Premio Racconti nella Rete 2014 “Una delle tre” di Marina Casali
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Una delle Tre
Prima
Suo padre aveva un’azienda agricola vicino a ….. Era passato tanto tempo da allora, da quelle estati calde e spensierate.
C’erano una volta tre sorelle che studiavano a Roma, un padre che faceva su e giù dalla capitale (anche se, di fatto, per due terzi dell’anno l’azienda la portava avanti il fattore) e una madre casalinga. Come finivano le scuole, la famiglia si trasferiva in campagna; quattro mesi pieni perché il padre le portava via prima della fine dei lunghi mesi di studio e se la prendeva comoda a riportarle in città. Il primo giorno di scuola iniziava senza di loro che, con calma, arrivavano a metà ottobre dopo aver aiutato per la vendemmia. La strada ingoiava la vecchia Lancia Flavia e le bambine guardavano indietro le stradelle di terra sparire dal lunotto posteriore, con i campi brulli, gli alberi tinti di giallo, nel respiro l’odore della prima legna messa ad ardere. Il viaggio durava non meno di due ore e sempre una delle gemelle si sentiva male sulle curve della strada statale Flaminia. Fatalità l’avevano chiamata proprio con quel nome lì: Flaminia, che a un certo punto implorava di fermarsi perché doveva “gomitare”. La mamma le teneva la fronte, una presa fresca e asciutta. Poi il viaggio riprendeva nel più assoluto silenzio. A nessuno andava di tornare, ma gli studi si facevano lì, in quella città lontana, della quale erano originari.
Quando la primavera volgeva finalmente al termine e l’aria profumava già d’abbandono, la casa di città finiva a soqquadro in vista della lunga villeggiatura, tutto poteva servire e ciò che si abbandonava pareva perso per sempre. La macchina ripartiva, carica di femmine e di bagagli nel baule posteriore e agganciati al portapacchi del tettuccio. L’atmosfera gioiosa ed eccitata, Flaminia che chiedeva di poter “gomitare”, ma si sbrigava perché anche lei non vedeva l’ora di arrivare. Arrivare nel luogo più amato del mondo, per restare e far durare i giorni il più a lungo possibile. Le strade si restringevano, sparivano le strisce bianche al centro della carreggiata, l’asfalto si faceva più chiaro e poi pieno di buche per via del passaggio dei trattori a cingoli, poi terminavano e la Flavia si inerpicava per la salita cavalcando un tratturo di breccia e sbuffi d’erba. Di lontano, dopo l’ultima curva, appariva finalmente alla vista la collina con la casa colonica in cima e la pineta tutt’intorno. Le bambine ridevano e scalpitavano, la macchina scoppiava di felicità e d’impazienza, il padre alla guida rideva sotto i baffetti, la madre già preparava la borsetta, pronta per scendere e prendere possesso dei mesi più belli dell’anno.
L’aria si sollevava di polvere. Papà accelerava sempre per poi frenare proprio nel mezzo dell’aia assolata e suonava il clacson. Allora scendeva Maria che attendeva già sulla loggia; non c’erano telefoni, ma lei ugualmente sapeva che saremmo arrivati proprio in quel momento. Ci sentiva da lontano. E la prima cosa che facevamo, una volta scese dall’auto, era correre verso di lei e saltarle al collo in lunghi abbracci appiccicosi di sudore. Poi sparivano, Maria e la mamma, e tutto finiva a posto, negli armadi in attesa, nella casa che finalmente respirava le nostre vite.
La madre era unicamente intenta alle attività casalinghe, arricchite delle passeggiate fino all’orto per tornarne con verdure sporche della terra argillosa di quelle parti. Le tre sorelline erano affidate ai figli del fattore e di Maria, appena un po’ più grandi, ma molto più responsabili dei coetanei di città. La maggiore, Aurelia, si trascinava dietro le gemelle ovunque si muovesse. Il padre si alzava all’alba, gli stivali pestavano il corridoio strusciando il pavimento con il tacco, la porta cigolava, poi i passi s’allontanavano e sparivano per lasciare la mattina al suo usuale silenzio rotto solo dai cinguettii degli uccelli. Qualche minuto e il trattore si metteva in moto e s’allontanava dalla rimessa.
° ° °
Poi
L’asfalto è arrivato a lambire la Proprietà. Una macchina piccola e potente si arrampica per la salita che il conducente conosce a memoria, anche se son passati tanti anni che pare una vita intera. Pare non sia cambiato nulla, solo i rovi che graffiano le mura di un casolare abbandonato. Prima dell’ultima curva l’auto si ferma. Un bottone, e cala il finestrino, l’aria profuma di buono e risveglia ricordi antichi. Una donna avanti negli anni tira il freno a mano e decide di scendere. Fa qualche passo lasciando la portiera aperta e le chiavi nel quadro. Nessuno ruberà niente, scrolla le spalle in un sospiro di sollievo, qui non può succeder nulla di male. Entro quei confini c’era il suo mondo, pensa ricordando, con quel muro invisibile che proteggeva da ogni pericolo umano, che poi da quelli l’avevano messa in guardia i suoi genitori. Per un attimo un rumore oscura il cielo: è il battito di migliaia di ali, gli storni che si preparano a ghermire l’oliva quasi matura. I piantoni son carichi di frutti e spettinati dall’incuria degli anni. La donna guarda il cielo e gli uccelli sono così tanti che non si capisce più dove inizino né dove finiscano. È un rumore sordo quello sbatter d’ali che nel silenzio pare così vicino che ti vien quasi l’istinto di abbassare la testa. Poi passa e c’è di nuovo il cielo. Azzurro come d’ottobre. E il silenzio e tanta nostalgia che si aggruma nel palato e punge gli occhi.
Non devo piangere, non posso permettermelo, non devo. Adesso risalgo in macchina faccio marcia indietro e torno di dove son venuta.
Ha imparato con gli anni a indossare una muta di protezione, di quelle pesanti che indossano i ricercatori degli oceani. Solo le pinne si dimentica sempre, quelle che le permetterebbero di nuotare via più veloce. E non è la sua natura. Si regala ancora qualche momento d’illusione.
Sarebbe bello che arrivassi a piedi per sorprendere Maria, sicuramente intenta a lustrare i fornelli della cucina economica per poi ricominciare da capo quando si farà buio e preparerà la cena. Salirò le scale e camminerò piano sulla loggia evitando di inciampare sui vasi dei gerani e poi busserò alla porta e lei spalancherà gli occhi per la sorpresa e poi mi farà accomodare come ci fossimo viste appena il giorno prima. E parleremo del mondo e lei mi regalerà le sue perle di saggezza, semplicemente, senza comprendere appieno quanto ne farò tesoro.
Quando la vita le aveva rese tanto mature da camminare sui propri passi, le strade delle tre sorelle si erano separate. I genitori non sarebbero mai più tornati a Roma. Una si sarebbe dedicata alla libera professione in tempi in cui ancora ci si poteva credere. Aveva fatto nascere tanti bambini, tutti i figli che non aveva poi avuto perché degli uomini non si era mai fidata. L’altra aveva cercato l’amore per tutta la vita, poi un giorno era tornata a bussare alla casa paterna. Entrando era inciampata in una delle creazioni della madre che si era scoperta artista una volta assolto il compito materno. Li avrebbe accuditi, tutti e due, fino alla morte; come una madre la prole aveva rimboccato loro le lenzuola, ogni sera, appena dopo il calare del sole. Fino all’ultimo giorno dell’una e poi dell’altro, che alla moglie non voleva sopravvivere troppo a lungo. La terza sorella aveva avuto un matrimonio felice. Così si diceva di chi si era rimboccato le maniche e aveva lavorato invece che crogiolarsi dopo il fatidico “sì” detto in un’altra lingua: sì, lo voglio, lavoreremo insieme alla nostra nuova famiglia. Aveva avuto quattro figli, un maschio, una femmina e poi due gemelli, di sesso diverso. Fino a che erano stati piccoli, i bambini venivano portati a rallegrare ancora la vecchia casa di campagna, poi la vita e la lontananza avevano anestetizzato quell’appartenenza. Fino alla prima e poi la seconda telefonata. Madre e padre: i nonni si erano addormentati tutti e due della morte dei giusti.
Ma sì, la macchina la lascio qui, non c’è anima viva in giro. Da qui all’aia erano cento e trentaquattro passi, li avevamo contati una volta per scommessa. Il muro che contiene il giardino sta per scoppiare premuto dalle radici dei pini, i rami secchi pendono come mani di scheletri, l’aia è stranamente pulita, liscia e scopata, bianca come la ricordavo. La casa di Maria ha tutti i vetri rotti di sassi lanciati da balordi. Il nostro casale è pieno di crepe, alcune bolle d’intonaco sono scoppiate…
La donna si fruga nella tasca del giaccone, tira fuori due chiavi legate insieme da un curioso groviglio di chiodi per i ferri di cavallo, una creazione del padre. La chiave più lunga apre il portoncino d’ingresso, la seconda, più piccola, la porta d’entrata alla vera a propria abitazione. Quando erano tutti più giovani, la casa era accessibile a chiunque desiderasse abbassare le maniglie ed entrare. Una delle tre sorelle di allora spinge il portoncino che struscia pesantemente a terra. Il cotto a terra è lucido, ottima qualità, pensa la donna, resiste oltre le generazioni. Qualche gradino e subito nota che il secondo uscio è appena socchiuso, lo spinge con un lieve senso di soffocamento; è tutto in ordine, come congelato in un’epoca che non sa ben individuare. Un’occhiata di sguincio alla grande cucina sulla destra ed entra nella grande sala in cui si svolgeva la vita comune. Ci sono due vecchi divani, il tavolone da pranzo con le sedie intorno e la poltrona Frau, uno dei primi modelli, che all’epoca aveva già un mollone sgangherato che comprimeva la natica sinistra. Si guarda intorno, da uno scuro mancante e da altri in bilico su cardini arrugginiti penetra la luce giusta perché lei possa immaginare d’essere in quell’epoca ideale del loro passato.
Dopo tutta la mattina sul trattore papà riposava un poco dopo pranzo, poi il pomeriggio lo dedicava a noi, ci faceva giocare ogni giorno, quei giochi che in fondo lasciavano dietro anche un insegnamento di vita. E la mamma, la mamma sempre in ombra, che alla fine il lavoro grosso per noi tutti l’aveva lei sulle spalle, ma non ce lo ricordava mai. Solo crescendo avremmo capito…
La donna si siede sulla vecchia poltrona, il mollone la sbilancia da una parte, sorride. Si appoggia alla spalliera, vi abbandona la nuca. Si addormenta. E sogna. O forse pensa solo intensamente. Mamma e papà al tavolo seduti insieme, ognuno con le proprie parole crociate apparecchiate davanti, e le tazze di tè bollente vicino. Papà risolveva gli schemi più difficili, poi qualche volta si scambiavano suggerimenti.
“Vasto altopiano del Tagikistan…”
La moglie è assorta sull’ultima definizione di un rebus.
“Vasto altopiano del Tagikistan?” ripete il marito innervosito di quella lacuna improvvisa; lo sa benissimo, perché non lo ricorda più …?
La donna sulla poltrona sorride a questa sua fantasia. Sente una lacrima scivolarle di lato. Apre gli occhi e li vede: son lì, tutti e due, seduti al tavolo, lui a capotavola e lei vicina alla sua sinistra, la matita sollevata pronta a scrivere la soluzione.
Li vede realmente e annusa i loro odori.
Quel profumo di acqua di rose della mamma e l’odore dolciastro del tabacco da pipa.
Marina, mi cali nelle situazioni dell’infanzia “delle tre”, il lungo viaggio, gli abbracci di Maria e le gioie di quei quattro mesi nella casa di campagna. Dopo tanti anni rivivi i sentimenti di “una delle tre” con il ritorno nella casa sulla collina. E, del periodo che unisce quelle due fasi della vita, annoti le vicende delle tre sorelle e dei loro genitori. Un soffio, perché lo scorrere del tempo è inesorabile e implacabile. Solo il ricordo di ciò che si è vissuto con sentimento compie il prodigio di ripetere le sensazioni. E Il tuo modo di scrivere ce lo conferma. Brava.
In bocca al lupo.
Emanuele.