Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti per Corti 2014 “La Titina” di Ivana Saccenti

Categoria: Premio Racconti per Corti 2014

Nel novembre del ‘54, facemmo “S.Martino”, cioè traslocammo a Vigoreto, una frazione di poche case, fuori Sabbioneta.

La cascina dove abitavamo si apriva sulla strada con un enorme portone in legno; il cortile interno era un quadrilatero; al centro la grande aia bianca; su un lato le abitazioni del proprietario e la nostra; sul lato opposto la barchessa, cioè il portico con la stalla, l’abbeveratoio per le mucche e la pompa dell’acqua, il fienile ed il granaio; sull’altro lato il pollaio ed il porcile; in fondo, l’orto ed il pergolato.

Vivevo con i miei genitori, il nonno paterno Pietro e lo zio, fratello più giovane di mio padre. Mia madre, sposandosi, era andata a vivere in “famiglia”, cosa allora molto frequente, cioè era entrata nella famiglia di mio padre. Lui era rimasto orfano di madre da piccolo e, trovandosi in tre uomini, c’era bisogno di una donna. E solo Dio sa quanto lavoro abbia dovuto fare mia madre in quella famiglia pesante, senza possibilità di svago o divertimento.

Mio nonno Pietro era un uomo basso, dal viso tondo, occhi e bocca piccoli, capelli bianchi, carattere chiuso, taciturno, schivo, asciutto. Non ricordo di lui un solo slancio, una sola parola di affetto, una sola tenerezza nei miei confronti. Non per questo penso che non mi volesse bene o non fosse legato a me, semplicemente non lasciava trapelare i suoi sentimenti, non li sapeva manifestare. Dentro di lui sono certa nascessero, come in tutti noi, gli istinti sentimentali, per poi infrangersi contro una barriera che non gli permetteva di esternarli, come le onde del mare che si formano in lontananza e si infrangono sugli scogli, prima di arrivare a riva.

In quell’ambiente di campagna, di vita dura, povera, difficile, ho conosciuto altre persone così, soprattutto uomini e tra queste anche mio padre.

Nell’età dell’adolescenza prima, e della maturità poi, sono sempre stata attratta da questi caratteri. Ho sempre avuto per loro grande comprensione e rispetto, nella convinzione di trovarmi di fronte persone che soffrono. I sentimenti dentro pesano se non riusciamo a materializzarli con gesti, parole, espressioni fisiche e finiscono, giorno dopo giorno, per indurirci l’animo di una crosta che fa male e che va via via sempre più ispessendosi, fino a creare un muro di incomunicabilità e di incomprensione con gli altri.

Per comprendere queste persone bisogna andare oltre i silenzi, oltre l’esteriorità e saper cogliere il minimo indizio imperscrutabile, uno sguardo, una piega della bocca, il corrugarsi della fronte, un cenno col capo, un silenzio. E’ il loro modo di comunicare, forse di chiedere aiuto. Tocca a noi comprenderli, E’ un compito difficile, faticoso, che però col tempo affina, stimola e accresce la nostra sensibilità.

Nella mia memoria conservo tre istantanee di mio nonno. Lo vedo seduto sulla soglia di casa, con la tabacchiera aperta sulle ginocchia, intento a prepararsi una sigaretta. Pizzicava con l’indice ed il pollice un po’ di tabacco, lo allineava ordinatamente sulla cartina bianca, la arrotolava con precisione millimetrica e poi, con entrambe le mani, la faceva scorrere sulla lingua, come fosse un’armonica a bocca ed infine sovrapponeva i lembi e li chiudeva.

Lo vedo nei pomeriggi caldi e appiccicosi di fine estate, seduto sotto il pergolato di uva fraga, che impregnava l’aria di un profumo nauseabondo, immerso nella lettura dell’Avanti, che gli arrivava ogni giorno, nel quale ritrovava le sue ideologie socialiste, da grande sostenitore di Nenni, qual egli era.

Ed ancora lo rivedo aggirarsi per casa brontolando:”Tutti capricci, tutti capricci” riferendosi al fatto che mia madre si permetteva di spendere qualche soldo per confezionarmi, con quelle mani d’oro, leziosi vestitini, abbelliti di gale, fiochi e voulant, da sfoggiare la domenica a Messa.

Avevamo allora una cagnolina, Titina, bassa, larga, lenta e pesante, pezzata bianca e nera. Non entrava mai in casa; la sua vita si svolgeva in giro, qua e là, per i grandi spazi della cascina, seguendo l’uno o l’altro di noi. Bastava mettere un piede fuori dalla porta di casa, per ritrovarsela lì, all’improvviso, come se apparisse dal nulla, a seguire i nostri passi, le nostre corse, come un’ombra. Mi accompagnava in uno dei miei impegni giornalieri preferiti: scovare e raccogliere le uova delle galline. Mi vedeva con in mano un cestino di vimini e mi precedeva verso il pollaio. Credo che la paura delle galline la costringesse ad aspettarmi fuori, sull’uscio. Poi andavamo sotto la barchessa a continuare la mia ricerca tra le balle di fieno. Lei scavava ficcando il naso ovunque, annusando come un cane da tartufo. A volte rimaneva immobile, sospesa per qualche minuto, come se avesse avvistato la preda. Negli spazi tra una balla e l’altra le galline formavano piccole cavità, simili a nidi, e lì deponevano le uova. Scovarle e sentirle, al tatto, ancora calde, mi dava un piacere ad una soddisfazione del tutto infantile. Poi, col mio bottino, orgogliosa, andavo in casa dalla mamma; lei prendeva un uovo, con un ago vi praticava due piccoli forellini alle estremità e me lo porgeva da bere.

Per alcuni giorni Titina stette sotto la barchessa, davanti alla sua cuccia, sdraiata, col muso appoggiato a terra, senza reagire. Mio padre le portava da mangiare e la accarezzava. Nulla.

A mezzogiorno, a tavola, sentii poche parole di mio padre allo zio ed al nonno:”Il veterinario …questa sera … ce la dà Gianni …” e poi, rivolto a mia madre: “Non farla venir fuori … tienila qui”. Il discorso era volutamente enigmatico e frammentario.

Era una giornata molto calda e, fin dal mattino, la mamma aveva esposto al sole, in mezzo all’aia, il mastello pieno di acqua per lavarmi, verso il tramonto. Di pomeriggio manifestai tutta la mia impazienza per fare il bagno nell’aia, cosa che mi divertiva molto, ma la mamma mi trattenne in casa, proponendomi di aiutarla a sgranare i piselli appena raccolti nell’orto.

Ci sedemmo in cucina, una di fronte all’altra; la mamma era silenziosa, si sentiva solo il rumore dei baccelli che si aprivano sotto la pressione delle sue dita esperte e veloci e delle mie tenere e delicate, un po’ impacciate. Sceglievo i baccelli più panciuti e pieni, che sembravano scoppiare. Mi piaceva scoprire quella fila di palline verdi, tutte uguali, attaccate una all’altra, così dolci e tenere. Ad un tratto, proveniente dalla barchessa, un colpo secco, nitido, pungente, un suono nuovo, che non faceva parte delle abitudini quotidiane della cascina, Poi più nulla. Ancora silenzio.

Mi fermai, mi guardai intorno, chiesi alla mamma. Non rispose, tenne la testa bassa e continuò a sgranare. Quel suono, ormai muto, lancinava ancora le mie orecchie e mi aveva raggiunto dentro. La mamma mi tenne ancora lì, fino a quando finimmo tutti i piselli.

Uscii e corsi d’istinto sotto la barchessa. Titina non era al suo posto. Entrai nella stalla, Papà stava rastrellando il fieno sotto le mucche.

“Dov’è Titina ?”

“Non c’è più” disse, continuando a rastrellare.

“Perché ? Dov’è ?” chiesi con fatica.

“E’ morta … L’ha detto il veterinario” rispose lui.

Corsi via e mi rifugiai su una balla di fieno, a svuotare tutto il pianto che avevo in gola e nel cuore. Rimasi lì da sola, sommersa dalle domande: Perché ? Chi ? Come ?

Arrivò lui col tridente su una spalla: inforcò con forza il fieno, lo levò e se lo rimise sulle spalle. Mi si avvicinò; i suoi occhi erano lucidi come quelli di Titina malata; la voce aveva perso la sicurezza e la determinazione di sempre.

“Era ammalata … Ne prenderemo un’altra … Vieni nella stalla dalla Lollo”. La Lollo era la mia mucca preferita, quella che mi dava il latte ogni mattina per colazione. Lo seguii. Scaricò il fieno dal tridente e me lo passò.

“E’ pesante” dissi.

Si mise al mio fianco e, a quattro mani, rivoltammo il fieno sotto la Lollo.

Nessuno in casa toccò mai più l’argomento Titina, né io chiesi spiegazioni. Non seppi mai, nemmeno in seguito, chi le sparò e con quale arma. Non lo volli mai sapere e sono certa che lui non avrebbe mai voluto che io lo sapessi.

Il mio dolore quel giorno fu grande, immenso e mi parve inguaribile. Non fu così. Poche parole, pochi gesti, distillati goccia a goccia come si fa per preparare un prezioso liquore, mi diedero la certezza della comunione del mio dolore con lui. E una grande forza per crescere.

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2 commenti »

  1. Grazie Ivana perché con il tuo racconto mi hai fatto attraversare l’ infanzia, quando vivevo in un cortile come quello di Vigoreto, dove c’erano diverse famiglie. Da noi nel novembre del 54 molti contadini avevano un doppio lavoro, qui il richiamo dell’industria soffiava forte dalla fine della guerra. Io ricordo gli innocenti giochi sui fienili con le bambine aiutando gli adulti a sistemare il fieno alzato dal carro con le forche. Ricordo il mastello per il bagno e il filtro di un panno pesante per la cenere ad uso liscivia del bucato. Non voglio parlare di me ma ti sono grato perché dai la possibilità all’ultima generazione, quella dei miei figli, di vedere uno squarcio di vita dei loro nonni e dei loro padri. Un mondo antico? E’ un mondo che è scomparso ma che possiamo percorrere con la memoria, la macchina del tempo. E’ un mondo che va apprezzato per le figure come quelle di nonno Pietro, l’immagine di una generazione resa dura dalla fatica e di individui con la sofferenza nel cuore e nella mente per dominare il senso di ribellione alle ingiustizie dei contratti agrari. Degne di rispetto le altre persone che forse non volevano vivere come Pietro, quell’esistenza di sottomissione e di rinuncia. E che dire delle donne? Non solo erano “regine del focolare”, “uomini di fatica” ma anche “angeli di conforto” nella crescita dei bambini, memori della loro situazione infantile. Infine le vacche, il cavallo, i muli, le galline, il gallo, i pulcini, il cane ,i gatti e i topi campagnoli e le pantegane.
    Brava.
    Emanuele

  2. Commovente per chi, come me, ama gli animali e ha a casa cane e gatti. Mi sono immedesimata nel dolore della perdita di un amico a quattro zampe. E non solo.
    Angela Lonardo

    p.s. fammi sapere cosa pensi del mio racconto “Il ragazzo della frutta”

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