Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti per Corti 2014 “Non come sembra” di Rodolfo Marchesi

Categoria: Premio Racconti per Corti 2014

“Buongiorno a tutti!” disse Stefano entrando dalla porta sul retro della cucina. Erano arrivati quasi tutti, lui era l’ultimo quella mattina.

“Ehy, ciao Ste!”

“Ciao Ste, com’è?”

“Ehi Stefano, tutto bene?”

“Eh, buongiorno un cazzo…” stonò Serena mentre litigava con il grembiule. In mezzo a quelle prime risposte il suo commento suonò ancora più pesante di quello che in realtà, forse, avrebbe voluto essere.

“Uhpperdio Sere…possibile che tu l’abbia preso molle anche stavolta?!” reagì Ste, mettendole una mano sulla spalla.

Una via di mezzo tra un gesto consolatorio e un’arrogante presa per il culo.

“Levami ‘sta mano sudicia che chissà cosa ci hai fatto…”

“Chettelodicoaffare…” rispose Ste, proseguendo il suo ingresso verso il corridoio che portava alle due stanze adibite a spogliatoio. Entrò in quella di destra, maschile, la cui porta produceva un cigolio simile a un criceto in agonia. Il suo armadietto era socchiuso, in modo che ogni mattina la falsa sorpresa di trovare la divisa del giorno si facesse attendere regalando in anticipo qualche piccolo dettaglio. Si spogliò e s’infilò gli indumenti con calma, in silenzio, mentre l’unico rumore che proveniva dalla cucina erano padelle e posate e risate e qualche bestemmia: Serena, di sicuro.

“Chissà che cos’ha di storto in questo periodo quella lì” disse tra sé e sé Ste, mentre si allacciava il papillon nero sopra la camicia. Si specchiò per qualche secondo, passandosi la mano destra sul mento. La barba di un paio di giorni suonava con un fruscio contro i polpastrelli e le dita.

“Bello da fare schifo” si confidò allo specchio, si voltò e uscì per rientrare in cucina con gli altri.

“Non dimenticatevi i fogli, prima di accogliere gli ospiti, mi raccomando” tuonò Ginger.

La signora Nina Berfoldi scese la scalinata centrale della casa con un’aria particolarmente svogliata quella sera. Un gran vestito bianco e dorato le cingeva le spalle stringendosi sulla vita per poi spiegazzarsi leggero fino a toccare il pavimento. Più che camminare sembrava planare sui gradini.

“Sta molto meglio a me quel vestito” disse Fede la Sommelier sottovoce all’orecchio di Fred, il maggiordomo.

“Ragazzi, avete visto quella lattina di Campbell’s di mio marito? Tra poco qua arrivano tutti e non ci siamo ancora parlati”.

Mentre una valanga di “No” pioveva come risposta, il capolavoro del tuttotondo comparì quasi avesse sentito il richiamo. Come un cane con gli ultrasuoni.

“Eccolo” disse Nina. “Finalmente. Dai che dobbiamo farci trovare pronti quando arrivano. Speriamo che siano meno noiosi del solito…”

 

Gli invitati iniziarono ad arrivare e a occupare i posti. I tavoli apparecchiati. Al fondo della sala stavano il barattolo di borlotti e sua moglie, alle loro spalle un grandissimo specchio con una pomposa cornice dorata; un attacco di dissenteria sulle montagne russe sarebbe stato più piacevole.

La cena stava iniziando, Fede e Serena versavano nei bicchieri davanti ad ogni piatto, la prima un buon Morellino, la seconda l’acqua naturale o gasata. Le persone si guardavano intorno e commentavano sommariamente quello che vedevano, le donne indicavano ai rispettivi compagni questo o quel particolare. Gli unici a non guardarsi intorno, come se conoscessero molto bene il luogo, erano una delle due coppie.

 

Dopo più di metà cena l’atmosfera si era sciolta e i tavoli erano piuttosto rumorosi, quando d’improvviso le luci si spensero. Qualche gridolino da soprano scappò dalle labbra delle donne, mentre un qualche simpaticone tirò fuori:

“Le bollette… ve l’ho detto che vi facevano il mazzo.”

In quei pochi secondi dominati dalla perdita di orientamento da parte di quasi tutti, si sentì un urlo…un grido disperato, agghiacciante. Il sangue di tutti si congelò nello stesso millisecondo. Come se la stanza fosse stata cristallizzata. Panico e paura aleggiarono come comparsi dal nulla, a braccetto l’uno dell’altro; come il sale e pepe che si rovesciava sui tavoli (a poterlo vedere in quell’oscurità) mentre i primi cuor di leone saltavano su dalle sedie. Passarono alcuni brevi secondi, infiniti. Alcuni non si mossero, paralizzati dalla paura, altri invece reagirono producendo più rumore possibile, muovendosi, sbraitando, quasi a voler cancellare quel silenzio. Il silenzio del dubbio.

Per evitare che qualcuno si facesse davvero male, come d’incanto le luci si riaccesero e i commensali ritrovarono i dettagli visivi che ricordavano. Facce bianche. Mimi involontari, statue di gesso forzate. La donna della coppia più “normale” accasciata a fianco della sedia, immobile.

Appena le lampadine tornarono a fare il loro mestiere Ginger irruppe per la prima volta in sala annunciando sorridente che la vera missione di quella cena stava per iniziare: scovare l’assassinio della povera e bellissima Rachele.

 

Un gioco. Niente meno che un gioco, in cui tutti si trovavano ormai calati senza ritorno.

 

“Bastard…” si fece scappare qualcuno, nascondendo le labbra nel fazzoletto.

Risate sommesse, qualche ghigno nervoso per chi c’era cascato, qualche ovvia presa in giro. A ogni tavolo c’erano uno o due invitati che, avendo organizzato la serata, conoscevano l’organizzazione della messa in scena, per cui giustamente venivano coperti da pungenti insulti da parte di chi c’era invece cascato.

Il gioco iniziò tra le risate di tutti.

Da dietro la porta che separava il salone dalle cucine, nel frattempo, Serena la cameriera e Aldo il cuoco origliavano.

Stefano si appoggiò piano alla spalla di Aldo e sussurrò per non farsi sentire:

“…Che urlata che gli ha piantato stavolta Rachele, fossi stato in sala avrei di sicuro pugnalato con la forchetta il mio vicino, dallo spavento…stiamoci attenti va!”

“Ahah” rispose Aldo, “In effetti, hai ragione…” voltandosi piano verso la voce che aveva sentito all’orecchio. “Hai ragione…Ste…”. Sbarrò gli occhi. “Steee?!!? Ma checcosa ci fai tu qua? Non dovresti esser su nell’armadio della camera della coppietta?! E’ una delle prime tappe della caccia all’assassino che i clienti devono fare, per Dio!”

“Ehh..?? Ma va…io, io…Oddio, dovrei esser su?” sbarrò gli occhi afferrando il braccio di Aldo, “Dovrei esser su!??!! Uopporc… Fammi vedere la storia di oggi”. Tirò fuori il copione del giorno. Aldo intervenne: “Dai cazzo Ste, abbiamo tre versioni in tutto e quella in cui l’assassino è il maggiordomo, tu sei il morto nell’armadio! Dai! Faccela una volta! Manco ti chiedessero di fare le flessioni sul belino! ”

“Meeerda…ed io…io…”si cercò con il dito sul foglio. “Io dovrei esser su!! E sono qua! Quindi non sono su! E quindi c’è qualcosa che non va! Ahhhrg…” scappò a gambe levate verso la scala di legno che portava ai piani superiori. Salì saltando tre gradini alla volta, arrivò al primo piano, si spiaccicò al muro per evitare che qualche cliente, rapito dall’entusiasmo da Sherlock Holmes, fosse già arrivato al primo indizio: nella camera della defunta Rachele e del suo uomo, dove Ste avrebbe dovuto rinchiudersi nell’armadio e sbucare come seconda vittima del geloso assassino. Per fortuna non c’era ancora nessuno. Entrò di soppiatto nella stanza e si scagliò all’interno dell’armadio, dove c’erano trucchi per sbiancarsi il volto e disegnarsi le occhiaie. Ce la fece giusto in tempo: le ante dell’armadio reggevano uno specchio interno, per cui riuscì a trasformarsi in un morto piuttosto credibile.

Dei passi.

Trucchi a posto, torcia spenta, Ste trattenne il respiro anche se la corsa gli aveva tagliato il fiato manco avesse davvero fatto flessioni sulla pinga. Che poi in quel caso il fiato sarebbe stato comunque il problema minore.

Voci divertite si avvicinarono, le poteva distinguere. Dita sul legno della porta, rumore di un anello a un dito.

La porta di destra si socchiuse e contemporaneamente Ste si lasciò andare spalancando entrambe le ante, gorgogliando convulsamente come ultimo respiro, ribaltando gli occhi all’indietro per esser più credibile e rovinando sui piedi della anziana signora che si era prodigata nelle indagini.

Fulminea aspirazione a pieni polmoni.

Occhi sbarrati dalla paura.

Vene delle braccia gonfie come quelle di un culturista.

Mani agitate e piedi che indietreggiano, la signora inciampa nel tappeto, cade all’indietro sul bordo del letto che la respinge elasticamente rotolandola sul parquet.

Kaboom.

KO secco in due secondi e mezzo.

Il marito estremamente preoccupato riuscì solo a dire, a bassa voce e lentamente: “Eh ma stai attenta…” allontanando entrambe le braccia dal tronco in senso di disappunto. Ste socchiuse invece un occhio e capì che qualcosa di peggio poteva esser accaduto, si alzò di scatto e andò a soccorrere la signora che nel frattempo non riusciva a respirare e agitava mani e piedi.

“Signora, signora stia calma…vede sono vivo? Son vivo…sto bene!! Respiri, si calmi. Era tutto finto…Ma pensa che giornata…” Ricordò solo in quel momento che era truccato ancora da moribondo e forse forse ciò non semplificava il relax della “teenager”. Cercò di struccarsi, ma peggiorò la situazione.

“Un’ambulanza, chiamate un’ ambulanza per Dio! Lei rimanga qua per favore – rivolto al marito cuor di leone – cerchi di farla respirare mentre vado ad avvertire sotto!”. Ste si gettò a valanga al piano di sotto, dove trovò gli altri e spiegò concitatamente la situazione. Chiamarono subito l’ambulanza, fermarono l’allegro gioco tra l’incomprensione degli altri, i quali piano piano poi compresero cosa fosse accaduto.
Attimi di panico e incredulità serpeggiarono in sala, per le scale.
Un’ atmosfera grottesca.
Alcuni avventori si fecero consegnare i cappotti e se ne andarono. In tutta fretta. Sdegnati o impauriti.
D’altra parte la serata non poteva certo esser recuperata. Altri rimasero interdetti, ancora alticci per il buon vino bevuto a tavola.
L’ambulanza arrivò a sirena sbraitante, caricarono la signora che nel frattempo non aveva riconquistato per nulla una bella cera, le misero la mascherina per l’ossigeno e la portarono via, a tutta velocità. Il marito utilmente al suo fianco.

 

Ste rimase a guardare, impassibile, in silenzio.

Quei momenti in cui avresti bisogno di una parola di conforto, di un motivo per non sentirti in parte così colpevole.

Serena comparve alle sue spalle, sospirò.

In silenzio.

 

Ste non si accorse che tra tutte le persone che avrebbe voluto in quel momento, Serena forse era la meno adatta.

Lei rimase in silenzio per qualche secondo, poi gli mise una mano sulla spalla e disse:

 

“Per lo meno questa volta il colpevole non è il solito maggiordomo, no?”

 

Quella giusta via di mezzo tra un gesto consolatorio e un’arrogante presa per il culo.

 

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