Premio Racconti nella Rete 2014 “Il Traghetto” di Domenico Nava
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014IL TRAGHETTO
Con le mani stava appoggiato al parapetto della nave, su di sé sentiva il peso degli anni e il suo sguardo aveva le pieghe che nel tempo lasciano i sorrisi e una vita di stenti.
Il vento giocava coi suoi brizzolati e radi capelli, scompigliando il riporto che gli lambiva le tempie.
Ora su quel pontile stava ad osservare con gli occhi strizzati per il sole, la distanza che si creava tra l’azzurro del mare e il verde dei boschi chiazzati dai profili delle case distanti.
Accanto a lui un uomo indicava il punto in cui sarebbe stato costruito il ponte.
Il collegamento che avrebbe nel futuro potuto unire le due sponde, da Cannitello, punta della Calabria alla zona vicino a Ganzirri, spuntone siculo.
Lui guardava ma non comprendeva, non riusciva ad immaginare stagliata da un punto all’altro delle due coste alcuna struttura che le collegasse.
Che la comunicazione dello stretto tra Reggio e Messina potesse avvenire attraverso un ponte, gli risultava difficile, persino inconcepibile.
I traghetti erano stati parte della sua vita, con l’odore dei motori, della nafta che aleggiava mentre saliva su in coperta fra i corridoi, sino ad arrivare a percepire quello dei saloni, delle stoffe dei divani.
La sua storia era quella che alcune persone si trovano già realizzata da chissà quale strana stella.
Lui ancora piccolo, in braccio alla madre si amalgamava con la moltitudine di persone che viaggiava, e capiva che il loro gioco era quel confondersi nei saloni, tra i ponti in ogni nave, in quel fare la spola da un porto all’altro sino all’età in cui imparò a stare con una mano tesa ad attendere la carità
Per lui girare sulle navi, tra la gente era il vivere, come se tutto fosse una parte del suo mondo, le navi erano la sua casa, più di quella in cui tornava di notte per dormire.
L’elemosina che riceveva e stringeva in un piccolo pugno chiuso, era il premio che si conquistava abbozzando il suo sorriso.
E su queste riflessioni, nel rumore delle onde che s’infrangevano sullo scafo, lo sguardo ripescava i ricordi.
Siamo nel 1964, l’anno in cui all’età di sette anni per la prima volta iniziò a vivere il fascino del viaggio in traghetto.
In quegli anni si traghettava da Reggio, dal porto della città s’imbarcavano sia treni che passeggeri.
Lo istruirono su cosa dovesse fare, come stendere la mano tanto da impietosire i viaggiatori e come nascondersi eventualmente sgridato dai controllori.
La sua fantasia viveva tra l’incanto della navigazione e il muoversi lentamente tra la folla. Bagnandosi gli occhi cercava di strappare l’attenzione e così qualche spicciolo..
Era oltremodo piacevole per lui ragazzino seguire le manovre nei porti, accadeva infatti che una passerella veniva attraccata per far transitare; la manovra a seconda della forza del mare richiedeva un certo tempo, per molti interminabile.
Con lo sviluppo tecnologico e dei mezzi di comunicazione, oltre la possibilità di traghettare da Reggio cresceva sempre più l’opportunità di navigare da Villa S. Giovanni più vicina alla sponda sicula, con un porto che poteva accogliere navi di stazza ben superiore. Divenne presto il porto che garantiva sia frequenti corse che un tempo di attraversamento dimezzato.
Più gente, per chi elemosinava, voleva dire maggiore contatti utili a racimolare soldi, era questo che agli adulti importava mentre lui era soddisfatto perché così poteva unire all’avventura della nave quella del treno, che li portava dalla stazione di Reggio alla vicina Villa.
Per accedere alle navi, sia da Messina che da Villa si oltrepassava la stazione e spesso si attendeva che i treni finissero le manovre di imbarco. Il locomotore trainava i vagoni disponendoli su più file nella nave e così via sino al completamento delle operazioni.
Spesso si approfittava dell’attimo in cui un vagone stava per essere sganciato, per attraversare velocemente il treno da uno sportello all’altro e cosi anticipare di qualche minuto l’entrata sulla nave.
Da piccolo lui veniva sollevato e una voce solerte lo invitava ad afferrare la mano di chi stava dall’altra parte del treno ed era pronto a riprenderlo, come un gioco; rubando la sensazione che quei treni emanavano, scavalcando spesso scatole legate da corde, valigie o persone provate dal lungo viaggio.
E di quei momenti gli erano rimaste le sensazione; perché quella gente spesso adagiata sui propri bagagli, con la barba lunga e le maniche delle camicie arrotolate sulle braccia aveva l’odore della fatica, dei sogni legati come ogni cordicella attorno al loro bagaglio, alla cinta dei pantaloni, alle stringhe delle logore scarpe, alla gioia di tornare a respirare l’aria di casa, e gli sembravano così uguali agli stracci che lui aveva ogni giorno addosso che li sentiva compagni d’uno stesso viaggio.
Poi a Villa la ristrutturazione degli imbarchi contemporanei a quelli di Messina, fece si che si accedesse esclusivamente attraverso i ponti che comandati, come dei medioevali ponti levatoi, facevano direttamente entrare sulla nave.
Sostituii così il gioco dell’attraversare il treno con l’emozione di salire con le scale mobili, che lui considerava magiche.
Navi sempre più lussuose, con il servizio bar e annesso persino il ristorante, col profumo degli appetitosi arancini, il sapore del riso che viene fritto con una filante provola, in un ragù ricco di piselli, che chiunque abbia mai attraversato questo Stretto, sicuramente conserverà ancora il ricordo dell’odore.
La noia della traversata da parte di chi era pendolare o prestava servizio da marinaio ed era addetto alle operazioni di attracco, veniva smorzata dalle carte che facevano compagnia col gioco del “tresette”.
Ne seguiva con attenzione ogni mossa: il ciglio che si muoveva, la mano che picchiettava, il colpo di tosse che avvertiva, e di ogni segnale che i compagni di gioco complici degli sguardi si scambiavano, li registrava nella sua mente come se vi fosse un tempo anche per lui per sedere a quei tavoli.
Si divertiva ad ascoltare le battute più o meno provocanti quanto a volte sfottenti che quei compagni di gioco recitavano fra loro, attorniati dagli amici, dai viaggiatori consueti, dai curiosi,
Il suo mondo erano le navi e lo furono di più quando in un angolo delle panchine di legno sul punto più alto della nave, vide gli occhi di sua madre spegnersi e rimase da solo, smarrito e col cielo scuro che gocciolava le sue lacrime mentre il mare si schiantava con rabbia sulla chiglia di prua.
Lo trovarono addormentato sul corpo inerme della madre e la pietà di quei marinai fece si che da quel giorno lui fosse il loro aiutante, durante il giorno aiutava in cucina e nelle pulizie di bordo, in cambio d’un pasto caldo e un giaciglio per le notti.
Crebbe in fretta, più di ogni altro ragazzo della sua stessa età, e in quel crescere unì l’unico affetto che sentiva a bordo, tanto da venire ingaggiato come marinaio e quello divenne il suo vivere.
Le navi più veloci del suo crescere, aumentavano le comodità, saloni più eleganti, organizzati, accoglienti come tanti boudoir, che si sostituivano alle panche in legno, alle tipiche panchine che ricalcavano i sedili dei treni di quei tempi, ambienti più raccolti dove trovò spazio anche il telefono. .
Lui vide in queste navi, il mezzo di unione degli emigrati, dei lavoratori pendolari, dei turisti rapiti dal fascino di solcare lo stretto, e sempre più degli studenti universitari, che da Reggio si recavamo alla vicina città universitaria di Messina.
Così, questi salotti traghettavano le speranze, portavano su questo mare le illusioni o le certezze dei tanti studenti, i commenti e le gioie di un esame, lo sconforto e la sofferenza per quello andato male, le risate per chi si impegnava in uno scatto a raggiungere il ponte della stessa nave.
Nei fine settimana, le navi erano l’occasione utile alle comitive dei ragazzi che si concedeva la gita verso l’opposta sponda, verso l’Etna, Taormina, o verso Gambarie, e le discoteche reggine.
Lui giovane come loro, marinaio con gli occhi dello stesso colore del mare, stava ad ascoltare i suoni delle loro chitarre, i canti urlati a squarciagola o sussurrati, mentre li vedeva vicini ed abbracciati quando un fascio di luna s’immergeva nel blu della sera.
Poi venne il tempo degli amori, il viaggio con lei su queste navi, l’incontro che attendeva e che viveva nel suo turno, durante la pausa del loro viaggio.
Un appuntamento che lo faceva sentire adulto quando lei si appoggiava al suo petto, nel loro bisbigliare mentre la sera si colorava di luci e l’orizzonte si spegneva in un tramonto. Loro stavano sul punto più alto della nave, accarezzati dalla brezza del mare, custoditi dalle ombre che avvolgevano le voglie che si lasciavano andare in baci penetranti.
Visse il tempo dell’amore, l’avventura che non sapeva se sarebbe durata fino in fondo al viaggio della vita, ma era il momento magico in cui ognuno stringeva la sua donna accostato alla prua o adagiava su una panchina vicino al fumaiolo della nave l’amarezza d’un amore perso.
In quel tempo che visse a bordo dei traghetti lesse nei volti della gente innumerevoli sensazioni, tra gioia, pacatezza, malinconia e i fili della vita di chi s’imbarcava gli passavano accanto, gocce che costruivano il mare della vita.
Fu così che un giorno ritrovò lei seduta in quell’attesa del viaggiare, dopo un tempo che aveva segnato le loro scelte, si avvicinò e lo sguardo tradiva quel po’ d’imbarazzo per ciò che avrebbe potuto essere, per quel discorso che troppo giovani non seppero tenere stretto.
Lo incupiva, ora il solo considerare che il fascino di questi traghetti potesse smarrirsi, che si perdesse quel loro tranquillo cullarti e finanche il loro ondeggiare sui flutti a volte impetuosi, quello spazio di romanticismo che veniva concesso a chi per troppe ore aveva sofferto alla guida del suo mezzo.
Le sensazioni, che si fondevano con questo mare ancora cristallino, nell’assaporare il bacio di questo sole sui sedili delle navi, il respirare l’aria di casa nel momento stesso in cui si vede apparire come un saluto ai suoi figli la Madonnina, che all’entrata del porto di Messina benedice chiunque le passi davanti.
Gettò il mozzicone di sigaretta fra le onde, come fosse una parte d’amarezza che sentiva addosso, era il tempo di sbarcare, il suo ultimo viaggio su quei traghetti.
Sceso a terra si fermò e girandosi a guardare il mare pensò: “Un ponte…su questo stretto, chissà perché l’uomo vuol vedere la sua vita correre sempre più in fretta di quello che è il tempo.”
Chiuse gli occhi come a voler conservare ogni ricordo dei suoi anni su quello Stretto, sui suoi traghetti e poi si avviò in un debole, indeciso passo.
Ci dai le riflessioni di un addetto al traghetto che ricorda i momenti della sua vita come dipendenti dai mutamenti del servizio. Ben scritto e malinconico.
Emanuele