammentava di aver mai visto la sua famiglia in preda a una simile confusione e quella sorta di delirio si protrasse per tutto il pomeriggio senza che lei riuscisse a comprenderne la causa. Pensava e ripensava alle parole di sua madre, ma non era capace di dar loro un significato logico. Chi poteva mai essere questo zio Brichet? Non lo aveva mai sentito nominare prima. Sapeva dell’esistenza di una zia Alice, sorella maggiore di sua mamma e della zia Agnese, la moglie del Vittorio, ma non l’aveva mai conosciuta. Doveva essersi sposata molti anni prima che lei nascesse e ora viveva in una grande città, della quale Nina non ricordava nemmeno il nome. In famiglia ne parlavano sempre come di una un po’ stramba.
“La vüleva studiàa medesina… Pensa ti! ‘Na dona che la fa’ el dutur! ” si ricordava di aver sentito dire dallo zio Vittorio.
La zia Agnese aveva fatto solo le elementari. La mamma era maestra, però si era sposata prima di essersi mai seduta ad una cattedra. E comunque la maestra era un mestiere da femmina e nessuno aveva avuto niente da ridire. Ma il dottore era una cosa ben diversa. Nina pensava che doveva essere un po’ come l’avvocato. Il papà era avvocato, e anche suo fratello Marcello aveva cominciato a studiare per diventarlo. Però era difficile immaginarsi una zia che andasse in tribunale, vestita con la toga nera e la cravatta col fiocco bianco come suo padre. Figuriamoci poi se avesse avuto il camice e la borsa delle medicine! Sarebbe stata una cosa davvero strana.
In casa c’era un continuo movimento. Solo Marcello era riuscito a scamparsela. Con la scusa degli amici che lo aspettavano per una passeggiata era sgattaiolato via appena in tempo per non farsi coinvolgere troppo.
l’Antonia, la domestica, quella dell’urlo, non riusciva più a smettere di piangere. Se ne stava in un angolo della cucina a soffiarsi il naso, ormai paonazzo a furia di sfregarlo nel fazzoletto, mentre la mamma della Nina cercava inutilmente di rincuorarla tenendole una mano sulla spalla.
– E io come facevo a sapere che lo avevano messo in legnaia? – si lamentava lo zio Vittorio, che ora sedeva col Mario al grande tavolo – Non potevo proprio! Car Signür, Che posto stupido, per nasconderlo! Stupido che più stupido non si può!
– Quel baule è sempre stato in soffitta – intervenne la zia – nella stanza in fondo, chiusa a chiave. Era il baule dell’Alice, e nessuno si era mai sognato di spostarlo fino a che tu, Vittorio, l’anno scorso, hai voluto fare spazio. Te ne ricordi o no di chi è stata la bella idea?
– E tu pensi che lo sapevo che quell’affare stava lì dentro? Non hai mai voluto che ci guardassi in quell’accidenti di baule! “Sono cose dell’Alice. Devo prima domandare a lei” . Ma certo! E ora cosa ne facciamo di quel… quel coso lì? – la voce dello zio tremava alzandosi di tono – Mica possiamo buttarlo via come niente fosse! E se qualcuno lo trova cosa gli diciamo? Finiamo tutti nelle patrie galere, o anche peggio! E per colpa di… di quela mata de la to’ surela che la vüleva fa el dutur! – e appoggiò i gomiti sul tavolo nascondendosi il volto fra le mani.
Immobile contro lo stipite della porta che separava la cucina dal salotto, Nina cercava di non perdersi nemmeno una sillaba.
– Non preoccuparti, che prima di finire in galera ce ne vuole! – disse suo padre, tormentandosi i baffi biondi – Ma dobbiamo trovare un posto dove nasconderlo, dove nessuno lo possa trovare. La cosa migliore sarebbe proprio farlo sparire, distruggerlo una volta per tutte. Però non saprei come.
– Potremmo romperlo in tanti pezzi e sotterrarli un po’ qua e un po’ là. – propose la zia.
– E certo! Così non appena fresi la vigna, o pianti un po’ di bieta ti ritrovi un pezzo di femore in mano! – il Vittorio storse la bocca schifato – Non mi sembra una gran bella idea. Tu che ne dici, Mario?
Il padre di Nina stava per rispondere quando si accorse della figlia. E nel vedere una bambina di neanche nove anni che ascoltava quei discorsi con due occhi tondi e attenti, sussultò.
– Nina, la mamma è un pezzo che ti cerca – le disse, con lo sguardo privo di espressione di quando non ammetteva repliche, e poi, vedendo che non sembrava affatto intenzionata ad ubbidirgli, aggiunse – Non voglio sentir niente. Va’ da lei. Subito!
Nina sospirò, abbassò gli occhi e si volse. Ma in quel momento vide Giulio, il cugino suo compagno di giochi, seduto sul canapè, silenzioso, le mani in grembo, l’aria smarrita.
“Questo non è proprio da Giulio” pensò e andò a sedersi accanto a lui.
– Ma tu hai capito cosa è successo? – gli chiese.
– Non lo sai? Sono io che l’ho trovato per primo!
– Davvero?
Giulio annuì.
– Avresti dovuto esserci quando ho aperto il baule. Non potevo crederci! E allora ho chiamato l’Antonia perché lo vedesse. Chi pensava si sarebbe messa a urlare in quel modo? Anche se potevo immaginarmelo. Lo sanno tutti che è una gran fifona, e comunque trovare uno scheletro dentro a un baule è una cosa che spaventa.
– Uno scheletro? – Nina era certa di aver capito male.
– Già. il Brichet. Lo scheletro che la zia Alice si era procurata per studiare l’anatomia. Il nome glielo aveva dato lei, forse perché non stava in piedi da solo, come uno che si è bevuto qualche brich di troppo.
– Ma uno scheletro vero? Di un uomo vero? Nella nostra legnaia?
– Certo che è di un uomo vero! La mamma ha detto che la zia Alice ci aveva messo così tanto per procurarselo, e lo aveva pagato caro e salato!
Quella notte Nina che, neanche a farlo apposta, dormiva proprio sopra alla legnaia, sentì armeggiare a lungo di fuori. Dalle imposte chiuse vedeva il chiarore di una lucerna, e udiva delle voci. Però non andò ad aprire la finestra, né si mosse dal letto. Aspettò che tutti se ne fossero andati e poi provò a riprendere sonno. Lo sapeva chi erano: suo padre, lo zio e forse il Marcello. Stavano cercando il modo di far sparire il povero zio Brichet. Ma che avevano deciso di sotterrarlo a mezzo metro di profondità proprio sotto la legna per l’inverno, Nina lo seppe soltanto un paio di decenni più tardi. E quella volta fu suo padre a parlargliene. Dopo tutto quel tempo era ancora convinto che la cosa migliore fosse distruggerlo perché non ne restasse traccia. Aver sotterrato accanto alla casa i resti di uno sconosciuto non era certo una bella cosa. Soprattutto per Giulio che adesso viveva nel terrore che i suoi due bambini potessero trovarsi a tu per tu con il Brichet durante i loro giochi, così come era successo a lui. Alla zia Alice nessuno aveva voluto mai dire niente e ora che aveva passato i novant’anni non era certo il caso di tirarla in ballo per cose del genere.
– Devi occupartene tu Nina. Sei la più adatta a farlo. – le aveva detto suo padre. E aveva ragione.
Così una notte d’estate, la Nina, il Mario, lo zio Vittorio e il cugino Giulio avevano disseppellito il vecchio Brichet. Avevano preso le sue povere ossa, ancora bianche e intatte, le avevano adagiate in una vasca da bagno di ghisa scrostata che stava chiusa nel magazzino e Nina le aveva ricoperte di acido. Dopo qualche ora del Brichet restava solo una poltiglia sporca.
– Car Signür, quela mata de la me cügnada! – aveva sospirato lo zio Vittorio, mentre guardava il liquame che finiva nella fogna.
– Già. – disse la Nina con un mezzo sorriso – E devi ringraziare quela mata della tua nipote Nina se ti sei liberato da questo incubo. Lei ce l’ha fatta a studiare medicina e a diventare dottore, mica come quell’altra che ha piantato lì tutto. E senza l’aiuto di un medico non sarebbe stato così facile procurarti l’acido e sapere quanto e come usarlo.
Lo zio scosse la testa, senza guardarla negli occhi.
– Ammettilo, Vittorio! Questa è la rivincita dell’Alice. – rise il Mario, dandogli una pacca sulla spalla. E poi, rivolto alla figlia, aggiunse – E’ il cerchio che si chiude, mia cara dottoressa. Io sono sicuro che la passione per la medicina ti è venuta proprio perché hai ascoltato le curiose storie della zia Alice. E va’ là, che un po’ matta lo sei sempre stata anche tu!
Sono tanti quadri di vita di campagna, dal momento in cui si è verificato il ritrovamento dello scheletro “per lo studio” della zia Alice, la donna che ha lasciato il paese volendo diventare medico.Un “assurdo” che ti dà l’opportunità di raccontare dei ragazzi, Nina e Giulio, e delle famiglie, protagonisti del racconto spontaneo come Nina sull’albero. L’uso del dialetto, obbligatorio nei dialoghi della vecchie generazioni, dimostra la musicalità dei dialetti italiani. “Parola di polentone lombardo.”
Emanuele.
Grazie Emanuele per aver lasciato il tuo commento!Hai ragione.Il mio racconto tratteggia i personaggi e la storia di una grande famiglia contadina lombarda. La vicenda dello scheletro ritrovato, che sembra così surreale,è invece l’unica cosa realmente accaduta che descrivo. A volte la realtà appare più assurda dell’invenzione!!!!
Complimenti Laura, ho riso per la fine inaspettata del povero Zio Brichet, dopo tutti quegli anni. Che forte la Nina! Ci vediamo a Lucca. Liliana
Scusa il ritardo, Laura…
Un racconto ben scritto e meritevole,
basta poco perché sfugga all’attenzione
di noi lettori, alle volte un tantino distratti.
E non è l’unico…
Molto brava, congratulazioni,
felice di conoscerti presto.
M.
😉
Molto bello Laura, hai una scrittura fluida e piacevole. E poi gli scorci familiari, soprattutto visti con gli occhi dei bambini, mi sono sempre piaciuti, sia per leggerci che per scriverci. Complimenti. Francesca
Grazie Liliana!
A Lucca potremo conoscerci di persona!