Premio Racconti nella Rete 2014 “Il colore della vergogna” di Gino Marchitelli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Terre rosse.
Questa era l’immagine più frequente che gli tornava in mente.
Il camion, una specie di relitto di ferro a sei ruote, li trasportava, stimati all’inverosimile, dai villaggi sperduti del Centro Africa alle coste del Mediterraneo.
Hakim era uno dei tanti giovani imbarcati nei viaggi della speranza con l’utopica illusione di trovare fortuna in Europa.
Ma questo non poteva ancora saperlo.
Era partito con un senso di tristezza enorme che gli piegava le ginocchia e soffocava il respiro.
Aveva dovuto lasciare sua moglie Aneal e i suoi tre figli al villaggio.
Erano innamorati da morire e quel distacco aveva riempito d’angoscia e di lacrime i visi dei suoi bambini.
Chissà quando li avrebbe rivisti…
Il viaggio si era rivelato più problematico di quanto potesse immaginare, un uomo si era sentito male e i conducenti lo avevano abbandonato nel deserto, impietosamente.
Hakim era stato l’unico a protestare ma la pistola che gli era stata puntata in fronte da uno degli autisti lo aveva ricondotto al silenzio.
Era stata una fortuna che non gli avesse sparato.
“I morti non pagano” gli aveva detto “e tu sei un uomo fortunato, la tua vita non vale il costo di questo proiettile”.
Mentre il camion si allontanava aveva visto l’uomo abbandonato, seduto a capo chino, ad attendere la propria fine.
Erano tutti uomini anonimi, senza volto, senza storia.
Non potevano immaginare che in Europa il colore della loro pelle sarebbe stato il colore della vergogna.
Cinque lunghi giorni di viaggio attraverso sentieri invisibili, strade nascoste e percorsi sconosciuti.
Il sole che bruciava i loro corpi schiacciati l’uno contro l’altro, gli sguardi persi nel vuoto.
Poca acqua, poco cibo, fatica, sudore e freddo e… sangue.
Il sangue di chi non riusciva a sopportare quel tormento, il sangue degli abbandonati senza speranza al mare di sabbia sahariana e allo scempio degli avvoltoi.
Le dune che si rincorrevano, una dopo l’altra, come onde di uno tsunami pronto a divorarli.
Erano uomini? Erano anime?
No, erano solo mucchi di stracci trasportati verso un illusorio eldorado, dipinto a colori
sgargianti e intriso di possibile ricchezza, dai mercanti di uomini che li avevano convinti a partire per tremila euro a testa.
Molti di loro avevano già ipotecato il futuro per gli anni a venire pur di pagare il viaggio della speranza.
Qualcuno aveva concesso le grazie della moglie o promesso le proprie figlie a quegli uomini pur di ritagliarsi un fazzoletto di spazio su quei camion.
Molti di loro non avrebbero nemmeno visto il mare.
Al confine con la Libia nuovi viaggiatori occuparono i posti rimasti liberi da chi aveva perduto la vita.
Un giovane, Rashid, si sedette vicino ad Hakim.
Lui di carnagione nord africana contrastava con il duro colore d’ebano di Hakim.
La pelle e il viso dei centro africani si confondevano con il buio della notte.
Solo gli occhi, simili a stelle sbiadite, raccontavano all’improvviso, in quell’universo sperduto, la presenza di carne, cuore e sentimenti.
I due fecero subito amicizia.
Rashid raccontò che era al suo secondo viaggio, il primo era stato tragicamente interrotto dal naufragio dell’imbarcazione.
Si era salvato per miracolo poi era stato rimpatriato.
Per lui non c’era una spiegazione logica in quell’essere stato rimandato indietro.
Per Rashid si era trattato solo di fatalità e sfortuna, molti altri ce l’avevano fatta.
La speranza non volge mai lo sguardo verso il buio, anela solo alla luce, diceva.
Nessuno aveva messo in conto la morte come possibile approdo.
Hakim non conosceva il mare, non lo aveva mai visto e Rashid raccontò di una sterminata pianura d’acqua senza confini, senza punti di riferimento se non il cielo e le stelle.
“La notte ha sempre ragione” gli disse “quando la barca scivola e il mare è sereno, non c’è nulla tranne la pioggia che possa farci paura, perché ci nasconde la guida delle stelle. Se Allah vorrà riusciremo ad arrivare. Lavorerò duramente e un giorno tornerò a casa, avrò un negozio di barberia, una moglie devota e tanti figli”.
“Quindi la morte viene dal mare” fu la risposta di Hakim “come dice il Profeta siamo qualcosa che non resta, granelli di polvere mossi alla tempesta in mano al destino. Io voglio tornare a casa, rivedere i miei figli, i miei genitori, i miei colori e tornare a coricarmi con Aneal…”
Il settimo giorno videro il mare.
Barche fatiscenti, gommoni antichi, pescherecci malridotti erano in attesa del carico d’anime da gettare verso l’ignoto.
Arrivò la sera e, nuovamente, il buio e il cielo stellato che lasciava senza fiato.
Hakim s’inginocchiò a pregare il suo Dio poi, come spettri nella notte, scivolarono via nel silenzioso frusciare del mare d’acqua.
In molti provarono timore per quel liquido scuro che pareva poterli inghiottire.
E in molti respirarono nell’aria l’odore amico e nemico del Mediterraneo ma nessuno raccontò della terribile angoscia che gli si era annidata nel cuore.
Pensavano di essere vicini al traguardo, alla realizzazione dei sogni, alla scrittura di una nuova vita sui muri delle città di cemento.
Era la prima vera libertà: la libertà di credere in un futuro migliore e la libertà di immaginare l’accoglienza dolce delle genti d’Europa.
Non arrivarono mai a destinazione.
Un altro carico di anime degli ultimi fu pagato al Dio Nettuno.
Aneal, seduta davanti all’umile dimora di paglia e fango, indica ai suoi tre bambini una stella più splendente delle altre nel cielo terso della notte africana.
“Vedete figli miei, quella stella che brilla così forte nel cielo e che mette timore alla notte è vostro padre. Presto tornerà e saremo ancora felici come un tempo…”.
“La speranza non volge mai lo sguardo verso il buio, anela solo alla luce.” E’ una delle bellissime frasi del tuo racconto, dal significato grandissimo; è l’accompagnamento di chi vuole migliorare le condizioni di vita. Trovo il tuo racconto straordinario pur nella tristezza della vicenda dove la narrazione e i sentimenti si fondono in un’unica immagine: la voglia di vivere.
Complimenti a te, Gino.
Ciao
Toccante, complimenti Gino.