Premio Racconti nella Rete 2014 “Il gambero” di Raffaele Del Re
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Il gambero era un gambero di fiume, uno di quei gamberi dal corpo rossigno e i piedi chiari. La sua tana era un buco poco sotto il pelo dell’acqua, dal quale usciva ogni notte (e qualche volta anche di giorno) in cerca di piccole prede e alghe, felice a modo suo mentre scattava nell’acqua fresca e limpida.
Oggi quel gambero è morto da molto, molto tempo. Neanche il fiume c’è più; anzi, per essere precisi, c’è ancora, ma passa più lontano; dove correva a quei tempi c’è un grande vallone tra due colli argillosi, invaso di rovi e sambuchi. E neppure c’è più la ragazzina dal naso troppo adunco, che lo spiava in silenzio, piena di curiosità, nascosta tra gli ontani e i salici.
Doveva avere sei o sette anni, non di più, quella bambina dall’aria vispa, infagottata in una rozza pelle d’alce. Aveva i capelli neri e lisci, unti e spettinati, e il viso sporco di terra. E non aveva paura dei cinghiali che talvolta traversavano il bosco, né dei giganteschi uri le cui lotte a forza di cornate riecheggiavano a grande distanza. Solo dei lupi, d’inverno, aveva paura; ma con la buona stagione non s’avvicinavano al villaggio.
Per tutta l’estate il gambero s’affaccendò su e giù nell’acqua fresca del fiume, e per tutta l’estate la bambina di settemila anni fa l’osservò con incrollabile costanza, ogni volta che si rifugiava in quel luogo solitario che amava tanto. Ma sul finire dell’estate una pigna, trasportata dalla corrente giù dalle montagne, andò a conficcarsi proprio nella buca che il gambero aveva scelto per tana. Accadde verso la fine d’un pomeriggio che il gambero – per sua mala sorte – aveva anticipato l’uscita notturna a caccia di piccole prede. La pigna correva giù, a momenti rotolando sul fondo, a momenti galleggiando sul pelo dell’acqua impetuosa; e tutt’a un tratto s’incastrò nella buca del gambero e non si mosse più.
Era una pigna piccola – una pigna di pino nero, senza dubbio – e probabilmente, se il gambero fosse stato dentro, sarebbe riuscito a spingerla via, puntandosi contro le pareti della tana. Ma da fuori non riuscì ad afferrarla saldamente con le chele, né a spingerla lateralmente; per quanti sforzi facesse, non riuscì a riaprire l’ingresso della sua dimora. Dopo molto penare, se n’andò rassegnato, in cerca d’una nuova tana; e Visyana lo seguì con un sorriso dolce, pieno di compassione.
Fu allora che la bambina per la prima volta cantò. Cantò una canzoncina da bambina, un ritmo imperfetto dedicato al gambero che aveva perso la sua casa. Parole che vennero come per caso – perché Visyana aveva un grande talento artistico, ma ancora nel suo mondo non c’era chi potesse guidarlo.
Passarono gli anni. Visyana tornava sempre, quasi ogni giorno, durante la bella stagione, in quel punto del bosco. Le piaceva guardare l’acqua fresca e limpida, che s’affrettava senza sosta verso la sua meta sconosciuta. Le piaceva guardare i pesci maculati che ci guizzavano dentro. Le piaceva guardare i passerotti che zampettavano sulle rive erbose, le libellule colorate che si posavano sui ranuncoli e sulle parnassie, e persino i cuccioli di cinghiale dal loro mantello striato che venivano ad abbeverarsi saltellando. E le piaceva guardare il pino solitario, fuori posto tra gli ontani e i salici, che cresceva rapidamente, anno dopo anno, dove un tempo era stata la tana del gambero.
Anche Visyana cresceva. Era arrivata l’età a cui una ragazza solitamente, secondo i costumi del villaggio, veniva chiamata da un giovanotto davanti al capo del villaggio e insieme costruivano una nuova capanna. Ma nessuno la chiamava. La natura le aveva donato un viso pulito, ma un naso troppo pronunciato. Certo non l’aiutava la sua scarsa abilità nel pestare i semi di avena e di farro, nel tessere il lino e le pelli: le sorelle l’avevano sempre scansata, quando c’era da provare, da imparare, perché volevano imparare prima loro, e Visyana, remissiva e gentile, aveva ceduto loro il passo. “È una buona a nulla” dicevano le madri ai loro figli giovanotti.
Era giunta ormai la ventesima primavera: era già tardi per sposarsi, secondo i criteri del villaggio. Ma lei non ci badava: tornava sulla riva del fiume, sotto il pino che aveva visto nascere, e cantava con la sua voce d’angelo canzoni che lei sola conosceva; e nel cantare le pareva di dimenticare ogni pena, di fondersi al mormorio eterno della corrente, di diventare un essere nuovo, leggero leggero, che spiccava il volo sopra le sterminate foreste in mezzo alle quali l’uomo era ancora una presenza rara.
Quasi a specchio della sua, anche il pino che tanto amava pareva aver incontrato una vita difficile. Il terreno cedevole aveva inclinato il tronco, le bufere d’inverno avevano spezzato i rami, gli alberi vicini, allargando le loro fronde vigorose, quasi lo soffocavano. E, com’era accaduto a lei, anche lui sopportava paziente e tenace; il fusto s’era piegato a S, ma non avevo perso la via per puntare al cielo.
Quella primavera accadde un fatto nuovo, che riempì Visyana di gioia. Una cicogna – forse una cicogna giovane, che metteva su casa per la prima volta – scelse proprio quel pino per costruirvi il proprio nido.
Visyana non aveva smesso, di tanto in tanto, di rievocare nelle sue canzoni il gambero che aveva perso un giorno la sua tana. Poteva sapere quel gambero che la sua tana perduta avrebbe un giorno dato sostegno alla casa d’una cicogna?
No, certo, non poteva saperlo. Ma che bello – pensò lei – che bello quest’avvicendarsi di creature, quest’eredità non annunciata, con la quale due animali che non s’erano mai incontrati e, se si fossero incontrati, si sarebbero considerati nemici, s’erano invece passati l’uno all’altra un dono amichevole.
Visyana cantò anche della cicogna, con le parole imperfette del suo linguaggio primitivo: cantò del gambero e della cicogna. E cantare di quei due le faceva sperimentare una liberazione strana, un’apertura alle promesse ancora confuse del futuro.
Fu quell’anno che, per la prima volta, Visyana insegnò ai bambini del villaggio una delle sue canzoni. Visyana amava i bambini e rivolgeva loro sempre un sorriso, una parola dolce. E i bambini accolsero con entusiasmo la novità della canzone sul gambero e la cicogna, e impararono con lei a cantare tutti in coro.
Le sorelle ripresero a interessarsi di Visyana. Molti di quei piccoli erano i loro figli, ed esse chiedevano: «Ma dove hai scoperto il segreto di questi canti? Forse te l’hanno rivelato le ninfe del fiume?»
Visyana sorrideva e scuoteva il capo. Ma qualcosa di vero c’era, in fondo.
E così la sua vita prese un nuovo corso. Ancora andava spesso al fiume; ma il suo canto era meno malinconico, più ricco d’aspettative verso un futuro che già mostrava d’avverarsi in modo diverso – ma non peggiore – di quel che aveva immaginato.
Al principio dell’estate, mentre cantava sul ciglio del fiume, il cuore le si sciolse in una sensazione nuova. Il cielo aveva una sfumatura inusuale, quell’azzurro vivo ma non acceso che si mostra sul finire del pomeriggio, in certe giornate speciali. I giunchi e le erbe palustri tutt’attorno al fiume traboccavano di fiori, e altri fiori occhieggiavano tra l’erba e qua e là su alcuni alberi. Il cinguettio delle cince, lo stridere delle rondini, i lievi mormorii della corrente e del vento, tutto pareva al cuore di Visyana accompagnare come una musica il suo cantare. Allora guardò in alto, verso il cielo, ed ebbe la certezza che qualcuno, da lassù, la guardava benevolo.
A lui s’indirizzò il suo canto, a mo’ di preghiera; e non era ben consapevole neppure lei di che cosa chiedesse. Poi volle offrire qualcosa di suo, per quella preghiera. Aveva con sé un frammento d’un vaso rotto, che usava a volte per scavare la terra in cerca di rape e carote. Su quel vaso, con un sasso appuntito, incise un rozzo disegno, il disegno d’un gambero e d’una cicogna. Aveva fatto altre volte quel disegno sull’argilla morbida del fiume; sempre veniva imperfetto, e anche stavolta venne imperfetto, ma riconoscibile. Del resto, era una ragazza di settemila anni fa, nessuno mai le aveva insegnato la tecnica del disegno; aveva solo talento artistico, tutto qua. Con un ultimo sguardo al cielo, seppellì nell’argilla quel coccio decorato, come fosse un’offerta votiva.
Visyana non disegnò mai più, in vita sua, anche se continuò sempre a cantare e a insegnare il canto ai bambini. Ma fu esaudita nel suo desiderio più profondo, perché quell’inverno un cacciatore del villaggio vicino – sviato da una gran bufera improvvisa – chiese ospitalità alla sua famiglia. Era un giovanotto che aveva una grande passione per il flauto; e quando la udì cantare capì subito che al suo fianco doveva esserci lei.
Questa però è un’altra storia, e qui non sarà raccontata. Devo solo dirvi, per concludere, quel che accadde al coccio sepolto nell’argilla.
Lo trovò, settemila anni più tardi, un ragazzo di quindici anni, che andava a raccogliere more nel macchione cresciuto dove un tempo correva il fiume. Il coccio lo incuriosì e lo fece vedere alla sua insegnante d’arte; insieme andarono al museo. E così quel coccio – per l’eccezionalità d’un graffito così antico – sta in bella mostra in una teca dedicata, al centro d’una sala del museo.
Un racconto che dimostra come le emozioni umane e le dinamiche della natura si perdono nella notte dei tempi. Molto dolce. Complimenti, solo un animo che si emoziona riesce a far riemergere una storia lontana e a colorarla così bene!
Bravo Raffaele hai costruito un racconto sul ritrovamento di un reperto archeologico, forse sei tu il ragazzo scopritore. L’abilità di ricostruire gli ambienti e di far rivivere i sentimenti degli uomini in qualsiasi epoca e, nel caso tuo, ai tempi dei nostri antenati come sai fare tu con dolcezza, è dello scrittore attento alla Storia dell’uomo e alle storie degli uomini. Lo scrittore non deve solo narrare le vicende come lo storico ma deve mettere anche il “pathos” e coinvolgere il lettore nella vicenda; tu ci sei riuscito.
Emanuele.
Ringrazio Sara Maria ed Emanuele per i loro commenti. E’ vero: ho cercato di mescolare emozioni umane e dinamiche della natura, e ho cercato di farlo con dolcezza.
Una sola nota per Emanuele: il ritrovamento del reperto non è un particolare autobiografico. Mi è venuto così, d’istinto.