Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “Il mondo è grigio, il mondo è blues” di Angelo Chiafari

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

…è solo la mancanza/
e può affogare.
E. MONTALE, Piove

L’alba scende intanto che ti si schiudono le palpebre. Il silenzio crudele della notte ancora lascia tracce lungo i perimetri assonnati della stanza. Non respiri, ma è solo per un secondo. Gli occhi si spostano riversi sulle cose, come a doverle riconoscere dopo l’agonia di un sonno assente.
Ti gioca tra le ciglia una luce inquieta, una luce densa di latte e viscosa, ruvida allo stesso tempo e priva di vita, che allunga veli di perla tra i pallori del soffitto. Stendi la mano a cercare il fiato esausto, l’odore inerme dei papaveri dopo la brezza e l’uragano. Ma lei non c’è. Non c’è il suo corpo, la sua pelle è altrove.
Ti si ferma il respiro ancora, ma un istante soltanto. Soffocare solo un attimo, annegare nella sete di lei prima di riemergere nel nulla.
L’universo non si muove, se ne resta sottosopra, esterno, forse addirittura inutile.
Inutile come sei tu, senza di lei. Inutile come è il tuo petto, nudo, come sono gli spazi che dal suo riverbero screziato non si lasciano riempire.
Vorresti almeno il sole a gongolarsi dalle finestre, una briciola, un sorso. Il cielo invece umido non ha un sorriso, livido e spento sconfina all’orizzonte, pesa, comprime, invade gli esseri. Vorresti almeno un motivo per riprendere vita, una ragione che imprima la gravitazione al cosmo. Ma il Big-Bang è lontano, lontano ancora un giorno.
Tocca a te ridare alle cose una scenografia coerente, un ordine che non somigli all’oblio. Dal bordo del letto non c’è vertigine, issi la testa che pendeva come abbandonata sull’orlo di un precipizio, ti si tendono le fibre dei fianchi e dei muscoli addominali, riprendi forma, la schiena ti ridona la prospettiva delle altezze.
La terra reclama il suo posto al di sotto dei piedi, il cielo infimo vuole svettare nuovamente sopra le ciclopiche miserie umane. E allora ti alzi, con il coraggio di un kamikaze.
Oggi è di nuovo domenica, è una rinnovata perenne mancanza. La finestra manda rigagnoli di gocce, rìvola di mille microscopici prismi dimenticati dalla gamma dei colori, si appanna davanti al tuo respiro e ti ricorda spudoratamente che sei vivo. Ti rammenta che esisti e ti spiattella in faccia che piove.
Piove, come fosse una maledizione.
Ti soffia un sospiro nelle segrete dei palpiti, la senti scorrere nelle cellule, avvamparti nelle vene il desiderio, il bisogno dolce del suo abbraccio, dei suo capelli di vento adagiati sulla schiena. Ma lei non c’è. Non ci sono le sue mani, non ci sono i suoi seni di nuvola. Lei non c’è. E le sue dita sono altrove.
C’è solo uno specchio, asettico e brutale, dove la tua immagine compie gesti lenti e muti, dove ti rifletti crudo, evanescente e spoglio senza avere lei addosso. Poi ti guardi, ti confronti col tuo riflesso. E nel riflesso ci vedi nessuno. È un’identità che non esiste. Oggi non ti serve, oggi sei disuguale.
Oggi non hai un nome.
Hai bisogno di muoverti. Se non lo fai adesso potresti consumarti in una sola fiammata, incenerirti e svanire. Se non ti muovi adesso tutto il mondo resterà fermo, uggioso e scialbo, grigio come di metallo, inconcludente.
È uno sforzo immane, come trascinarsi le catene e i ceppi. È come scolpire i movimenti, come doverli liberare da un gigantesco blocco di marmo.
La polvere bruna scompone granelli di violetto dalla luce cinerea, grondando dall’incavo di un cucchiaino. Contraddice il concetto di calore la piccola corona di fatue piume di fenice. Poi lasci che la meccanica di fauci nere digerisca una sottile preda iridescente, lasci che il vuoto ingoi la musica e la musica il vuoto.
Ti gemono nel tatto sussulti di una danza dirompente ed epidermica, ti vive ancora sui palmi la seta impetuosa delle carezze. Lo avverti, è insopprimibile, tra le braccia, quello stringersi di lei. Ma lei non c’è.
Lei non c’è. Eppure è ancora qui, dappertutto, dovunque. Lei. In ogni angolo nascosto del tuo essere, in ogni infinitesima, intima parte di te. Lei è ancora qui. E state ancora facendo l’amore.
Il tuo corpo è fatto di petali, è così tanto mistico che devi punirlo, ammaestrarlo nuovamente alla sua isola sguarnita e brulla; è un bambino discolo che fa i capricci, è un riottoso destriero che non si lascia domare. Il tuo corpo è un’elegia, è il carme delle onde che riecheggiano l’argento della luna; è un fondamentalista e quello di lei una religione. Il tuo corpo è un ramo spoglio, teso al cielo che non raggiunge; è indocile e non sente ragioni, è un vibrare discrepante, un postulato incongruente. E devi rieducarlo ogni volta all’inammissibile sofisma di questo essere la smarrita metà di qualcosa.
I tuoi pensieri sono diventati carne, ti pieghi sui gomiti per avvelenare di una fatica fisica le giunture avvinte. Quella che ti divora lo stomaco sembra rabbia e quasi finge di essere fame; e invece è tristezza. È una profonda e insostenibile smania, una pena, una sevizia. È un turbamento, un tormento che impregna le cose.
Fletti. Rifletti.
È un palloncino il tuo cuore e se ne volerebbe via con i pensieri che sono piume. Eppure tutto il resto è piombo, tutto il resto preme, imprime, schiaccia. La terra sembra farsi molesta con tutta la sua forza di gravità.
Vorresti che l’aroma del caffè non ti straziasse le narici, che non gorgogliasse nella moka sbuffando come una locomotiva impazzita, al galoppo verso il confine della tua lucidità. Vorresti che i Deep Purple non cantassero “Mastreaded”, che quel grido non assomigliasse al tuo.
La tazza che ti fuma tra le mani disegna volute incolori che si disperdono nell’elevarsi. Ansimano le tue dita sul vetro della finestra, il tuo petto ancora nudo racchiude un silenzio. Una luce di impavidi raggi muore nel massacro tra le nuvole, sprizza e si sparge nel fiotto di un sacrificio inutile. Venature di magenta sbiadiscono fra la pioggia che si fa più lieve, ma più greve, e cola sugli oggetti vischiosa, vivida e violacea come uno sciroppo di mirtilli e sangue.
Se tu fossi uno scrittore, scriveresti della creatura mostruosa che ti abita lo scarico intasato del lavandino e, di tanto in tanto, grugnisce brontolando lugubre qualche grossa bolla. Peggio sarebbe se tu fossi musica, con quel tuo continuo controtempo: saresti una vita dodecafonica, un giro di la minore con gli accidenti in chiave, saresti una serie di puntini neri che scorrono in mezzo alle linee, tra quegli smisurati spazi vuoti. Vuoti di lei.
Oggi è domenica e la detenzione non prevede l’ora d’aria.
La tua felicità pende dorata nel giardino delle Esperidi, vive al di là dello stretto la tua sacerdotessa di Venere. Affronteresti le disumane fatiche per sottrarla al titano, ti tufferesti nella notte con la tempesta che infuria. Ma oggi è domenica e lei non si poserà su di te. Lei, con quelle sue movenze di alabastro incatenate ad una rupe.
Oggi non c’è che l’assenza: l’assenza di lei. Oggi non ci sono che immolati sospiri nel frangersi dell’ignoto che incombe.
Ancora domenica; empia, sgarbata, bugiarda domenica.
E tu, inerme. Disadorno te ne stai, con la testa di Medusa tra le mani davanti all’arido impietrire delle cose. Eroso e perso, ti sgretoli, seguendo Pegaso che sbuffa, che scalpita su altipiani spogli di un avveduto e folle buon senso.
Il vetro è uno schermo di umidi occhi, pupille madide in cui gualcisce la tua immagine. Ogni goccia piaga e trabocca, rallenta sospesa a mezz’aria. Soccombono contorni tra sfumature instabili.
Piove, ma non lava. Trasuda soltanto una luce informe, oleosa, un bagliore fosforescente, cianotico.
I poeti sono fragili. Il loro cuore è una liquida bolla, esile, una difesa flebile, che argina a fatica un fondersi di magma incandescente.
Piove che sembra un pianto. E invece è un’asfissia.
Ti sale dalle viscere un’improvvisa, incontenibile voglia di correre, un’esigenza, un bisogno incastonato nelle molecole. Se non ti muovi potresti evaporare. Se non ti muovi adesso, potresti svanire.
Pantaloncini e maglietta scarlatta ti aderiscono alle membra come una seconda pelle, una finzione inutile di un tocco delicato che la pelle stessa inutilmente sospira. Sull’uscio ansimi, la creatura del lavandino approva con l’eruttare di una ennesima bolla. Poi chiudi la porta dietro di te, senza concedere tregua ai numeri delle canzoni sul display. Scendi in strada.
L’aria impregnata di bagliori lividi s’impasta lungo gli edifici e l’asfalto, ti gonfia i polmoni e ti si incolla sui contorni dei muscoli tesi.
Respiri, forte, come se non l’avessi mai fatto, come se fosse la prima volta che respiri. Emetti un passo che quasi barrisce per quanto pesa. Quello dopo è un nuovo pachiderma. Gli altri che seguono si semplificano, s’accavallano, si amplificano. Poi si scompongono, si ricompongono, hanno aperture alari come stormi di aironi, affusolati e bianchi.
Bruci di onde di lei. Bruci del mare del suo amplesso, del suo corpo che non c’è e ancora ti accoglie.
Gravida di affanno è l’atmosfera, imbevuta d’idrogeno e di piombo. Il tuo sudore caldo gronda e vi si mescola. Ma la tua corsa si sbriciola, si sfarina luccicante in uno spettro di colori diafani. Ad ogni passo ti frantumi, nebulizzi in mezzo all’aria sovraccarica, la tua corsa è un levarsi di fenicotteri rosa e spruzzi di cristalli arcobaleno. Tutto il resto è pietra e tu sei brezza.
Le tue rotule si sfoltiscono, fendono l’aria pallida con le cadenze di una melodia. Il tuo battito è un ritmo gitano.
Palpiti. Gocciola tutto intorno una primavera che non arriva. Sfiori le persone come cristalli su un fondale. Ogni cosa si sposta fiacca, oppressa da una massa liquida, soffocante. Sei tu l’unico essere leggero, l’unico moto che il pianeta conosce.
E allora corri, con quella musica indistinta che ti si agita dentro. La tua corsa è un fluire, corri. E ti ribelli al suolo.
Corri che sembri una lacrima. Sei l’eufonia di una chitarra che arpeggia. Ti levi tra sassi caduti e macerie sommerse, ti sono sbocciate due ali sottili.
Siamo tutti polvere nel vento. Ma tu corri, perché non sei che una libellula. E voli in mezzo ai palombari.
I poeti sono solitudini. Il loro cuore è una stella cadente, è una ferita bianca che solca la notte.
Se tu fossi uno scrittore, scriveresti della tregua che, improvvisa, concede la pioggia, del silenzio che, inatteso, investe le strade. È così che si levano nell’afa umida fiocchi di cotone candidi a miriadi, soffici semi languidi che riecheggiano la vita. Nevicano a falde morbide, planano e prorompono in una quiete di assoluta magnificenza.
Sembrano le porte dei Campi Elisi, sentieri d’immacolate nuvole, sembrano mura di una fortezza bianca. Hanno le fattezze di lei.
Attonito rallenti, ma per trasfigurarti. Le minuzie liquide si vanno stemperando in una densa coltre di platino. C’è uno sfavillare adamantino, un rifulgere di rorida orchidea, un tenero e sfumato balenare di rosa pastello nello sciogliersi dell’acciaio e del bronzo. Si posa la nebbia come una veste di organza, come il mantello di una dea che incede. Invade gli specchi d’acqua, sottrae gli spigoli delle montagne. Dovunque sia l’iperuranio, dovunque esso si trovi, ti sta venendo a prendere. La sua mano lattea di bruma ti accarezza, si tende, in quello spettacolo ineffabile si apre, ti svolge sulle guance le sue dita metafisiche, ti sfiora di opalescenti batuffoli.
Ti sussulta lo spirito, ti si sporge in un tale incanto. Ti fermi, rapito e sconcerto, quasi incorporeo ti protendi, diventi intangibile, sembri pronto a trascenderti.
E invece ti pieghi in due, con i palmi sulle cosce ancora crepitanti. Indugi, nell’aria che si è rifatta nuovamente spettrale, ti si perde un grido amorfo tra le spire di un vortice implacabile, stramazzi nella cenere come precipitato da un paradiso perduto. Non puoi che abbandonarti all’apnea e senza fiato prosegue la tua deriva.
I polmoni ti abbandonano di colpo, hanno ceduto di schianto. Ora il tuo petto ristabilisce le sbarre, ti costringe alla resa, ora sei di nuovo fisico, relegato alla materia e alle sue forme.
Ormai non è più polline: è kryptonite.
Da qualche parte in quella disperazione ritrovi la forza, ti raddrizzi, ti ricomponi. Riafferri il cielo, ma con le pupille soltanto, con una sete perenne e inappagata. La tua gabbia toracica è tornata una voliera.
Ti appoggi alla ringhiera sul bordo del nulla, esplodono i tuoi respiri come supernove: li vedi brillare, ma sono già morti.
Te ne resti immobile per alcuni attimi, sgomento ed esiliato nella tua incompleta fenomenologia. Sei quel viandante sul mare di nebbia, sei una melanconica romanza di Chopin.
In questa realtà non c’entri, tu sei pletorico. Non sei che l’intoppo nell’estetica hegeliana, non sei che un’Incompiuta.
Sei ridiventato nient’altro che un sospiro. In ogni rossa cellula del tuo sangue, fin dentro la tua intima carne, non sei nient’altro che desiderio di lei. Bruci, del suo corpo che manca. Il tuo corpo s’avvampa, s’incenerisce su una pira. Portate a lei il tuo cuore intatto! Portateglielo in una cassetta, che possa custodirlo, per l’eternità.
Il cielo ti ha lasciato ancora sperduto e si prepara a far male di nuovo.
Probabilmente hai sbagliato secolo. Dovevi nascere nell’Ottocento. Allora forse avresti potuto credere nell’anarchia, ti saresti fatto beffe di questa ipocrita e rozza etichetta dalle fattezze borghesi. Avresti riso delle dicerie dei popolani, saresti corso alla finestra di lei, le avresti rubato baci, velato nella fragranza dei gelsomini. Ve ne sareste andati via insieme, avreste viaggiato per anni, sareste salpati con la foschia. Vi sareste lasciati alle spalle regimi antichi, ogni morale, ogni dovere, avreste vissuto senza tiranni, fino ai confini di mondi nuovi.
Si, dovevi nascere nell’Ottocento. E lei sarebbe stata con te, sempre.
Oppure non sarebbe cambiato nulla, nulla sarebbe valso. E tu saresti morto esule. Brigante e fuorilegge, come in questo secolo incolore.
La compatta ontologia della nebbia va solvendo il suo nitore, stillano dardi radi e sottili di un ennesimo affanno. Compaiono creature grottesche sui bordi dei marciapiedi spogli, figure inquietanti, mostri che sovvertono l’arte di Goya. Nel loro grigiore si genera il sonno della ragione. Compaiono demoni, come dal nulla, nella luce che s’è rifatta metallo.
Cosa mai è la bellezza? È una tensione, è una ricerca. È forse un viaggio più che la meta, per chi non si accontenta di vivere e basta. La bellezza è tutto ciò che rimane. È tutto ciò che resta a chi ancora vuol essere umano.
Ci vorrà ancora qualche minuto, attimi soltanto di attesa e di fremito. Poi ricomincerà la pioggia. Ti strisciano addosso gli occhi cupi di esseri ruvidi, mentre circolano nello stillicidio, sei uno straniero abbandonato qui dall’ultima nave. Un organismo bipede procede gongolante e tozzo nella direzione in cui hai ripreso a correre, gli manca una lanci di selce tra gli arti dal pelo fulvo. Emette un suono rauco salutando qualcuno. Ti guarda con gli occhi algidi da vichingo, piove più forte ma la canottiera non è per le intemperie, gli fa solo da ornamento. Una corpulenta signora dai lineamenti ancestrali di ebano attraversa l’asfalto, tra le macchine che sembrano enormi coccodrilli, come guadasse un fiume in piena, ti taglia il passo con avanzare imponente, sfoggiando con orgoglio una vaporosa permanente corvina. Peccato non sfrondi la barba con altrettanta cura, sarebbe stata la fotocopia di Barry White. Una femmina di pitecantropo trascina ignobile un passeggino, gruppi di antropomorfi tracannano scadenti liquori paglierini, hanno appena tinteggiato di ocra le loro caverne, hanno appena espanso le loro palafitte. Nella loro epiglottide riecheggia una lingua dura che tu non conosci, un agglomerato di fonemi ostili, ruvidi e gutturali.
Sono ominidi da accumulo, esseri senza meraviglia.
Tu passi accanto ad essi nella pioggia che infuria, emettono suoni striduli dal loro muso ebete, battono sui lastroni di pietra grandi ossa di mammut. Elevando i loro arti villosi, essi deridono la tua corsa. Ma sono esseri senza stupore, creature abiette, inclini ad ignorare il senso verticale che inonda l’orizzonte.
Conviene rispondere con prudenza al loro schiamazzo. Forse non hanno nemmeno il pollice opponibile; usi il medio, per non offenderli.
Transiti in mezzo ad essi mentre il cielo torbido vomita violento un muro d’acqua. La strada verso casa pare adesso interminabile, senti nella gola una morsa acre di anidride, il diluvio ti spruzza le tibie del liquame di pozzanghere sudice. Il cielo è di carminio, è una crosta d’alluminio e di sangue rappreso. Si liquefa come di cera e porpora. Si squarcia che sembra l’apocalisse.
Quando alla fine rimetti piede sull’uscio, sei un tonno fuori dal branco. Rientri che sei fradicio. Il mostro del lavabo gorgoglia e si fa beffe di te. «Sta zitto», gli grugnisci gocciolante, ma in quello scarico si deve essere intasato un giullare.
Troppe cose ti sono rimaste ancora da fare. Forse dovresti mangiare qualcosa, scendere a buttare la spazzatura.
Ti togli di dosso quei vestiti inzuppati, la verità è che non ne puoi più. Forse per respirare ti ci vorrebbero le branchie.
Grondano carezze fluide lungo i percorsi dei pettorali, s’inondano sopra i capezzoli. Ora sei di nuovo nudo. Si sciolgono i tuoi contorni nel fulgore indaco che va irradiando il nubifragio. La tua pelle reclama senza posa le labbra avide di lei.
Di lei, che è dappertutto, che non c’è da nessuna parte.
Ti scagli sotto la doccia che quasi il bollore ti graffia. Ti abbracciano l’acqua e il vapore, sono come un utero che non nutre, in cui graviti ma non rinasci. Ti passi le mai tra i capelli, ti lasci irrorare da quel massaggio che scorre intenso. È un lenire che non cura, un rimedio che è solo un palliativo.
C’è Pessoa che ti perseguita, che non ti da pace col suo non-essere.
Il rumore dell’acqua si tace. Ti asciughi, ti avvolgi nelle immensità felpate del tuo accappatoio. Si è fermata di nuovo persino la pioggia. Solo al tuo silenzio non c’è tregua.
I poeti sono salici piangenti, protendono i loro cuori sulla superficie degli stagni, liberano parole dai macigni.
Se tu fossi uno scrittore, magari scriveresti dello sciopero generale proclamato dal tuo stomaco, scriveresti di questa insaziabile fame di lei che offusca ogni altro istinto di sopravvivenza.
Forse c’è un po’ di quiete in questo nonnulla.
Sobbalzi al suono penetrante del citofono. Quando sollevi la cornetta, il perenne tacere ha reso roche le tue corde vocali.
«Chi è?», domandi flebile.
Una voce di esaltato prorompe dall’altro capo: «Salve! Giungo a portarle una visione ottimistica della vita!».
Con la simpatia di un grizzly, riappendi la cornetta brontolando qualche meritato insulto. Ma nemmeno il mostro nel lavabo fa in tempo a commentare, che il citofono riemette la sua supplica infernale.
Riafferri con rabbia il ricevitore: «Ma chi è?», reclama il brontosauro che dalla tua laringe si è messo a fare le tue veci.
«Salve! – ribadisce la voce di prima – Forse è caduta la linea».
Ora, spiegheresti volentieri a un cotanto genio che quello in cui sta parlando è soltanto un citofono, che la linea non cade, che viceversa qualcos’altro realmente potrebbe cadere, magari dal balcone, se immediatamente non ti lascia stare. Ma oggi è domenica, oggi sei più burbero del solito. E non hai nessuna voglia di dare lezioni sugli ovvi funzionamenti di un tale congegno.
Semplicemente borbotti: «Che vuole?»
«Salve! Giungo a portarle una visione ottimistica della vita».
Ciak: “tritatura di gonadi”, uno; seconda. La battuta si ripete, il suo è un copione e non gli è parsa affatto buona la prima.
Sebbene un gorilla infuriato si sia drizzato dalla base dell’esofago per obiettare al tuo posto, il cinismo è più forte e tagli corto: «Non mi interessa».
«Mi scusi se l’ho disturbata – insiste l’altro con atroce garbo -, mi conceda solo un minuto, non la tratterrò molto».
Ti prendi due secondi per rifletterci con astuta freddezza. Sembrerà che tu abbia ceduto, ma forse è in fondo l’unico mezzo praticabile per conseguire il nobile scopo di scrostarti costui dal basso ventre.
Espiri: «Va bene, scendo subito». Tanto, dovevi buttare l’immondizia.
Fai le scale come un condannato, in una mano l’ombrello, nell’altra il sacco con la pattumiera. Il tizio ti aspetta oltre il portone, entusiasta sventola i suoi opuscoli.
«Buongiorno», ti sorride.
«Come no», gli fai. Ma ti imponi un tono pacato.
«Mi scusi se l’ho disturbata ma, come dicevo, giungo a portarle una visione ottimistica della vita».
«Si, questa è la terza volta».
«Ha ragione. Lei crede in Dio?».
«In Dio? Beh, in Dio ci potrei anche credere. È sull’uomo che nutro qualche dubbio».
Non è certo uno che coglie le sottigliezze, tanto che riprende la sua partitura e comincia a menartela sciorinando i tracciati rassicuranti dei suoi fascicoli improbabili.
Attendi con distacco atarassico e impaziente che la tirata possa pervenire a una conclusione (perché, insomma, prima o poi la farà pur finita!). Lui parla, infervorato. Tu ascolti, ma il suono della sua voce lambisce i padiglioni di orecchie indifferenti.
Non è affatto di poche parole. Tu ascolti, zen, ma come un gargouille. In una mano l’ombrello, nell’altra il sacco della spazzatura.
Alla fine la smette. E proprio allora pensi che, sì, Dio c’è. E che la punteggiatura che ha sancito la cessazione di quel discorso mediocre ne è la prova più evidente.
La pausa che segue sembra degna di un attore consumato, serve solo per dare solennità a ciò che è lì per dire.
«Questo mondo sta per finire, lo sa?».
“Lo so”, vorresti rispondere. Il mondo finisce ogni domenica. Il mondo chiude i battenti ogni qualvolta il sorriso di lei se ne porta via il senso.
Ma ti limiti ad assentire, interpretando la tua parte nel culminare di quella patetica pantomima.
«Guardi qui – incalza lui -. Ascolti», e tira fuori il volume delle sue scritture sacre, il pezzo da novanta. Ci sguazza dentro con la perizia di un automa. In tal maniera, principia a venderti il paradiso come fosse un rappresentante di pentole.
È così interessante e così tanto avvincente che, mentre parla, tu non fai che chiederti dove diavolo hai lasciato il machete.
Il tipo è implacabile, non conosce alcuna pietà, deve sbandierarti tutto il repertorio. Te ne resti immobile, in una mano l’ombrello, nell’altra l’immondizia, subisci la fustigazione dei suoi epistemi, la tua resistenza è clandestina, sotterranea. Non reagisci, il tuo impegno è interamente devoluto a contenere gli acidi gastrici mentre ascolti che imminente è la battaglia tra il bene e il male, che il mondo si divide in buoni e cattivi, salvati e condannati, che la felicità è una specie di concorso a premi ed è a numero chiuso. Prevedibile come una supposta di guttalax, attacca la requisitoria sull’alcool, sul fumo, sulle droghe. Bisogna evitare le vie del malvagio, bisogna mantenere la purezza. Altrimenti ti aspetta l’inferno.
«Un altro?». È un vile sarcasmo che lui non coglie. Anzi, devasta con l’ostinazione di una ruspa lanciata inarrestabile verso il paradiso.
I puri non hanno ironia.
Quando indugia sul termine “fornicazione” sei già sull’orlo della gastrite. Grazie a una sorte benevola, però, anche una così spietata tortura ha un limite massimo. Conclude e fatalmente presenta formale richiesta di lasciarti qualcuna delle sue urticanti riviste. Ma te lo chiede con un piglio pedagogico, più o meno come fosse un ordine.
Tu accetti con manierismo e affettata gentilezza, tanto il bidone della carta non aspetta altro.
Quindi, con la mano tesa, amichevole, si congeda come se ti avesse appena fatto un favore. Prima di mollarti, comunque, ci tiene espressamente a ribadire: «Questo mondo sta per finire, se lo ricordi».
«Non mancherò», e il resto della frase te lo tieni fra le fauci. Ma ti gira in testa Kurt Cobain.
Ti avvii sulla strada, sei spossato. L’ombrello in una mano, spazzatura nell’altra.
Per fortuna ti sei portato dietro le sigarette. Se non fosse un ossimoro, tireresti un sospiro di sollievo.
Copri con passi distratti quel che resta del tragitto fino al cassonetto. Ti è salita improvvisa un’impellente voglia di bere. E intanto è il cielo che ti ubriaca. È la mancanza di lei che ti stordisce.
Vaghi. Barcolli. Ti soffermi di fronte agli altari di quei loschi mucchi di rifiuti. Una lucida ebbrezza, una crudele costatazione amichevole. Sei il paradigma dell’esistenza: in una mano l’ombrello, nell’altra immondizia. Dicotomia che poi si conclude, si risolve in quel tuo nulla.
Rifai la distanza. Le nuvole s’arrabbiano, sfrigolano, sono bobine di Tesla.
Ritorni in casa che il massacro del temporale si concede un altro ballo.
Richiudi la porta con cura, non cigola seppure qui dentro abbia tutta l’aria di una cella. Ti accoglie ancora il mostro, quello che vive nello scarico intasato. Ancora ti denigra, di nuovo ti sberleffa. Ma stavolta non puoi che dargli ragione.
La luce meridiana si assottiglia, riemerge in rari e timidi filamenti dorati, ricama i bordi della tua solitudine.
La pioggia sfina, se ne va a morire sopra le finestre.
Le tue mura sono bianche e opalescenti. E insostenibili.
Sono ispessite le pareti della realtà, si vanno consumando nella loro opera stacanovista di stritolamento. Cerchi tregua, cerchi rifugio.
Brami gli spazi.
Ti siedi. Ti adagi sui soffici contorni del letto ampio. Finché cedi, ti stendi.
Precipiti.
È un tuffo in un mare tranquillo. È una vastità, un oceano di velluto caldo e profondo, un infinito di cobalto che si piega ed accoglie le tue forme. C’è dovunque l’odore di lei, c’è il loto espanso dei vostri corpi fusi in uno.
Sei immerso nel blu. L’intenso e incruento blu della coperta su cui giaci. Coltri di turchese e di oltremare che riecheggiano di lei.
Riapri gli occhi dopo averli socchiusi. Ogni cosa è intrisa di passione, dell’azzurro sostare di lei, del languore celeste che effonde dopo il gemere, dopo la piccola morte.
La bellezza è tornata a cercarti. È come un passero che si disseta. Scrolla le piume, vola via e poi ritorna.
La bellezza non te l’aspetti, ma torna sempre a trovarti.
I tuoi pensieri si soffermano, ti accorgi che ogni cosa che tu chiami casa si veste di cromature variegate di una tonalità del blu. Sono blu le tue coperte, blu le tue camicie. Le tue magliette sono blu, lo sono anche gli accappatoi. Lo sono le asciugamani, come il tappeto del bagno, blu sono i bicchieri, le stoviglie, le tue giacche. È blu persino lo spazzolino. Sono blu i tuoi occhiali da sole.
I tuoi pensieri sono smaltati di cobalto, rifulgono le vie dei tuoi desideri come l’azzurra porta di Ishtar. I tuoi respiri sono cristalli luccicanti di zaffiri, hai l’anima che rifulge di infiniti lapislazzuli.
La bellezza è come il canto soffuso delle maree, come il cielo tra la notte e l’aurora. La bellezza è come una rondine, è come un marinaio che parte. E torna sempre a trovarti.
Dicono che Dio sia Amore. Se così è, oggi è blu persino Lui.
T’invade una mancanza cerulea. Se tu fossi uno scrittore, ti inventeresti un finale a sorpresa, scriveresti di una resa o di un volo a precipizio.
Ma oggi è domenica e tu un giro di accordi che ripete la settima. Oggi tu sei l’abbandono, un malinconico canto d’armonica, una solitudine azzurra. Oggi è il spasimo di un mondo grigio, che ti separa da lei.
Lei che non è tua.
Lei che è qui tra le tue mani, lei che ti manca, che ti vive nella carne.
Non ti resta che la musica lenta, non ti testa che il cantare straziante del tuo silenzio.
Se tu fossi uno scrittore, scriveresti del sole che invade le porte, di una felicità che sia piacere e logica. Scriveresti del cuore dei poeti, di come è rugiada che irrora i fiordalisi, di come sia vento che passa tra le primule.
E invece ti riversi su quel tuo letto di velluto cobalto ad aspettare che salga il tramonto, capace solo di sovvertire il mondo con tutti quei palpiti, di penzolare con la testa fuori dal bordo, sull’universo capovolto, sullo scompiglio, nell’attesa protesa che ritorni tra le cose la bellezza.
La sera non è che un sospiro, un latente profumo, una favola triste. È un balcone che resta sguarnito e sprovvisto di rose, non è che l’assenza di lei, di una principessa dolce prigioniera di un’altra vita.
E tu non sei che un velare di petali, il tormento inquieto di spine. Il canto di un principe folle. Azzurro.
Anzi, blues.

Loading

3 commenti »

  1. Lo strazio di una mancanza che si percepisce in modo quasi palpabile, in ogni riga di questo lungo racconto. Linguaggio ricercato parole che si rincorrono. Bellissima scrittura. In bocca al lupo!

  2. Con questo racconto riconfermi la tua spiazzante vena poetica, la notevole ricchezza lessicale, lo stile personalissimo e raffinato.
    Leggerti è sempre un bel viaggio.

  3. Ho trovato molto bello il farneticare continuo del protagonista che scandisce la sua giornata di solitudine tra colte citazioni in contrasto con le banalissime necessità del vivere quotidiano. Si avverte molto che l’autore è una persona dalla cultura poliedrica che spazia dal classico al contemporaneo con quella disinvoltura che presuppone una vasta formazione. Quello che, però, mi ha colpito di più è, senz’altro, il fatto che il racconto sembra una lunga e struggente poesia dedicata alla solitudine e al vuoto lasciato da una donna e non alla donna stessa, di cui non si saprà nulla. L’unico racconto che emerge è la piccola cronaca dell’incontro col molesto ” testimone” che insiste logorroico senza che nemmeno una parola possa penetrare nel cuore o nel cervello del protagonista che ha un impermeabile di dolore che lo rende isolato dal mondo.
    Complimenti!

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.