Premio Racconti nella Rete 2014 “Butterfly” di Ugo Mauthe Degerfeld
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014La notte di Ferragosto la città non era così deserta come avrebbe dovuto essere.
Lo sapeva perché pedalando per i quartieri guardava le facciate delle case e contava le finestre illuminate. Però gli piaceva pensare che le finestre fossero accese.
E se non ne vedeva di accese, contava quelle spalancate. Sì, sapeva che qualcuna poteva essere la dimenticanza di chi aveva avuto fretta di andare in vacanza, ma solo qualcuna. Le altre no, c’era gente dietro quei rettangoli bui. Gente che cercava il fresco delle luci spente oppure che andava in giro per le strade e le piazze, lungo il fiume e sulle colline e che uscendo aveva detto Lasciamo le finestre aperte così la casa si rinfresca un po’.
Molti anni prima suo padre aveva detto che quando era militare le finestre illuminate gli mettevano malinconia perché gli facevano pensare a casa, un’altra volta aveva parlato dei treni che corrono di notte con tutti i finestrini accesi, cioè illuminati, che per lui erano sempre il treno che l’avrebbe riportato a casa, un giorno o l’altro.
Lui non aveva fatto il militare ma questa immagine l’aveva ereditata e ci aveva messo del suo. Gli piacevano quelle illustrazioni di fantascienza con astronavi punteggiate di minuscole luci che per lui erano oblò… accesi, dietro cui era accesa la vita ancora più fragile e sorprendente lì nello spazio profondo.
Suo padre si limitava alle luci della vita reale lui aggiungeva quelle della fantasia. E intanto pedalava nella notte della città a Ferragosto.
Era uscito senza un itinerario, in calzoni corti e t-shirt. Il telefono era spento, abbandonato su un mobile. Poteva anche restarci: non soffriva il caldo e non provava il desiderio di una boccata d’aria, per una volta poteva benissimo restarsene a casa.
Senza un itinerario, senza telefono, senza giacca né camicia. Un Ferragosto di libertà. Libertà perfino dalla luce accecante e bollente del giorno.
Ora vedeva solo un po’ di luna, negli spazi fra un palazzo e l’altro, se fosse arrivato al fiume l’avrebbe vista nella corrente, in collina gli sarebbe apparsa fra le foglie degli alberi o i tetti delle ville.
Si era fermato sotto un semaforo che continuava imperturbabile a passare da un colore all’altro. Voleva contare le finestre che punteggiavano la facciata di un immenso condominio. Non erano moltissime ma solo qualche anno prima non ci sarebbero state neanche quelle.
Cercava di capire se gli procuravano un’emozione o se si trattava di una curiosità statistica.
Un po’ l’una e un po’ l’altra ma la prima prevaleva, la seconda era solo un gioco.
A una delle finestre era affacciata una coppia che lo stava fissando come lui fissava loro. E’ strano come uno sguardo si faccia sentire anche attraverso lo spessore del buio. Non c’è niente da fare: uno sguardo ha un suo peso che preme lì dove si posa, forse meno di una farfalla o di un’ombra però ha un suo peso che qualche apparecchio speciale saprebbe registrare.
Il suo sguardo andava in salita, come un funambulo cammina sul suo filo, dritto fino alla coppia ma proprio come un funambulo saliva piano, mettendo un occhio dopo l’altro con la massima concentrazione per non perdere di vista quel rettangolo illuminato quasi all’ultimo piano.
E nonostante questo era chiaro come la luna che lassù l’avevano già sentito, il peso del suo sguardo.Come lui sentiva quello del loro che gli pioveva addosso da trenta metri d’altezza, un’ipotenusa tracciata nell’aria che lo trasformava nel semplice punto d’incontro con la base del triangolo.
Lui e loro due. Un triangolo.
Il peso dello sguardo era doppio, ecco perché lo sentiva così forte. Erano due paia d’occhi, uno posato su una spalla, l’altro sull’altra. Una pressione disomogenea. Pensava che la più leggera fosse lo sguardo di lei e dalla leggerezza si immaginava che fossero occhi chiari, chiarissimi.
L’altra era più accentuata, dove si posava piegava la stoffa della t-shirt. L’uomo marcava il territorio: ehi tu, cosa credi di guardare, rimetti a posto quegli occhi se no te li faccio neri.
Gli occhi del semaforo passavano senza tregua da un colore all’altro in un tripudio di frenetiche, strette orbite di moscerini che volavano come elettroni.
La coppia disegnava una forma gibbosa nel rettangolo di luce. Sembrava impossibile che quell’ammasso sgraziato appartenesse a due abbracciati che si godevano la notte di Ferragosto in città come da una terrazza affacciata su un golfo ingioiellato.
Invece era proprio così. E lui si sentiva importante perché sapeva di essere il loro paesaggio.
C’erano anche altri nel palazzo.
Finestre accese sparpagliate disordinatamente per tutta la facciata e altre aperte e buie che lasciavano entrare l’eco ora soltanto gialla del semaforo, degli abbaglianti di una macchina all’incrocio, della luna che riappariva dietro un banco di alte nuvole di passaggio. C’erano stanze in grigio e nero oltre quelle finestre buie. Le tv erano stranamente spente, niente d’inquietante una semplice circostanza: i colori e i suoni della tv davano un senso di calura che proseguiva d’inerzia la luce e i suoni intubati d’afa della giornata. Nessuno ne aveva voglia.
Avrebbe voluto sapere cosa sentivano loro del suo di sguardo. Sapeva che oramai li aveva raggiunti, era arrivato fino in cima. Il filo era ben teso. Il ritorno in discesa sarebbe stato una corsa accelerando fino al morbido sbattere delle palpebre che ne avrebbe segnato il rientro sano e salvo.
Il rumore di una tapparella che veniva alzata ruppe l’incantesimo distraendo lo sguardo dell’uomo. Il peso sulla spalla sembrò scivolare via e allontanarsi come una foglia. Ma l’altro, quello degli occhi chiarissimi, non si mosse di un millimetro.
Se ne stava lì posato sulla sua spalla come un gattino in cerca di coccole. Non osava alzare la mano fino a lui per paura di spaventarlo e farlo scappar via.
La tapparella aveva liberato un’altra finestra che si era accesa non solo di luci ma anche di parole cantate. Bimba dagli occhi pieni di malia ora sei tutta mia… la piccola dea della luna che scende dal ponte del ciel… lunghi occhi ovali… adesso voi siete per me l’occhio del firmamento…
Cupido in uno dei suoi momenti migliori. Il peso aveva avuto un piccolo sussulto come se nello sguardo a cui apparteneva fosse cambiato qualche cosa, immagina il provenire da occhi spalancati e stupiti invece che languidamente assonnati.
Il filo era una serenata di luce. Lei era rimasta sola. Un ritaglio nero posato davanti alla finestra.Dalla finestra che aveva liberato Butterfly non usciva più niente. Quella gabbia si era svuotata, ma grazie a lei lassù era sola. Grazie Butterfly.
Era fermo da ore oramai, a cavallo della bicicletta, entrambi i piedi a terra, uno sul marciapiede l’altro di punta sulla strada.
Lo sguardo che correva fra i suoi occhi e quella finestra abitata da una sagoma nera morbidamente silhouettata era così immobile e intenso da essere quasi visibile.
La sagoma nera ha voglia di muoversi. Lui lo capisce perché il filo dello sguardo trema come se lei lo stesse toccando creando piccole onde che scivolano giù fino agli occhi che lo accolgono con uno sbattere di palpebre.
Vuole scendere, lui deve soltanto aspettarla, senza muoversi di lì. E’ vitale che stia assolutamente immobile.
Eccola che si arrampica sul davanzale, si alza, nera forma purissima che divide la calda luce dell’interno dalla fredda luminosità di quella calda notte di Ferragosto.
In piedi, in linea perfetta come una tuffatrice prima del salto. A lui non viene in mente nulla di pericoloso, cosa vuoi che possa accadere in una notte come questa, con il caldo che addormenta ogni emozione e tormenta ogni singolo poro della pelle tenendo svegli i corpi e stordendo le anime? Forse di giorno ci sarebbe stato un certo allarme, un trambusto svogliato di pompieri e curiosi ma a quest’ora a chi volete che interessi se una donna sale sul davanzale al decimo piano e si mette in piedi, in linea come una tuffatrice prima del salto.
Allunga un piede nel vuoto, teso con grazia sapiente. Sembra che assaggi la temperatura dell’aria invece no, fa il primo passo.
Poi ne fa un altro posando delicatamente il piede sul filo dello sguardo e intanto apre le braccia e acquista sicurezza. Quello sguardo tiene il peso della sua vita con facilità, si flette quel tanto che basta per facilitarle la discesa, si sente così sicura che pensa che se dovesse perdere l’equilibrio lo sguardo riuscirebbe a prenderla al volo. Inizia a scendere verso di lui. Nessuno l’aveva mai guardata così.
Di solito chi si avvicina ingrandisce, ma questa volta succede l’opposto. Mano a mano che viene giù rimpicciolisce. Ha abbandonato la sua spalla e tiene i suoi occhi fissi in quelli di lui, che la guarda scendere. E avvicinarsi.
Immobile. Doveva restare immobile, nemmeno il battito delle ciglia, assolutamente no. Lei veniva giù un passo dopo l’altro ma non poteva essere più veloce di così. Doveva prendersi il tempo necessario per diventare sempre più piccola altrimenti sarebbe stato tutto inutile.
Quando questo accade il ritmo giusto è già dentro di noi, emerge spontaneamente, basta assecondarlo, forzarlo in un senso o nell’altro sarebbe uno errore fatale.
Attraversare una distanza siderale sospesi in equilibrio sull’intensità di uno sguardo, non è una cosa da niente ma nemmeno così impossibile. L’hanno già fatto in tanti e altri ancora lo faranno, e nessuno che ne sia veramente consapevole. Se lo fossero forse non allungherebbero un piede nel vuoto ma è una vertigine magnetica a cui in pochi sfuggono realmente e forse non vorrebbero sfuggirle.
A metà strada era visibilmente più piccola.
A due terzi era quasi impossibile vederla, a tre quarti era diventata la più piccola goccia che si sia mai formata.
Bimbo dagli occhi pieni di malia, cantò scivolando finalmente dentro i suoi occhi come una goccia d’amore.
Senza dubbio, la mia ignoranza in fatto di musica e dell’opera di Giacomo Puccini non mia aiuta a capire fino in fondo questo racconto. Credo che, non virgolettate, ci siano molte strofe dell’opera e queste consentono la miglior comprensione del testo. Bell’accorgimento letterario quello dello sguardo materializzato con il filo, su cui la donna si muove per scendere a terra dalla finestra. Scorrevole e interessante.
Emanuele.
Scrivi molto bene. Interessante il finale. Bravo!
Un racconto particolare, interessante. Una storia fantasiosa e quasi surreale molto piacevole.
Maddalena, Tommaso, vi ringrazio molto… quando nel 2014 ho partecipato con questo racconto non avevo capito nulla del funzionamento di Racconti nella rete… mannaggia a me, avrei imparato qualche cosa… 🙂