Premio Racconti nella Rete 2014 “Bushmills” di Diego Runko
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Ci sono giorni in cui il telefono non la smette di squillare. Non mi piace rispondere al telefono quando lavoro. O forse non mi piace rispondere al telefono e basta. Ai miei tempi se avevi bisogno di qualcuno andavi a cercarlo e gli dicevi le cose in faccia.
Stamattina ho già risposto tre volte al telefono. Era mia figlia. Tutte e tre le volte. Deve presentarmi il suo ragazzo. Da una settimana non fa che parlarmi della cena di stasera. Ci sono momenti che un uomo non vorrebbe mai vivere nella propria vita. Questo è uno di quelli.
Oggi al bar non è entrato nessuno. Da una settimana piove senza sosta. Bisognerà che qualcuno lassù si dia una calmata se vuol farmi arrivare alla fine del mese.
In giornate come queste, quando non entra nessuno nemmeno per colazione o pranzo mi capita di pensare al passato. Dicono che con l’età si diventi più attenti, più sensibili, o forse è solo una questione di rincoglionimento. A volte mi commuove persino vedere i tram che passano. Mi torna in mente la volta in cui su un tram mi sono dichiarato a Patrizia. Mi sono inginocchiato con tutta la gente intorno e le ho chiesto di sposarmi. Ricordo l’applauso di tutti mentre la stringevo fra le braccia e ci baciavamo. E’ stato il bacio più lungo della mia vita. Deve averlo pensato anche il ragazzino che mi ha sfilato la scatoletta con il solitario dalla tasca. Non gli sembrava vero di avere tutto quel tempo per dileguarsi. Gli sono corso dietro insieme ad un signore sulla cinquantina e una ragazzina delle superiori con uno zaino rosa in spalla. Non è servito a molto. Nel giro di tre vie era scomparso. Ho ancora in mente l’espressione delusa della ragazzina con lo zaino rosa che voltandosi mi disse: “Il mondo è un posto di merda”.
Con Patrizia poi ci siamo sposati, anche se il solitario non l’ho più ricomprato. Siamo rimasti sposati per vent’anni. Quando se n’è andata mi ha detto solo che era tempo di fare dei cambiamenti. Ora vive con un avvocato al settimo piano di un palazzo signorile in Cairoli. Il mondo è davvero un posto di merda. Ma non per lei.
Prendo un bicchiere di quelli piccoli, squadrati e ci faccio cadere tre cubetti di ghiaccio. Poi svito il tappo del Bushmills e ne verso quanto basta. Metà bicchiere, o giù di lì. Mentre sollevo il gomito per ungermi la gola sento suonare la campanellina della porta. Il primo cliente della giornata. Sto per offrirgli un bicchiere del mio whiskey irlandese preferito quando alzo gli occhi e lo vedo. Un tipo nella media, né alto né basso, con uno sguardo un po’ così, sofferente. Non saluta e va a sedersi al tavolo nell’angolo. Solo allora, mentre cerca di trovare il posto adatto al proprio corpo, mi accorgo che ha sulle spalle uno strano catafalco. Un tetto, direi. E’ fissato con delle funi. Una corda spessa a quanto pare. Allora esistono, penso.
“Hai bisogno di una mano?”
Continua ad aggiustarsi fino a che non ha trovato la posizione giusta, poi finalmente si siede. Solleva lo sguardo.
“Ho bisogno di un Bushmills”.
“Liscio?” chiedo.
“Ghiacciato”. Mi gela.
“Nel senso dei cubetti?”
“Come?” chiede del tutto ingenuamente.
“Lo vuoi con dei cubetti di ghiaccio?”
“E’ quello che ho detto.”
“Certo. Torno subito.”
Mentre torno al bancone penso che gli voglio bene.
Afferro la bottiglia e verso il liquido ambrato nel bicchiere ricoprendo completamente il ghiaccio. Gli appoggio il bicchiere davanti accennando un sorriso. Lui non ci fa caso.
Qualche istante dopo stiamo entrambi bevendo il nostro Bushmills guardando fuori dalle vetrate del mio locale.
Sto pensando al senso della vita quando squilla di nuovo il telefono. Continuo a sorseggiare la mia bevanda.
“Non risponde?”
Il tipo con il tetto sulle spalle ora si è voltato e mi sta fissando. Ha dei lineamenti ben definiti, la barba incolta e occhi verdi.
E’ più giovane di quello che sembra.
“Certo”, rispondo sbuffando.
Sollevo il ricevitore in modo automatico. Ovviamente è ancora mia figlia.
“Dimmi, tesoro?”
Mi risponde una voce gracchiante e perentoria. “Squadra mobile di Milano. E’ lei il signor Molise?”
“Si… sono… sono io.” Biascico confuso.
Il mio cliente ora ha posato il bicchiere e mi sta guardando.
“Nel suo locale in questo momento c’è un uomo con il tetto sulle spalle?” La domanda è secca, diretta.
Lo guardo. Lui mi guarda. “Ecco, io… Perché?”
“Non faccia domande. Le ricordo che sta parlando con un pubblico ufficiale. Nel suo locale in questo momento c’è un uomo con il tetto sulle spalle?”
Non so cosa rispondere. Sento il cuore che ha un battito strano, accelerato. “No… cioè volevo dire…”
Il mio cliente ha abbassato lo sguardo. Lo vedo fissare l’alcool nel bicchiere.
Il poliziotto non mi lascia il tempo di finire la frase. “Si o no, signor Molise?”
E’ una frazione di secondo. Rispondo. “Si”.
“Bene. Arriviamo.”
Sento il clic che segnala la fine della conversazione. Poso il ricevitore, tremante. Non ho idea di che cosa fare.
Il mio cliente ha ripreso a sorseggiare il whiskey e a guardare fuori dalla finestra.
Si volta quando si accorge che mi sto sedendo sulla sedia accanto alla sua. Ho la bottiglia di Bushmills in mano.
“Ancora un goccio?”, chiedo.
Ci pensa per un attimo. “Grazie”.
Gli riempio il bicchiere e poi lo invito a brindare. “Alla nostra”.
Vuotiamo entrambi i bicchieri alla goccia.
“Ancora uno?”, chiedo.
“Grazie”, risponde.
Riempio i bicchieri. “Da dove viene?”
Mi fissa per un attimo, poi risponde. “Lontano.”
Lo invito a brindare di nuovo. “Come mai a Milano?”
“Devo incontrare una persona”.
Vuotiamo nuovamente i bicchieri. Lui sta di nuovo guardando fuori dalla finestra. Continua a piovere.
“Era la polizia al telefono. Mi hanno chiesto di lei”, dico.
Mi fulmina con lo sguardo. Non dice niente.
“Fossi in lei me ne andrei adesso”, gli dico.
Rimane fermo ad osservarmi. Non capisco se è perché non ha afferrato quello che gli ho detto o perché non gliene importi nulla. Un istante dopo si alza in piedi sbattendo il tetto che ha sulle spalle contro le pareti.
“Grazie”. Lo vedo uscire di corsa sotto la pioggia.
Sono seduto sul tram ora. Un’altra giornata è andata. Mi è sempre piaciuta questa parola, “andata”. Molto meglio che “finita”. Non è mai veramente finita finché non è finita.
Appoggio la testa dolorante al finestrino del tram. Sento la gamba destra inumidirsi. Abbasso lo sguardo e mi accorgo che sto gocciolando dal naso. Ho una chiazza rossa sui pantaloni. Cerco di tamponare con il palmo della mano come posso e appoggio di nuovo la testa al finestrino.
Sento ancora nelle orecchie le urla dei poliziotti. Ricordo solo di essere stato sbattuto a terra. Mi tocco le costole. Devono avermi preso a calci, penso.
Gli uomini con il tetto sulle spalle esistono davvero. Ne avevo sentito parlare. Ci vuole coraggio a caricarsi tutto quello che si ha sulle spalle e partire. Essere diverso, a volte, è una vergogna. Non fa per me. Io non sono coraggioso.
Sbatto gli occhi inarcando la testa all’indietro per fermare l’emorragia. Poi, finalmente, mi guardo intorno. Il tram è completamente vuoto ad eccezione di una ragazzina. Sbatto nuovamente gli occhi per capire se si tratta di un’allucinazione. La ragazzina stringe tra le braccia uno zaino rosa. Prima che possa dire qualcosa parlo io. “Lo so, il mondo è un posto di merda.”
Dieci minuti dopo sto suonando al citofono di mia figlia.
“Sali papà”, la sento dire dopo il fruscio elettronico.
Mi aspetta alla porta e quando mi vede mi corre incontro. Capisco che sia spaventata.
“Cosa ti è successo?”
“Fammi sedere sul divano”, le dico. “Mi gira un po’ la testa”.
Mi accompagna in salotto e mi aiuta a sedermi.
“Ti porto del ghiaccio”, la sento dire.
Ogni rumore viene amplificato dalla mia testa. Sento fresco quando lei mi appoggia un sacchetto di ghiaccio sulla fronte.
“Cos’hai fatto alla gamba? Sei ferito?”, mi chiede.
“Niente. Io… ho perso un po’ di sangue dal naso, tutto qua…” Le sorrido.
“Sei sicuro di stare bene papà? Cos’è successo?”
Le accarezzo una guancia con la mano libera. “E’ tutto a posto. Ne parliamo dopo. Allora? Dov’è?”
“E’ di là”, dice timidamente.
“Forza, presentamelo”, le dico. “Sempre se non ti vergogni di fargli vedere me in queste condizioni”.
“Ma cosa dici…” Mi abbraccia e mi dà un bacio sulla guancia. “Ti voglio bene, papà”.
“Anch’io piccola”.
La vedo sparire verso la cucina. Appoggio nuovamente la testa sulla parte alta del divano. Il ghiaccio mi fa bene. Pochi secondi dopo sento la sua voce.
“Papà, ti presento Adrian”.
Con fatica rialzo la testa scuotendola. Sbatto le palpebre e poi lo vedo. E’ davanti a me.
L’uomo con il tetto sulle spalle.
Non sorride.
Ha in mano una bottiglia di Bushmills.
“Sono onorato, signor Molise”.
Ecco un racconto in cui il surreale non è gratuito, fine a se stesso, ma serve a dirci quanto siamo spaesati. L’uomo con il tetto sulle spalle io l’ho incontrato moltissime volte. Ottimo racconto.
Un racconto bellissimo. Lo leggi e ti resta dentro, senza bisogno di trovare un senso o inutili nessi logici. È come un sogno, un’allucinazione, la delirante fantasia di un ubriaco che inciampa nella notte. Ma al tempo stesso spietatamente vero.
Complimenti sinceri.
Grazie a entrambi. Del tempo che mi avete dedicato per leggerlo, prima di tutto. E dei complimenti.