Premio Racconti nella Rete 2014 “La pietra e l’acqua” di Raffaella Griseri
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014E’un uomo assente anche a se stesso che incespica nel suo incedere, nel suo passo incerto e interrotto, quasi un filo invisibile lo trattenga impedendogli di avanzare. Nei suoi occhi sbarrati traspare un vuoto, una distanza, occhi singolari fatti di una materia sfumata come le alghe scure e come queste capaci di guizzare e scintillare brevemente sotto la luce orizzontale di un pomeriggio d’inverno. Una distanza dalla realtà che rasenta l’evaporazione, una significativa evanescenza di un animo offeso dalla vita. Un dolore che si è compattato nel tempo ha plasmato i lineamenti contratti del suo viso, dettato incertezza ai suoi movimenti e suggerito una meticolosa ricerca dell’ottundimento dei sensi per dissolvere dentro di sé ogni volontà, ogni desiderio.
Ma oggi ha cautamente tolto i due maglioni di lana pesante appartenuti ad un corpo più giovane, acquistati ventidue anni prima, quando si era fermato il tempo, e indossato la camicia bianca delle sue limitate occasioni di uscire da quella casa con le volte così alte da non fargli sentire la necessità di spazi aperti, da contenere così tanta aria da fargli considerare ogni volta l’indifferenza della vita che gliel’aveva negata, quell’aria, nell’unico istante in cui ne aveva avuto bisogno. Cammina, nella sua solitudine cercata e raggiunta, rasentando i muri, rattrappito di timidezza, annichilito dal timore di imbattersi nelle realtà altrui, in altre storie, altri pensieri e dolori, eventuali dialoghi che non potrebbe sostenere, lui che non parla da tanti, troppi anni. Non saprebbe più articolare la voce, richiamarla da un passato in cui era il suo vanto, modulata e calda, sussurrata o stentorea come il caso richiedesse per mantenere alta l’attenzione di una moltitudine giovane.
La mano sinistra stretta in un pugno immobile nella tasca di un cappotto liso, ma di impeccabile taglio sartoriale, la destra, dita da ragno, appoggiata su un bastone da passeggio dal manico ricurvo. Percorre il tratto di strada pedonale fra la sua abitazione e la sede espositiva con lo sguardo abbassato sulla pavimentazione storica, concentrato sulle fughe dei lastroni in pietra di Luserna dalla superficie scabra, che hanno, una dall’altra, larghezze un poco diverse e talvolta non costanti su uno stesso profilo del blocco: quest’irregolarità lo infastidisce, come ogni altro scarto dalla regola, e ricerca allora nel disegno complessivo della pavimentazione elementi di simmetria ed ortogonalità, bellezza e ordine che mantengano in sufficiente equilibrio il suo pensiero e respiro.
Una giovane donna in direzione contraria, passo deciso e cappotto aperto, distratta da una vetrina, lo urta appena con la borsa. Lui contrae impercettibilmente le spalle e desidera più forte di essere invisibile perché non si rivolga a lui per scusarsi. Lei prosegue incurante, esaudendo, inconsapevole, il desiderio dell’uomo.
Con gli occhi sfocati un poco oltre vede i tre gradini e poi la porta della chiesa dove ha appuntamento con un’armonia che sciolga in lui una delle tante emozioni congelate. Ha ricevuto l’invito. Non si sono dimenticati del vecchio professore di letteratura latina e si è augurato, con il consueto brivido di dubbio, di permanere sempre in quell’indirizzario.
Colma, con qualche incertezza, il dislivello della gradinata ed entra nella chiesa romanica. L’accoglie la consueta atmosfera raccolta e protettiva, che invita ad avanzare. Si ferma, guarda in alto l’immobile grandezza che pare suggerirgli la ridicola brevità delle singole vite che sono entrate e poi uscite per quella porta mentre l’edificato in pietra resisteva al tempo. Risponde con un cenno del capo al saluto del ragazzo incaricato della sorveglianza e apprezza, sollevato, che nessun altro sia in visita alla mostra. Un suono di violini, un crescendo, lo sottrae per un istante all’attenzione posta sulla prima di quelle tele, senza cornice, di piccole dimensioni. Avanza trovandosi per un istante nel pulviscolo della lama di luce obliqua proiettata da una finestra alta e stretta. La pietra della pavimentazione è ruvida, come le pareti, come la sua pelle. Ed impolverata. Le fanno contrappunto, come i violini ai violoncelli, i grandi pannelli dell’allestimento di legno bianco dal disegno semplice e rigoroso. Al centro di ognuno campeggia un’opera, un volto acerbo. La pittura ad olio vivida, dettagliati gli orpelli, figure bellissime, delicate e lontane richiamano il dolore acido dell’assenza, i visi infantili che sta osservando lanciano il loro sguardo molto oltre la sua persona facendosene beffa, con una grazia impudente che inchioda l’osservatore, lo trattiene con fili sottili che uniscono due realtà lontane, con volute di oppio e di significato, di languida approssimazione d’esistere in quella triste bidimensione. Avrebbe preferito non ravvivassero immagini che lui ricacciava agli angoli degli occhi, nel limo appiccicoso dell’oblio, sotterrando il profilo della mascella, dissolvendo labbra morbide e infantili, coprendo con la mota grigia la pelle bianca con le vene azzurrine che tante volte, lei addormentata, aveva seguito, commosso dalla delicatezza e fragilità. Non ravvivasse un amore che lui disgregava in silenzio, con dedizione meticolosa, quanto bastava per arrivare a sera senza impazzire.
L’uomo è ora trattenuto da un’acconciatura raccolta, da uno sguardo grigio un poco abbassato, da labbra socchiuse che hanno appena finito di dire. Il collo esile e le mani delicate e un poco ossute come quelle di lei, della sua bambina. L’aveva attesa a lungo, poi ripagato dal suo candore e dalla sua vitalità. Con il respiro trattenuto e una contrazione nuova sul viso si ritrova in quell’acqua che vortica strappandogli dalle mani una figlia che non aveva saputo trattenere, in quell’onda salata e percorsa da spine di sabbia, più dura del cemento, tagliente come vetro, e pure fluida e mobile in cui si era tuffato con un unico pensiero, uscendone senza: la mente svuotata, come la sua realtà, in vita suo malgrado.
Si sposta di lato. Quale rappresentazione aderisce all’immagine della sua Lavinia? Ondate di ricordi dilagano confusi. E’ un’immagine lontana, sbiancata dal tempo e corrosa dalle lacrime e dai silenzi sterili con sua moglie. Le due donne della sua vita. Era mancato ad entrambe, in un caso per una puntuale incapacità, un occasionale limite fisico, nel secondo per i vuoti impenetrabili di sé, le assenze reiterate, le fughe nella sua immobilità solida. Aveva smesso quel giorno di parlare, lei aveva acconsentito, conveniva forse sul fatto che non era rimasto nulla da dire. Pochi anni dopo si era arresa e aveva smesso di fingere, aveva deciso che non avrebbe aggiunto mancanza alla vita del suo uomo e preso l’ultima decisione come si sceglie un sassolino bianco e levigato fra quelli tutti grigi di una spiaggia.
Ora non sente più né violini né violoncelli, i colori si confondono deformando i visi. Sente quel dolore, che si è sforzato ogni giorno della sua vita di allontanare quanto basta per respirare, investirlo come una colata di ferro, fuso e gelido al contempo. Si sente perduto, aspirato in un gorgo di follia.
Apre gli occhi e vede il ragazzo piegato su di lui, l’espressione allarmata, i modi gentili. Li richiude.
Raffaella brava, un avvio lento ma poi un crescendo di immagini e di sentimenti. E viene a galla il segreto della tristezza, della scontrosità e della solitudine. Sembra che solo l’arte, la musica e la pittura, abbia un senso per l’uomo; poi riaffiora il dolore “che si è sforzato ogni giorno della sua vita di allontanare quanto basta per respirare..” ma non è stata vita. E’ con la presa di coscienza c’è la paura di non farcela ad andare avanti. Se il finale fosse lasciato aperto, io propenderei per “il vivere” ma forse è difficile riempire il vuoto da solo.
Ritengo che sia un bel soggetto per un Corto, i riferimenti alla città possono essere individuati e lo spazio ai ricordi può risultare interessante. In bocca al lupo, Raffaella.
Ciao Emanuele.
Bravissima nella caratterizzazione e nella descrizione del personaggio.
Una breve storia sulla solitudine e soprattutto sul rimpianto.
drammatico ma comunque delicato il fabale.
Complimenti
marco
…delicato il finale, scusa Raffaella.
marco
Ma che bel personaggio che hai creato Raffaella. Una storia scritta davvero bene. Mi è piaciuta molto questa frase: “Una distanza dalla realtà che rasenta l’evaporazione, una significativa evanescenza di un animo offeso dalla vita.”. Complimenti e in bocca al pupo.
Carino.
Angela
Grazie! Mi ha fatto molto piacere leggere i vostri commenti e mi scuso per la risposta tardiva. Lo sguardo esterno sul proprio testo restituisce una consapevolezza aggiuntiva a quella da cui prende avvio la storia, il racconto. Il finale è volutamente aperto. Chiunque legga, attingendo alla propria maggiore o minore fiducia nella vita, immaginerà che il vecchio riapra quegli occhi o che rimangano definitivamente chiusi. Hai ragione Marco, è una storia sulla solitudine e sul rimpianto…ma anche sulla vecchiaia e sulla bellezza, sull’arte e sull’amore paterno, e sul silenzio…troppa materia densa, forse, per un solo racconto!!! 😉