Premio Racconti nella Rete 2014 “Le ciliegie magiche” di Agnese Poci
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Il pantalone di jeans blu, la maglietta a maniche corte gialla con il volto di un pagliaccetto, le immancabili scarpe ortopediche a occhio di bue. La mamma mi aveva agghindata per la festa. Non potevano mancare le trecce, che raccoglievano i lunghi capelli castani, ribelli protagonisti dell’estate appena conclusa. Uno zainetto compatto, con penne, colori e quaderni, da mettere sulle spalle per il mio primo giorno di scuola. Ricordo nitidamente ogni dettaglio di quella giornata.
L’emozione di mia madre che mi accompagnava, mano nella mano, alla scuola elementare che avrei frequentato. Un posto buio, grigio, che solo a guardarlo avrebbe fatto passare la voglia di trascorrerci qualche ora a qualsiasi essere vivente.
Tanti bambini irrequieti che piagnucolavano attaccati alle gambe dei papà perché non volevano stare in quel posto nuovo, così diverso dall’asilo. Per fortuna c’erano le mamme, pronte a sacrificare le proprie lacrime per convincere i figli a non versarne più. Erano strani, per me, quei bimbi. In fondo, non sapevo (ancora) cosa ci fosse di strano in quel posto. Perché piangere per un posto in cui ci sono tanti bambini e colori e fogli su cui scarabocchiare?
Raccomandazioni, abbracci, carezze. I gesti d’affetto si sprecavano tra genitori, nonni e figli.
Una signorina ci raggruppò: la maestra Anna Maria ci accompagnò, in fila per due, lungo un corridoio soleggiato. Il serpentone si è fermato dinanzi ad una porta con un disegno colorato, con quella che avrei saputo solo dopo essere una scritta, “1° C”, contornata di fiori, erba e api. La porta era color pastello, liscia, con una maniglia dorata. Una volta aperta, ci svelò un mondo nuovo, col quale quel gruppo di 25 bambini avrebbe avuto a che fare per i successivi cinque anni.
La stanza non era molto luminosa né grande, ma quando il sole filtrava dalle ampie finestre, attraverso le fronde degli alberi piantati in giardino, l’aula si riscaldava. Le finestre aperte facevano entrare un’insolita aria settembrina, giovane come le vite che si accingevano a imparare ogni giorno qualcosa di nuovo in quella stanza.
Il valzer del pulviscolo, intravisto nella luce, ci guidava verso i banchi, uno per ognuno. Come tutti gli altri, il mio era verde prato, con una banda nera in alto per sistemare penne e matita, gomma e temperino.
La nostra curiosità, fatta di gridolini e irrequietudine, ci portava a sbirciare ovunque. Sotto i banchi, si scatenava la guerra tra le gomme da masticare appiccicate al legno e le merende per la ricreazione, prosciutto cotto e nutella, cornetti alla crema e salatini.
Le sedie, dalla seduta e dalla spalliera in legno, sembravano non trovare pace, dondolavano sempre sul pavimento dalle mattonelle pintiate. 25 banchi e una cattedra, con una sedia più comoda, con i braccioli, per la nostra maestra.
Eravamo tutti sorridenti, felici, per il primo giorno ancora nei nostri vestiti colorati. Tutti unici perché diversi. C’erano i capelli ricci di Maria Antonietta, la maglietta rosa di Luana, il ciuffo ribelle di Lorenzo, gli occhi mare di Rudy, con la pelle ancora scura, prova che l’estate era appena finita. E sarebbe stata l’ultima scanzonata della nostra infanzia.
Lo avremmo capito dopo pochi istanti.
«Allora, bambini, prendete i vostri quaderni…»
«Maestra, quando disegniamo?»
«Disegnare? Ma qui siete per imparare a leggere e scrivere!»
Scusa, ma che scherzo è questo? Come, qui non siamo venuti per disegnare? La mamma mi ha comprato i pastelli e le matite colorate per i miei disegni! E ora, come faremo…dovevo disegnare una grande casa, con il fumo che esce allegro dal comignolo, con un sole giallo che sbuca dall’angolo e la mia gattina con la coda all’insù…e ora, cosa faremo?
«Bambini, ora state calmi…» Pallida in viso, la maestra era in crisi e noi troppo scalmanati. Quella frase aveva sconvolto la classe, e a pensarci oggi, non doveva essersi ancora abituata a quel marasma, tipico delle prime ore in classe. Era giovane, aveva già insegnato, ma ogni primo giorno di scuola è una storia a sé. In classe c’era chi piangeva, chi scappava nell’aula senza sosta. C’era addirittura Mario che, seduto in fondo alla stanza, aveva preso il suo giubbino dall’appendiabiti per andare via. Nel tentativo di fermare quella corsa impazzita, la maestra si era beccata anche un morso da Monica.
Maestra, ma che pretendevi? Con poche parole hai infranto i nostri sogni. Ci vedevamo già chini sui banchi a scambiarci colori e tu che fai? Ci dici che dobbiamo leggere e scrivere…Che poi, che voleva dire? Nessuno di noi lo aveva capito. Era tesa, la maestra, ma all’improvviso sorrise e rivolgendosi a noi, piccoli demoni, disse: «Bambini, facciamo un gioco?»
Se fosse ( avesse) nevicato di botto non ci sarebbe stato quel silenzio. Nella stanza si sentì il cinguettio degli uccelli, ma solo per pochi istanti: eravamo tutti nuovamente euforici. La maestra aveva usato quella parola che noi conoscevamo, “gioco”, facendo tornare la serenità nella stanza.
«Bambini, spostiamo in silenzio tutti i banchi e le sedie. Spostateli, ma pian…» Lo stridore dei piedi ferrosi dei banchi coprì le parole della maestra, consapevole che si sarebbe sentito un casino, nonostante la sua raccomandazione.
«Ora sediamoci a terra. Conosciamoci un po’. Per ricordarmi di voi, userò dei disegni.- disse andando alla lavagna, mentre tutti incrociavano le gambe all’indiana, occupando piccole porzioni di pavimento. – Io sono la maestra Anna Maria – disse. Poi, chiedendo ai primi due bimbi in cerchio – Voi come vi chiamate?»
«Marco» disse uno, poi, di seguito l’altro «Stefano». Entrambi arrossirono.
«Ciao, Marco, ciao, Stefano! Benvenuti! Siete diventati rossi, per cui per me sarete delle ciliege», che disegnò sulla lavagna. Ma accanto alle ciliegie, quella furbacchiona della maestra svolazzò col gesso a mo’ di bacchetta magica, scrivendo il nome dei gemellini Mitrugno.
«Maestra, cosa sono quelle cose?»
«Questi sono i nomi di Marco e Stefano.»
Ricordo che ci guardammo tutti a lungo, stupiti dalla magia che la maestra aveva appena fatto.
Sorrise. «Bambini, questo significa imparare a leggere e scrivere: imparare a fare delle magie, trasformare le persone, gli oggetti, tutto quello che fa parte della nostra vita in tante piccole letterine, proprio come avviene nelle pozioni magiche. Un po’ di questo, un po’ di quello e sarete anche voi dei maghi.» Tutti gli sguardi erano concentrati su di lei. Aveva catturato la nostra attenzione. «Vi va di imparare a fare queste magie?»
Abbiamo cominciato tutti quel giorno, e alcuni di noi ancora non smettono di stupirsi per le meraviglie che la magia di scrivere e leggere regala.
Grazie a ricordarci il primo giorno di scuola, Per me fu il primo ottobre di oltre mezzo secolo fa, ero un “remigino” (1 ottobre – san Remigio). Chi scorderà le magie della nostra maestra?
Brava Agnese a rammentarci “le meraviglie che la magia di scrivere e leggere regala”.
Emanuele