Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “Una sera” di Antonella Mei

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

 

Rimase accanto a me solo un attimo, giusto il tempo di dirmi che lui “dopo” amava starsene per conto proprio, e poi si allontanò. Ero imbarazzata. Decisi, tuttavia, di non rivestirmi subito, anche se mi affrettai a coprirmi con la trapunta a quadri arrotolata ai piedi del letto: era un modo per sentirmi meno indifesa nella mia nudità. Mi accarezzai, facendo scorrere la coperta su e giù, per non sentire la mancanza del suo corpo su di me.

Ero serena e l’incanto del piacere provato mi avvolgeva ancora.

“Se vuoi qualcosa da bere o da mangiare, non fare complimenti, il frigo è pieno!”, mi urlò dal bagno.

Gli risposi che non mi andava nulla, poi udii scorrere l’acqua. E finalmente mi sentii libera di dar sfogo alle mie riflessioni, felice che quel rumore ci avrebbe tenuto lontani, almeno per un po’.

Ero chiusa in un guscio di silenzio e di pace. Avevo bisogno di riprendermi da quel rapporto, che aveva coinvolto in maniera così prepotente i miei sensi. La violenza della passione mi aveva inebetito. Quasi sotto l’effetto di una droga, cominciai a vaneggiare, trovando risposte illogiche a ogni interrogativo razionale che andavo ponendomi sugli sviluppi inattesi della nostra amicizia. Non capivo neanche il perché di alcuni suoi comportamenti, che erano alle volte davvero bizzarri, perfino irrispettosi.

Ripensai alla prima volta che eravamo stati insieme. “Mi è piaciuto moltissimo, sai?”, mi aveva detto freddamente complimentandosi con me, come fossi una prostituta. Gli sorrisi, facendo finta di nulla, mentre si allontanava, senza concedermi una carezza o qualunque altro gesto di affetto. Non so se fu l’eccessivo imbarazzo, o il non aver voluto dar peso a quelle parole, a impedirmi di andarmene. Di certo lui provava un gusto sottile nel farmi trovare a disagio e nel vedermi fingere di essere indifferente alle sue provocazioni. Ma la maggior parte delle volte che stavo con lui neanche riuscivo a sentirle quelle provocazioni. La mia mente era come offuscata e quasi inesistenti le mie capacità di analisi.

Solo dopo, quando ore, giorni, settimane ci tenevano distanti per un po’, riuscivo lucidamente a scomporre i suoi comportamenti, incasellandoli sotto varie etichette, cui davo un senso, illudendomi così di dominare la situazione. Dico “illudendomi” perché quando mi trovavo nuovamente insieme a lui, ricadevo nelle trappole che lui mi tendeva e, anche non volendo, finivo per fare il suo gioco.

“Posso permettermi di essere così con te, perché so che hai le palle”, mi disse un giorno quando l’accusai di avermi trattato male. “Con la gente debole mi comporto diversamente”.

Riuscivo allora a nascondere l’imbarazzo e il dolore che tante sue violenze verbali mi procuravano? No, credo invece che fosse più comodo per lui fingere che io “avessi le palle”.

Mi faceva della violenza anche palesandomi con cinismo la sua indifferenza nei miei riguardi con espressioni come “non voglio che tu ti senta legata a me”, “sono una ‘puttana’, non riesco a rimanere fedele a nessuna donna” e così via.

Parlava spesso a sproposito, o faceva affermazioni per negarle, ridendo, subito dopo. Non si controllava, non rifletteva sull’autonomia che le parole acquistavano una volta uscite dalla sua bocca. Ed erano parole che ferivano. Anche se, alle volte, venivano ripetute con così tale insistenza che finivano per spegnersi in una cantilena senza senso. Ma non sempre era facile intuire il confine tra finzione e realtà. Forse non lo conosceva neanche lui.

A dispetto di tutto questo, io l’amavo, amavo stargli accanto, pensarlo, sentirlo dentro di me, non solo con il corpo, anche con lo sguardo. Amavo i momenti, rari, in cui era tenero e premuroso con me, accogliendoli con infantile emozione, forse perché inattesi. E inatteso e dolcissimo era stato quel suo primo bacio mentre, arrampicati su una collinetta, di fronte al lago di Bracciano, cercavamo di scoprire il punto più bello da cui poter vedere il panorama.

“Levati le scarpe, dai, sali a piedi nudi”, mi disse.

“Ma è pericoloso, ci possiamo far male”, risposi preoccupata. Eppure un po’ ero curiosa di sentire l’effetto dell’erba umida sotto i piedi ed eccitata all’idea di scalare quella salita in una maniera così selvaggia. Intuì la mia indecisione e si accostò a me, invitandomi ad accettare il suo aiuto. Mi appoggiai a lui e, sollevata una gamba e poi l’altra, mi liberai in un attimo delle scarpe che indossavo.

Iniziammo a percorrere il primo tratto in salita. In silenzio. Fu a metà strada che ci baciammo: inciampando su un piccolo sasso, mi aggrappai improvvisamente alla sua spalla e in un attimo ci ritrovammo stretti in un abbraccio.

Nel distaccarci l’uno dall’altra, rimanemmo qualche secondo a guardarci, poi l’umidità delle nostre labbra ci tenne uniti in un bacio intenso e vissuto senza freni, con la stessa naturalezza con cui i nostri corpi prendevano contatto con le cose che ci si rivelavano intorno.

A quel bacio non seguirono altre effusioni. Forse aveva una donna (di questo lato della sua vita privata non sapevo nulla) oppure temeva che un coinvolgimento fisico avrebbe compromesso l’amicizia che ci legava. Mi piaceva illudermi, invece, che si fosse innamorato di me e che temesse di abbandonarsi a un sentimento che lo avrebbe reso, in qualche modo, fragile. Diversi mesi più tardi, tuttavia, ci ritrovammo a baciarci e toccarci di nuovo. E, una sera di primavera, finimmo per fare l’amore. L’istinto ci trovò indifesi, costringendoci a movimenti sempre più concitati che spezzavano i nostri respiri. Ma non mi aspettò, non aspettò che anch’io provassi piacere con lui. Subito dopo, rivestendomi, cercai di essere disinvolta, mentre il chiarore della luna mi aiutava a ricostruire il guardaroba.

“Non voglio legami. E poi sto vedendo altre donne, lo sai questo?”. Mi parlò con tranquillità. Io ero accanto a lui, nella penombra, ad ammirare la luce insolita di quella sera.

Risposi con indifferenza che non mi importava nulla di quelle affermazioni. Ma, in realtà, quando lui partì per le vacanze estive, stando fuori per quasi tre settimane, mi mancò molto. Al suo ritorno ci sentimmo più volte per telefono, per poi decidere di vederci a casa sua, dove ora mi trovavo, sfinita per aver colmato il vuoto seguito a tanta lontananza.

 

L’acqua della doccia continuava a scorrere, segno che ci voleva un altro po’ prima che uscisse dal bagno. Di nuovo il ricordo del piacere provato si affacciava prepotentemente. Mi guardavo da fuori, come una divinità che, dall’alto, contempla la miseria della condizione umana; avevo come l’impressione che la mia anima fosse staccata dal corpo e lo guardasse con pietà, quel corpo stanco di cui ora mi soffermavo a guardare ogni dettaglio.

“Non ti sei vestita?”.

Un improvviso cono di luce evidenziò nel buio della stanza la sua sagoma. Indossava un accappatoio bianco; i piedi nudi, bagnati, lasciavano le orme sul pavimento, mentre si accostava al letto dove ancora mi trovavo. Si sedette un attimo accanto a me, sfiorandomi le guance con una mano semichiusa.

“Ci vediamo tra una decina di minuti in soggiorno”, si affrettò a dirmi. “Ho lasciato qualche asciugamano per te in bagno”.

“Va bene, grazie”.

Ci incontrammo mezz’ora dopo. Lui leggeva in un angolo della stanza, comodamente seduto su una poltrona. Appena mi vide alzò lo sguardo, per riabbassarlo subito dopo.

Trovata una posizione sul divano di fronte a dove stava, iniziai a cercare un contatto, tentando di scambiare qualche parola. Ci guardavamo a distanza, come due animali che si temono e non osano avvicinarsi. Non resistendo alla tensione, mi alzai e con molta determinazione mi accostai a lui, gli levai il libro dalle mani e mi feci piccola tra le sua braccia. Non disse nulla. Cingendomi un fianco con la mano sinistra, faceva scorrere la destra su e giù lungo la mia schiena. Rimanemmo così per molto tempo. Continuavo a chiedermi se quello che stavo ricevendo era veramente un dono o qualcosa che lui si sentiva in dovere di concedermi. Chiusi gli occhi per ricercare quel buio che aveva allagato la mia anima, nel momento di massimo piacere, e dato luce alle profondità dell’essere.

Dono o no, quelle carezze rimarginavano inutilmente le mie ferite. Sapevo che non lo avrei più rivisto.

 

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1 commento »

  1. Antonella ci fai conoscere la sofferenza di una donna per il rapporto con un uomo. Ci dai gli stati d’animo, le attese e la descrizione dei momenti intimi. Ci spieghi il suo amore pur riconoscendo la non sincerità dell’amato; è il dramma di molti rapporti che sono tenuti insieme nonostante tutto e che andrebbero sciolti immediatamente come logica elaborazione delle situazioni. E’ la componente irrazionale dell’Amore. Bel racconto, crudo e triste.
    Emanuele

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