Premio Racconti nella Rete 2014 “La Taranta” di Dario Silenzi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014-Masipuosapere cosa hai visto quella sera a Tricarico?
A distanza di quaranta e più anni mi viene ancora fatta questa domanda. Degli amici di allora pochi ne sono rimasti. Perduti per strada o purtroppo “passati a miglior vita”. Oggi, una volta per tutte, risponderò alla domanda. Peggio per chi non avrà l’occasione di leggere e peggio per chi non ha avuto il buon senso di aspettare la risposta.
uno
La piazza di Tricarico era colma di gente: anziani e ragazzi. Coppole e puzza di toscano, il sigaro naturalmente, si mescolavano con pantaloni a zampa di elefante e odori di erbe, più o meno legali, fumate da ragazzi con i capelli non ancora troppo lunghi.
Anche le donne si erano presentate in massa: il nero delle vesti che coprivano le scarpe e gli scialli ricamati non contrastavano e non isolavano le minigonne optical alla Mary Quant. La Basilicata addormentata e immobile si stava svegliando quella sera d’estate. La piazza, a distanza di anni, la ricordo enorme. Probabilmente i ricordi dilatano gli spazi ma non aumentano il numero delle persone, potrei giurarlo: la folla era immensa.
A compiere questo miracolo, a risvegliare i cuori di tanta gente era stato Antonio Infantino. Aveva riscoperto e riproposto in chiave moderna la “pizzica “ e la “taranta”. Intendiamoci, non erano mai state abbandonate, lui le aveva estratte dalle coscienze, dalle stanze e dai cortili nelle quali erano rinchiuse per portarle a un pubblico vasto e incantato dai ritmi e dai suoni antichi, martellanti e ipnotici.
Ormai era calata la notte e il nostro solito gruppo di amici si era disperso per le viuzze del paese mescolandosi alla folla. Eravamo lì per una ricerca storico-archeologica ma siccome avevamo vent’anni, i nostri interessi non erano solo di carattere scientifico: la caccia era aperta e le ragazze del nostro numeroso gruppo non erano meno interessate di noi. La cena alla solita trattoria, che aveva accettato una convenzione da studenti, aveva riempito le pance. Il vino rosso e pesante della casa aveva contribuito a far galleggiare le nostre teste. In attesa del concerto, la musica sparata dagli altoparlanti, metteva i piedi in movimento, così mi ritrovai da solo senza mete e senza donne.
Mi venne voglia di fumare. Nei jeans di quei tempi non c’era spazio per i pacchetti di sigarette che volutamente lasciavo a casa, un po’ per fumare di meno e un po’ per difficoltà di trasporto.
La casa era sulla via centrale e in pochi minuti arrivai davanti al portone facendomi largo tra la folla senza incontrare nessuno dei miei amici. Il palazzotto, decrepito e signorile, apparteneva a una famiglia benestante del paese, da tempo emigrata negli Stati Uniti. Gli ultimi eredi, ormai americani a tutti gli effetti, avevano affidato l’edificio a un sensale locale che aveva volentieri affittato al nostro gruppo un grosso appartamento al primo piano.
Due
Al nostro arrivo, nell’entrare in quegli ambienti polverosi ed abbandonati, dapprima ammutolimmo, poi ci prese l’ angoscia ed infine la curiosità prevalse. Era come si fosse aperta una breccia spazio-temporale. I mobili, la polvere, le ragnatele appartenevano a un’epoca indefinita, sicuramente prima dell’ultima guerra, forse addirittura prima dell’altra. Erano mobili e suppellettili usate e tramandate da generazioni. Dal largo pianerottolo si accedeva, attraverso un robusto portone incorniciato da stipiti e architrave di marmo, direttamente nel salone con enorme cucina annessa, poi un corridoio centrale divideva le quattro camere e i due bagni, in fondo un’altra camera con un ripostiglio. Decine e decine di olografie di carattere religioso coprivano interamente le alte pareti fino al soffitto, nemmeno un centimetro di superficie verticale era stato lasciato scoperto. I soggetti erano santi, cristi e madonne con cuori trafitti da spade, raffigurazioni di martiri con tutti gli strumenti dei loro martirii, deposizioni dalla croce e flagellazioni, corone di spine e volti straziati dal dolore, una galleria di orrori religiosi.
Cominciammo le pulizie e non fu facile. I materassi di crine avevano assorbito il tempo e i suoi umori, costringere i ragni e gli altri abitanti della casa allo sfratto fu impresa ardua, spazzare e lavare tuti quei metri quadri ancora di più. Eravamo tanti e alla fine riuscimmo a sistemare in modo decente i sacchi a pelo sui letti. Quando venne il momento di aprire gli armadi ci fu la sorpresa: diverse scatole da scarpe di cartone erano legate con dello spago sul fondo di agni armadio, pieno di grucce di legno e vuoto. Non ci pensammo due volte, sciolti i nodi alzammo i coperchi. Centinaia di fotografie che raffiguravano funerali con relativi carri funebri trainati da cavalli neri con pennacchi neri, bare, camere ardenti con annesso feretro e ceri ai lati, veglie funebri e ritratti dei defunti. Anche qui una interessante e macabra raccolta monotematica. Rimettemmo tutto a posto e ci rassegnammo al nostro destino. Un’altra sorpresa fu la scoperta che nel cassetto del mio comodino non c’era il solito Vangelo ma una Bibbia. La osservai a lungo poi con timore la presi con due dita, lentamente la posai sul ripiano di marmo grigio del comodino. Aveva come segnalibro una grossa, vecchia chiave, una chiave di quelle di una volta, grossa, nera, di ferro. Il libro non si poteva sfogliare, era stato legato con diversi giri di spesso filo anche lui di ferro, sicuramente serrato con l’aiuto di una pinza tanto da incidere la vecchia copertina di pelle anche lei nera. Osservando bene il volume si capiva che una mano robusta aveva girato più volte la chiave all’interno stracciando alcune pagine. Dopo questa scoperta ci mettemmo alla ricerca di altri esoterici indizi. Notammo un traballante tavolino rotondo a tre gambe e mazzi di piume di gallina legati con spago e nascosti sotto i materassi. Fummo veri uomini e nessuno abbandonò la casa.
Solo dopo due o tre giorni mi accorsi che qualcosa non tornava. La finestra spazio–temporale era aperta ma non completamente. Ripassai come per fotografarli nella memoria, gli arredi, i quadri, gli oggetti, persino i piatti in cucina e gli specchi del bagno: nulla, a prima vista tutto era perfetto. Il bravo scenografo di Dario Argento non avrebbe saputo come migliorare il set. Poi cominciai a controllare le numerose foto incorniciate sopra le credenze, sopra i tavoli, le mensole e i comò. Ecco cosa non andava: insieme a donne con lunghi vestiti e cappelli con veletta, insieme a uomini con ghette e cilindro, insieme a bambini vestiti da marinaretti ecco spuntare un ritratto fotografico in bianco e nero di un bambino con un rosario e un libricino in mano. Tutto normale? No! Era vestito come quando io avevo fatto la prima comunione: giacca e pantalone corto grigi, cravattina lunga, calze bianche corte, scarpe di cuoio bianco e una fascia sul braccio destro, rosario e libricino bianco in una mano, una candela nell’altra.
Cercai ancora e trovai altre foto dello stesso bambino: sempre da solo, altre pose, ora seduto, ora in piedi vicino a una finestra o mentre sfogliava un libro. Magro, sereno ma non sorridente, pantaloni sempre corti. Le fotografie dovevano essere state scattate da un fotografo, c’era molta cura nell’inquadratura e non lasciavano intravedere altro oltre al soggetto. Erano riprese del bambino all’interno della stessa casa. Dovevano essere tre o quattro, disseminate e confuse con le altre nelle stanze. Le smontai dalla cornice, nessun timbro sul retro. Appartenevano a un’altra epoca rispetto a quelle vicine, occhio e croce 1960. Le stavo mentalmente confrontando con le foto della mia Prima Comunione.
La finestra o breccia dello spazio tempo si era chiusa. Ero soddisfatto, la casa aveva un errore temporale ed io lo avevo scoperto. Alzai lo sguardo dall’ultima foto che avevo tra le mani, il sorriso ebete che avevo a causa della scoperta si spense riflesso dallo specchio del grosso armadio di noce che avevo di fronte. Posai la foto e, come mosso dai fili di un burattinaio, aprii l’anta: sul
fondo le scatole di fotografie che avevo già guardato.
Erano stampe di piccolo formato e le avevo già guardate altre volte, ma dopo aver osservato le prime, abbandonavo l’impresa, erano centinaia. Lapidi, camere mortuarie con defunto, veglie funebri, molte raffiguravano i cortei funebri. Alcune riprese erano dall’alto, forse da qualche finestra dello stesso palazzetto. I personaggi in gramaglie seguivano la carrozza con il feretro percorrendo la via principale e a giudicare dal numero molta gente doveva essere morta in quel paese. Sicuramente molti di quelli che seguivano il feretro sarebbero stati un giorno immortalati nella carrozza stessa. Decisi di armarmi di coraggio e pazienza e cominciai a controllare tutte le foto.
Stavo diventando un lavoro monotono e inutile. Da una scatola finalmente spuntarono un gruppo di stampe più chiare, su carta più leggera delle altre e cosa strana avevano il bordo rifilato con una taglierina seghettata. Era lui, o meglio il suo funerale. Lo stesso bambino raffigurato vivo nelle foto sui mobili ora era inequivocabilmente morto! Steso su un catafalco bianco con lo stesso rosario tra le mani giunte e poste sul petto. Anche il vestito era quello della foto della comunione ma non aveva la fascia sul braccio. La carrozza questa volta era bianca ed il corteo funebre era composto da cinque o sei persone.
Per abitudine e a causa dello studio, la ricerca e l’investigazione mi hanno sempre appassionato e mi hanno sempre dato grosse soddisfazioni. Quando gli indizi portano ad un risultato o a una scoperta l’intimo appagamento supera spesso la gioia della scoperta stessa. Il ragionamento che spesso nasce da una intuizione, la logica che accompagna il percorso investigativo sono il prodotto di una disciplina mentale ferrea, formatasi dopo innumerevoli tentativi spesso fallimentari.
Quella volta invece non ebbi nessun moto di orgoglio o soddisfazione. Rimisi tutto in ordine e decisi di tenere la scoperta per me. In fondo a chi poteva interessare la breve vita del piccolo e forse ultimo abitante di quella casa. Così mi preparavo ad uscire quando la porta del ripostiglio sulla parete di fondo della stanza, attirò la mia attenzione. Era chiusa a chiave, come alcuni cassetti dei mobili della casa. Mi ero già reso conto della situazione nel momento della consegna dell’appartamento, ma fino ad ora non avevo dato peso a quelle chiusure.
Non volevo scassinare serrature e così arrivai alla porta di ingresso per uscire e andarmene. Posai la mano sulla maniglia della porta d’ingresso quando, alzando gli occhi, vidi una chiave appesa ad un chiodo infisso sull’interno della porta stessa. Ero riuscito a scoprire l’errore temporale ora si presentava l’occasione di cercare nello spazio ancora chiuso di quella casa.
Provai subito la chiave nella serratura del ripostiglio, ma naturalmente il tentativo andò a vuoto. Ritornai all’ingresso. Quei cassetti chiusi nelle varie stanze erano una tentazione stimolante. Partii dal cassetto più vicino all’ingresso: quello della credenza del salone. La chiave funzionò. Il cassetto era vuoto, dentro solo un’altra chiave. Era troppo facile. Come scatole cinesi aprii tre cassetti contenenti tre chiavi percorrendo l’itinerario ingresso-ripostiglio. Ora avevo in mano l’ultima e mi avvicinai alla porta, l’ ostacolo finale. Aperta! Lo stanzino era buio, vuoto, senza luce e privo di finestre. Spinsi l’anta, la luce alle mia spalle si infilò lenta e timorosa come il mio movimento. Notai, posta in piedi al centro della piccola stanza, una valigia di fibra marrone legata con una cintura di cuoio. Una valigia da emigrante.
Arrivato a quel punto la valigia doveva essere aperta. La adagiai sul pavimento e, tolta la cinghia, feci scattare le serrature. Non so cosa m’aspettassi ma sembrava la gerla di un babbo natale degli anni cinquanta. Trenini, vagoni, rotaie, un aeroplano in latta con quattro eliche e la scritta “Sabena”, un robot metallico con una chiavetta su un fianco, automobiline, un trattore e tanti soldatini, indiani e cow boys.
Basta era troppo! Rimettendo a posto mi dissi che ero un cretino e che quest’ultima scoperta me la potevo risparmiare. Naturalmente ero sempre più determinato a non raccontare nulla di tutto questo a nessuno.
Chiusi a chiave la porta e i cassetti, ripercorrendo al contrario il l’itinerario e me ne andai.
Tre
La sera del concerto era la sera di chiusura della campagna di ricerche. La voglia di fumare stava passando, forse non l’avevo mai avuta, ma l’assenza di programmi in attesa dell’evento mi metteva a disagio e, anche senza la dipendenza dalla nicotina, una sigaretta riempie il vuoto. Percorrendo la via principale dirigendomi verso il portone del palazzetto notai che tutte le finestre del nostro appartamento erano illuminate. Salii la rampa di scale e arrivato davanti alla porta di ingresso notai l’uscio socchiuso. Una sottile lama di luce filtrava sul pianerottolo buio. Mi avvicinai e, filtrando i rumori ormai più tenui provenienti dall’esterno, udii chiaramente dei colpi ripetuti provenienti dall’interno. Erano come colpi di martello dati con una frequenza maggiore di quella che normalmente si usa nell’infiggere un chiodo nel muro.
“Qui le cose sono due: o Marco si è dato da fare, ha rimorchiato e già l’ha convinta a trombare o qualcuno si è dato al bricolage!” pensai. Scartai subito la seconda ipotesi, ben conoscendo l’abilità di Marco nell’andare subito al sodo. Mi fermai sulla porta per alcuni secondi. Marco non poteva essere perché i colpi venivano dall’ultima camera quella che occupavo io e poi sembrava una mitragliatrice, con tutta la passione possibile nessun essere umano ha velocità di accoppiamento cosi elevate e poi perché nel mio letto. Così mi autorizzai a proseguire cautamente ed in silenzio. Percorsi lentamente il lungo corridoio affacciandomi nelle stanze vuote ed illuminate. Quello che vidi, mentre i pochi peli sulle braccia sembravano essere diventati spilli conficcati nella pelle, lo racconto solo adesso, dopo quaranta anni e lo racconto per la prima volta, lo giuro! Nella stanza vuota e illuminata il pesante letto di ferro si alzava di un palmo dal pavimento per poi ricadere con velocità e frequenza meccanica, lo sgabuzzino era aperto, così la valigia, i giocattoli erano sparsi nella camera ed il trenino era sulle rotaie con la locomotiva ed i vagoni attaccati. Mi aggrappai allo stipite della porta e rimasi senza fiato mentre il letto si bloccava all’istante.
Decisi di uscire di corsa ma poi, ripreso coraggio, e accesa la famosa sigaretta, riposi i giocattoli nella valigia, chiusi a chiave lo stanzino, rifeci la solita trafila delle chiavi e dei cassetti, spensi le luci e mi diressi verso l’uscita con la testa vuota e le gambe vacillanti. Tutta la casa girava intorno alla mia testa, mentre agganciavo l’ultima chiave dell’ultimo cassetto al chiodo dietro la porta d’ingresso, mi prese la voglia di buttarla nel Basento.
-I morti devono stare al loro posto!
Poi pensai che se il bambino aveva voglia di tornare a giocare nella sua casa era padrone di farlo, in fondo non disturbava nessuno, tranne me, povero scemo con la voglia di fumare. Appesi la chiave e serrai la porta alle mie spalle.
La strada mi accolse con la sua confusione, la sua musica ed i suoi balli. Il concerto mi fece dimenticare per alcuni minuti quello che era successo e a tutti i miei amici che mi chiedevano:
-Ma che faccia! ma che hai visto un morto?
Risposi di andare a quel paese, ma alla romana che è più efficace.
La notte fu lunga e al mattino presi le mie cose e lasciai la casa stordito.
Non mai raccontato a nessuno, fino ad ora, quello che vidi e sentii quella sera.
Caro Dario ci riporti agli anni ’70, in Basilicata, in occasione di una manifestazione caratterizzata dai movimenti culturali e musicali. In questa società che cambia per la presenza attiva delle donne e con nuove mode, pantaloni a zampa d’elefante e la minigonna, ci viene data la testimonianza d’un fatto eccezionale, rumori di giochi nella camera d’un ragazzo, morto da tempo. E’ il segreto che ci viene rivelato, al termine di un racconto che ci lascia l’attenta ricerca di chiavi per aprire cassetti e porte, degna del miglior investigatore.
Bravo Dario.
Emanuele
E’ un racconto surreale e suggestivo, ambientato in una terra, la Basilicata, che sembra chiudersi a riccio per anni davanti alle novità, per poi esplodere improvvisamente con i suoi talenti e la sua modernità culturale. Lo stile è scorrevole, piacevole, nel descrivere alcune scene puntuale e dettagliato. Complimenti! Bel racconto. Se volessi leggere il mio racconto per corti “Febbre d’estate” ed esprimere il tuo parere te ne sarei grato.
Bellissimo! anche se preferisco la narrazione di lungo respiro in questo racconto ci sono tutti gli elementi di un romanzo e un pizzico di malcelata nostalgia che arricchisce la trama. Bravo Dario!