Premio Racconti nella Rete 2014 “Lucy Jane Butler” di Claudio Mellone
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014“Lucy Jane Butler – Scomparsa” era scritto su un volantino attaccato alla trave orizzontale posta sopra le scale che, dall’esterno, conducevano ai binari della stazione metro Osnaghi. Al centro del foglio c’era la foto di una ragazza e, più in basso, l’appello. “Lucy non dà più notizie di sé da sabato 28 maggio. È stata avvistata per l’ultima volta verso le 23:30 alla stazione Osnaghi, sola e in stato confusionale, senza soldi né cellulare. Portava una lunga gonna color lilla e un top nero senza spalle. Lucy parla solo inglese e conosce poco la città; ha 37 anni, è alta 162 cm e ha in testa lunghi dreadlocks rossi. Ha una rosa tatuata sulla schiena, sotto al collo. Chiunque abbia notizie di lei chiami Betty”. Seguiva un numero telefonico.
Lo spazzino della mattina, dopo aver ramazzato i gradini e aver dato un primo sguardo distratto all’annuncio, risalì la scala e si mise a leggerlo con attenzione.
“Quante ne ho viste, io” pensò “di queste tipe in stato confusionale! Eccone un’altra. Ma poi l’età: 37 anni, come me! Io che mi alzo prima dell’alba per portare a casa la pagnotta, e loro che escono a quell’ora dalle discoteche. Vai a capire dove si sarà cacciata, questa qua. Comunque, individui così non è un male che spariscano: non lavorano, non hanno voglia di fare un cazzo. Nessuno ne sentirà la mancanza”.
Lo spazzino riprese a salire le scale; poi si voltò indietro e guardò di nuovo il foglio.
“Ma come avranno fatto a metterlo lassù? Di sicuro qualcuno è salito sulle spalle di qualcun altro”.
Erano le quattro di mattina. I cancelli della metro si aprirono e sulle scale passarono i primi pendolari. I loro occhi vaghi si soffermavano sull’avviso. Fuori, la piazza si stava riempiendo delle bancarelle del mercato. Una signora mattiniera, che all’alba aveva già fatto la sua spesuccia, scese le scale una alla volta, tenendosi al corrimano. Notò l’annuncio e lo lesse.
“Povera ragazza” pensò “oggi questi giovani non sanno più dove andare; sono persi, persi; noi, ai nostri tempi, avevamo le idee più chiare: anche perché mica c’era tanta scelta! Povera ragazza. Speriamo stia bene, che la ritrovino in fretta, che non le sia successo niente di brutto. Chissà dov’è finita, povera ragazza”.
Col trascorrere della mattina la scala si affollava sempre più, la gente saliva, scendeva e si sfiorava frettolosa. La stazione Osnaghi era uno snodo fondamentale della città, vi si incrociavano le linee più importanti dei trasporti pubblici: era una stazione di scambio, un fulcro per il quale transitavano tutti. Non c’è da stupirsi che Lucy Jane Butler fosse stata vista per l’ultima volta proprio là.
Le ore passarono, gli uffici si svuotarono. Un giovanotto al primo giorno di lavoro in banca, vestito di tutto punto e con al collo una cravatta bella ma male annodata, scendeva le scale della stazione con la sua ventiquattrore vuota in mano. Notò il foglio attaccato alla trave: lo lesse attentamente e poi passò oltre, ma non fece in tempo ad arrivare al binario che la sua testa si inondò di pensieri.
“Lucy Jane Butler. Lucy Jane. Lucy. Il nome non mi dice niente, ma quel viso mi pare di averlo già visto. Quegli occhi azzurri… non si dimenticano mica facilmente! E quei capelli rossi! Dicono che le rosse stiano scomparendo. È un peccato, io adoro le rosse. E chi dice che puzzano è un miserabile, uno che non è mai stato con una rossa o uno che ha la merda nel naso. Che belle le rosse! Lucy. Deve essere una del giro dello Stax. Ci sarò stato un milione di volte, allo Stax: magari l’ho vista lì. Ma chi si ricorda… Con tutta la roba che mi sono ingollato! Erano belle le nottate allo Stax. Parlavo un po’ con tutti, si facevano amicizie facili. E se c’era una rossa in giro, mi buttavo subito a ballare dietro di lei. Che tempi! Lucy? Ho mai conosciuto una Lucy? Boh, forse. Allo Stax c’era gente di mezzo mondo. Comunque, che strana sensazione. Mi pare proprio di riconoscerla. Ma no, mi sbaglio”.
Il giovanotto aspettava sul binario e intanto, come ultimamente aveva preso a fare quando era immerso nei suoi pensieri, si passava una mano sopra la testa rasata di fresco, dolcemente, avanti e indietro. Si beava di quella sensazione, di quei peletti folti e cortissimi: un piacere inedito per lui che aveva sempre portato i capelli lunghi e si era rassegnato a raparsi solo un’ora prima del suo colloquio di lavoro con la banca.
Il giorno finì, venne la sera e la notte. Alcuni ragazzi e ragazze, usciti di casa per andare a ballare, si affrettavano scanzonati per prendere l’ultimo treno che li avrebbe portati verso il loro club. Sarebbero tornati a mattina inoltrata, saltando a piè pari le poche ore di chiusura della metro. Si fermarono a leggere l’avviso e si zittirono tutti: Lucy Jane Butler, una ragazza che sembrava una di loro, era scomparsa. Confabularono un po’, poi qualcuno disse che dovevano sbrigarsi e ripresero a scendere le scale, di corsa, ma stavolta in silenzio, con i tratti del viso di colpo incupiti, oscurati da un fantasma di tristezza e di irrequietezza, sormontati dai tanti dubbi che via via si riproponevano loro in testa come un rigurgito fastidioso ma ineludibile. La stazione Osnaghi chiuse per la notte.
La mattina successiva, lo spazzino passò sui suoi soliti gradini. Dette uno sguardo veloce all’annuncio ma non si soffermò, come il giorno precedente, sul destino e sulle colpe di Lucy Jane Butler e di quelli come lei. Pensava al fine settimana ormai prossimo, alla partita della sua squadra di calcio, al regalo da fare alla bambina che avrebbe compiuto quattro anni di lì a poco.
I cancelli riaprirono, la gente riprese a fluire. Tutti vedevano la foto della rossa che parlava solo inglese e qualcuno, rallentando il passo, aguzzava la vista per leggere l’avviso. A sera, il giovane bancario ripassò con la sua ventiquattrore vuota e la bella cravatta, annodata un pochino meglio rispetto al giorno prima.
La metro chiuse per la notte, poi riaprì. La vecchietta mattiniera scese ancora le scale con le sue sportine, tenendosi al corrimano. Senza fermarsi alzò gli occhi verso la foto di Lucy Jane Butler e poi proseguì per la sua strada, con una nenia muta che le animava le labbra.
Passarono i giorni. Le persone andavano e venivano e Lucy Jane Butler era sempre là. Ormai erano in pochi a non aver visto quella foto e letto quell’annuncio. Ma qualcuno ancora c’era. Un pomeriggio, due ragazze salirono la scala.
« Dov’è, dov’è? » chiese la prima.
« Ecco, guarda » rispose la seconda « eccola lassù. Allora, che ne pensi? ».
« Impressionante. Stessi capelli, stessi occhi… ».
« E stessa espressione del viso. Guarda, avete anche lo stesso sorriso ».
« Mi sento male ».
« Perché? Non sei mica tu: quella è Lucy Jane Butler ».
« Scusa, tu non ti sentiresti male al posto mio? Siamo due gocce d’acqua! ».
« Beh, che significa? Sai che al mondo ognuno di noi… ».
« …ha sette gemelli, lo so. Ma si dà il caso che nessuno li abbia mai visti, questi gemelli. Mentre io… Guarda là… ».
« Pensa se tu la incontrassi davvero, questa Lucy! ».
« Stai zitta, non me lo dire neanche. Dai, andiamocene, questa cosa mi angoscia ».
« Possibile che nessuno ti abbia mai fermato in strada scambiandoti per lei? ».
« No, mai successo ».
« Per ora ».
« E comunque non ho tatuaggi, non ho 37 anni ma ben dieci di meno, conosco al massimo venti parole d’inglese, non conosco nessuna Betty e soprattutto non sono scomparsa! ».
« Dai, non ti alterare. Su, andiamo: i ragazzi ci aspettano ».
Passarono giorni, poi settimane. Il foglio con la foto di Lucy Jane Butler sembrava non invecchiare, o quantomeno lo faceva più lentamente rispetto a quei pezzi di carta lasciati in giro per la città, volantini pubblicitari o fogli slabbrati con offerte di lavoro, malamente appiccicati ai semafori, sui pali della luce, nelle cabine telefoniche e abbandonati al sole, al vento, agli schizzi della pioggia. Quel foglio, così difficile da raggiungere e strappare, rimase per mesi attaccato sulla sua trave.
Un giorno alla stazione metro Osnaghi comparve una donna matura. Aveva i capelli rossi, gli occhi azzurri e le mani curate. Era sempre vestita di nero, parlava solo inglese e chiedeva ai passanti, nella sua lingua: « Avete visto mia figlia? Dov’è mia figlia? » mostrando a quegli sguardi affrettati e disattenti la foto di Lucy Jane Butler. Trascorreva le giornate seduta sulle panche presso i binari: si metteva lì, cambiando ogni tanto la linea di metro. Osservava con attenzione le persone che passavano e ogni volta che arrivava un treno e si aprivano le porte, lei scattava in piedi, si mescolava alla folla e guardava, uno per uno, tutti i volti delle ragazze nelle quali riusciva a imbattersi.
Una mattina il giovane bancario fu fermato dalla signora: lei lo prese per un braccio, lo guardò fisso in faccia e gli chiese: « Hai visto mia figlia? ». Poneva questa domanda sempre più a casaccio, ora a questo ora a quello, e non mostrava più la foto. Il giovanotto, che aveva studiato inglese e aveva riconosciuto all’istante quegli occhi, quel colore che la natura aveva trasfuso pari pari dalla madre alla figlia, capì subito a chi si riferisse la donna.
« Intende Lucy? » le chiese.
« Sì sì sì » rispose lei con il viso inondato di gioia « l’hai vista? Sai dov’è? ».
« No, signora, mi dispiace » disse lui costernato « è solo per quel foglio sulle scale, lo leggo tutti i giorni. Ma di Lucy non so niente, purtroppo ». La donna riacquistò il suo volto cupo, quasi selvaggio, mollò il braccio del giovanotto e guardò altrove.
« Va bene » disse, come ringhiando « vorrà dire che l’aspetterò ancora. Deve per forza passare di qua. Tutta la città passa di qua, prima o poi ».
Il giovanotto continuò a incontrare la donna per molto tempo. All’inizio lei lo salutava da lontano, poi il suo sguardo lo eluse. Aveva le unghie delle mani luride e alcuni strappi nel vestito. Stava seduta sulle panche ma, quando arrivavano i treni, non sollevava più lo sguardo dal punto del pavimento a cui l’aveva ancorato, in mezzo alle gomme da masticare spiaccicate e annerite. Un giorno lui non la vide più. Invece di prendere subito il suo treno, girò in lungo e in largo per la stazione: era scomparsa.
Passarono gli anni. Lui fece un salto di carriera, lo spazzino cominciò a incanutire, la vecchietta della spesa non si vide più. Sebbene protetta dalle intemperie, anche la foto di Lucy Jane Butler iniziò a sbiadire; l’annuncio era diventato un foglio scialbo che nessuno si era mai preso la briga di staccare. Troppo alto, troppo scomodo.
Un giorno la società dei trasporti decise di fare dei lavori di ammodernamento nell’obsoleta stazione Osnaghi. La scala fu chiusa, la trave fu scalzata dal muro e poggiata all’esterno. La foto di Lucy Jane Butler era ancora là, sbiadita ma persistente. Le varie travi vennero raccolte, caricate su un camion e avviate al recupero, un’acciaieria che rifondeva metallo vecchio appena fuori città.
La storia triste è raccontata con garbo e acume. I sentimenti delle persone sono diversi alla luce della loro esperienza di vita. L’attenzione prima vigile e accorta dei passeggeri diviene monotona e si dilegua. Mi pare di cogliere che non bastano gli affetti nella ricerca delle persone e che il tempo copre tutto sotto l’indifferenza.
Bravo Dario.
Emanuele
Claudio, scusami
Emanuele.
Grazie per il tuo bel commento, Emanuele.
La storia della scomparsa di Lucy continua a turbarmi profondamente, ma in effetti è il tempo il vero protagonista del racconto: è lui che plasma i sentimenti, muove gli oggetti e le persone, dona pace o la toglie. Non parlerei invece di indifferenza, ma di bisogno di vita di fronte a fatti che ne sono la negazione. È la fuga dall’horror vacui, dall’angoscia di tutto ciò che è instabile e che ci devia dalla corrente del fiume.
Claudio