Premio Racconti nella Rete 2014 “Un’altra lei” di Silvia Volpi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Anche se avesse un neo sul labbro, fosse alta non più dello sgabello del pub GoOn dove andiamo a bere il venerdì sera. Se anche avesse i capelli talmente grassi da rendere dura la vita anche alle lendini, non m’importerebbe niente.
Sento che è arrivato il momento di andarle incontro.
“Elenaaaaa”.
Perché quando mi chiama tiene la “a” lunga come il finale di un quattro quarti andante?
“Sono ancora qui, arrivo” rispondo con il volume a zero.
La carta fotografica è bastarda quando invecchia perché perde un po’ di lucido e appiccica gli anni sulla faccia della gente. Mentre stringo la foto fra le dita rivedo la scena di quel giorno, precisa in testa. Per il compleanno dei miei diciott’anni si era cenato a casa con gli zii e mia cugina Patrizia. C’erano gli gnocchi al gorgonzola perché quello era il primo piatto di tutti i dieci aprile che io ricordi.
“Alzati, c’è da sparecchiare la tavola”.
“Ho capito, arrivo” dico ancora a volume bassissimo.
Gli occhi sono tutti e due sulla foto, la mia festa di compleanno.
Me ne rendo conto solo ora che sempre, da lontano, ho studiato le sue abitudini, vergognandomi di spiare. Ma è stato necessario. E’ stato vitale.
“Ma ti vuoi muovereeeee?”. E’ il grido di mia madre dalla cucina.
Quella volta là ero seduta a tavola con la torta sotto il mento. Dietro c’è lui, mio padre, che sorride con gli occhi gonfi di soddisfazione; lei mi posa la mano sul braccio.
“Come siamo belli” sussurro.
“Che dici?” chiede affacciandosi alla mia destra.
Vorrei dirle che è venuta bene, con i capelli corti sembrava più giovane della sua età. Mio padre invece aveva già messo su la pancia del cinquantenne pigro e buongustaio.
“Smettila di guardare quelle fotografie e passami i piatti”.
In questa foto sembriamo una famiglia felice, mia madre ha l’aria di una ragazza. Ma non ce la faccio a dirle che cerco un’altra lei, anche nei dettagli di quest’immagine: nella mia bocca aperta e sorridente, nella pelle chiara come la luce della mattina. Vorrei poterla riconoscere in quell’angolo di viso dove il mio occhio verde disegna una virgoletta.
Ora so che un giorno o l’altro potrei anche incontrarla, forse aspettarla sul binario di una stazione e guardarla mentre scende, incerta, gli scalini di prima classe della Freccia Rossa.
“Metti pure la tovaglia nel portabiancheria, anche oggi l’avete sporcata con il sugo”.
Magari ci assomigliamo per il naso, piccolo e schiacciato. Chissà.
Guardo meglio la foto di quel mio compleanno, sette anni fa, c’era il diciotto rosa infilato nei decori di pasta frolla della crostata al cioccolato.
Penso di dover togliere le figure dietro, mamma e papà, perché su Faceboook è il viso che conta, tanto vale ritagliarlo per bene. Quando avrò postato la mia faccia, incrocerò le dita e aspetterò.
“Perché non me l’hai detto subito, tanti anni fa?” chiedo a mia madre rovesciando le bucce di mele nella pattumiera.
Si vede che il sangue si è incazzato e il suo viso avvampa. Mamma lascia andare un coperchio nella buca del lavello sdraiando i bicchieri come a una partita di bowling.
“Dimmi, perché non subito? Perché non me l’hai detto quand’ero piccola?” insisto.
“Perché non sarebbe cambiato niente. Noi ti vogliamo bene, questo è quello che conta”. Mamma parla con lo sguardo diretto alle piastrelline verde acqua che ricoprono le pareti della cucina.
Ora sento che è il mio viso a infiammarsi.
“Ma come, c o s a sarebbe cambiato? Tutto sarebbe stato diverso. Possibile che tu non lo capisca?”.
“Ascolta, Elena, ti abbiamo cresciuta con tutto l’amore di cui siamo stati capaci. Cosa ti è mancato, eh? Dimmi, che cosa non ti abbiamo dato?”.
La rabbia acceca più del sole di luglio a mezzogiorno, cava gli occhi e serra le orecchie. La rabbia è narcisista, ti vuole tutta per sé. S’insinua nella testa e per non farla esplodere da qualche parte esce la voce. Alta. Anzi, mi metto a gridare che la testa così è al sicuro.
“Tutto sarebbe cambiato. Tutto. La mia vita intera. Avrei dovuto saperlo da te e da tuo marito”.
Ma che fa, piange invece di ascoltarmi?
“Voi dovevate dirmi che un giorno siete andati a prendermi e da quel momento per me tutto è cambiato. Come facevo a saperlo io, eh? Dimmelo, come potevo capire che cosa stava succedendo? Venti giorni, un mese? Quanto hai detto che avevo?”. Sono a un millimetro dal suo naso, porco cane, scagliata sul suo viso come se volessi infilarmici dentro.
Allento. Indietreggio.
Ma che fa, continua a piangere?
E’ proprio vero che la voce è come uno sfiato. Infatti non sto in pressione come poco fa. No, sento che qualcosa si è sciolto.
I singhiozzi di mia madre fanno più rumore dell’acqua aperta al massimo. E’ voltata verso il lavello e questo mi rende più facile lasciare uscire via tutto.
“Domani è il mio compleanno e la legge dice che a venticinque anni un figlio adottivo può chiedere informazioni sui genitori naturali. E’ quello che ho intenzione di fare”.
Fingo di riordinare la frutta nel cesto di legno e sento che lei piange più forte.
Non sopporto l’odore dolce delle mele rosse, mi viene il voltastomaco.
“Sei ingrata e testarda. Che bisogno c’è? Questa è la tua famiglia”. Lo ha detto piano prima di asciugarsi il naso col fazzoletto.
“Da quando l’ho saputo, non ho fatto altro che aspettare di poterla incontrare, ho cercato di osservare tutti i dettagli che avrebbero potuto portarmi da lei. Ma hai fatto in modo che ne trovassi ben pochi sulla mia strada. Peccato quella dimenticanza, quell’atto di nascita che non mi dà pace. Era nella cartella medica dell’allergologo e lo sapevi che avrei preso in mano quei fogli per la visita di primavera, con questi pollini che mi massacrano il naso. Mi hai tradita anche lì, con quella falsa dimenticanza”.
Lei va a sedersi a tavola come se avesse sentito il mio invito intrappolato nelle troppe intenzioni. Mi metto accanto e di nuovo riprendo in mano la foto del diciottesimo compleanno.
“Mi credi se ti dico che non l’ho fatto apposta? Quel foglio non era mai stato nella tua cartellina delle allergie”.
Lessi il documento che avevo diciott’anni appena, ma senza l’aiuto di mamma e papà non potevo fare niente.
Ora il tempo è passato e domani ho l’età per poterci provare da sola.
Aspetto la mezzanotte per postare agli amici di Facebook la mia foto del diciottesimo, scattata poche ore prima di scoprire quella verità: il giorno 10 del mese di aprile del 1989 è nata una bambina a cui viene dato il nome di Elena Defraianni.
Dev’esserci qualcuno nel mondo che può aiutarmi a capire chi c’era con me in quella sala parto dell’ospedale dei Piccoli, a Firenze.
I singhiozzi si sono smorzati ma lei ha la fronte che quasi sfiora il tavolo.
“Eri la più piccola, denutrita. Quando ci hanno chiamati eri già stata abbandonata. Sono venuta a prenderti e ti ho portato con me. A casa”.
Sento che è il momento di abbracciarla da dietro, almeno per sussurrarle in un orecchio tutto il bene che sento per lei. Ha le spalle morbide e il profumo della sua pelle apre le narici come la cima di una montagna.
L’altra è un mattoncino da rimettere a posto per far stare in piedi tutta la mia esistenza.
Sono pronta con la foto da postare. Facebook è aperto e posso gridare a tutti che da oggi comincio a cercarla.
Condividete, per favore.
Voglio soltanto ringraziarla e sapere finalmente che anch’io sono partita da lì. Con un’altra lei.
E’ tutto a posto.
Clic, pubblica.
Un racconto travolgente, che si deve continuare a leggere per sapere il seguito, incalzante e una storia dei nostri giorni.
Nel racconto è riuscita a raccontare la storia di una vita e il finale, quel tecnologico clic, mi ha fatto immaginare la protagonista sola di fronte al mare con la sua foto in una bottiglia che galleggia tra le onde. Brava!
Bello, Brava!!!
La ricerca delle proprie origini credo sia un bisogno imprescindibile. C’è da impazzire solo al minimo dubbio su chi ci ha generati. Il contatto con le radici aiuta a capire chi siamo. Il breve racconto riassume perfettamente questa necessità.
Angela
brava mamma!!