Premio Racconti nella Rete 2014 “Il Nino, la Pina e la Santa Maria” di Sara Maria Mastronicola
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014E’ la nostra prima notte insieme e ripete di continuo che dormo come un bambino di poche ore: crede che sia crollato come un sasso, invece resto collegato ad ascoltarla; è piena di dubbi gestionali, il suo fermento emotivo non si placa.
Nella sua testa aveva già ipotizzato urla, versi e rossori: aveva guardato in televisione programmi illuminanti per rendere ogni nostro secondo speciale e unico; aveva telefonato alle sue amiche per avere delle dritte su cosa mangiare e come vestirsi in vista del nostro primo incontro; aveva preparato bella musica.
Non è accaduto nulla di particolare. Regnano la calma, il silenzio e le sue belle speranze. Timori non ne ha.
La sto ingannando e non è nemmeno la prima volta: respiro con decisione per farle credere che sto dormendo beato. Dice che il percorso non programmato potrebbe avermi stancato più del dovuto. Io non mi sento stanco. Sussurra: “Mi sono rassegnata all’idea che dovrò starmene qui da sola pur avendoti accanto”.
Penso di essermi cacciato in un bel guaio e lei me ne fornisce conferma qualche secondo più tardi quando, al cellulare con Lui, tuona: “In ogni caso, giusto per fare chiarezza una volta per tutte e per amor di cronaca, siamo arrivati in questo rumoroso posto a piedi e attrezzati male… insomma… nel nostro stile: la borsa luccicante con stampata sopra la gigante bandiera svizzera, recuperata di fretta e mezza vuota, dava già un’ immagine pittoresca di noi. Bella figura, complimenti! Si…si, a dopo”.
Io confermo che ha ragione, siamo stati alquanto originali: le sue scarpe blu da giardino bucherellate, con annessa terra tra le fessure, ci rendevano subito simpatici. Uno dei nostri gatti, affascinato dall’insolito orario, dal percorso a piedi e dalla luna gialla limone, ci ha seguiti fino al primo semaforo come se già sapesse che non ci avrebbe rivisti per un po’.
Lei pensa sempre ai gatti: lo ha richiamato subito per sincerarsi che avessero mangiato; io mi sento sollevato perché i felini non racconteranno mai a nessuno i nostri discorsi assurdi di questi mesi.
Lei va capita. Qui, sveglia e lucida, non può far altro che ascoltare pezzi di vita degli altri attraverso muri e corridoi. Infatti brontola al telefono: “Ti stai perdendo un gran pezzo di umanità, qui i nostri simili sanno toccare i picchi di qualsiasi emozione. Siamo circondati da coppie che cercano o riconfermano se stesse, alcune sembrano compatte ed altre sull’orlo di una crisi di nervi. A qualcuno è anche scappata qualche parolaccia di troppo. Manca la carta igienica, il letto sembra ad acqua ma non lo è. Qualcuno ha fumato non molto lontano. É tutto bianco qui. Ti ho detto tante volte che il bianco mi destabilizza perché mi sembra un colore adatto agli ospedali e a Dio. Non mi si può dar torto se ci pensi bene. Prendi il verde ad esempio…. lo puoi abbinare subito alla natura e alla speranza, non ha grosse pretese e scivola su semplici associazioni di idee. Il bianco è impegnativo perché non ti lascia dubbi, almeno in teoria. Dai riattacco. Ciao”.
Fingo ancora di non sentirla, non sono nell’ottica giusta. Si è sfogata con Lui al telefono, menomale…
Mi ricorda scocciata che per pranzo avremo già ospiti.
I suoi lunghi capelli (lavati ieri mattina combinando un gran disastro per terra) assomigliano a quelli di un atleta che ha appena concluso un percorso ad ostacoli sotto la pioggia di inizio autunno.
Forse ha sentito i miei pensieri, mi accarezza e riparte: “Avevano detto di star leggeri, non credevo ci sarebbe stato un clima così tropicale. Ah…ora siamo qua e devo accettare che tu non possa più ascoltarmi in automatico…dovremo trovare un nuovo codice di comunicazione, a voce chiara ed emessa, in cui i destinatari siano ben distinguibili da altri”.
Questa è matta sul serio. Apro gli occhi e li richiudo subito.
É tornato Lui. Nemmeno il tempo di varcare la soglia della stanza che lei ingrana la terza con la voce: “Guarda…su questo quotidiano abbandonato si legge che oggi, 24 settembre, compie gli anni il regista Pedro Almodòvar. Mia mamma borbottava ieri che il 29, sempre di settembre, sono nati sia Bersani che Berlusconi. Diceva che avremmo preso due piccioni con una fava, diceva che sarebbe stata “par condicio” predeterminata; diceva che avremmo sempre avuto un bell’argomento per discorsi di circostanza, come matrimoni e compleanni…”.
“Sono distrutto, mi siedo un po’, tu parla se vuoi”, risponde Lui mentre sta tentando di fare il mio gioco, anche se in realtàè stato lui ad insegnarmelo.
Lei gli lancia contro una bottiglietta d’acqua vuota ma non ci sono già più segni di alcuna reazione. Dorme.
Come se niente fosse si gira verso di me, anzi verso le mie spalle, e riparte: “Vedi, in fondo c’è andata bene l’esser qui oggi invece che tra cinque giorni. Tu dormi e c’è un crocevia di pensieri disorganizzati che conducono alle tue mani, mani in movimento, mani sognanti confini delimitati e caldi. Guarda lì…guarda come dorme quell’altro, così poi sarà fresco come una rosa”.
Altra piccola pausa, e ancora: “Sai come sono fatta: provo a ragionare per far ordine e alla fine seguo l’istinto. I miei pensieri ballano come le spezie che le magre braccia di mia nonna buttavano nel lesso: il mio io-bambina le catalogava come magiche creatrici di bolle sulla superficie della pentola”.
Oh Cielo! È entrata nella fase nostalgica…
La illudo: mi muovo ma non mi sveglio. Vediamo dove vuole arrivare…
“Ah mia nonna Maria,” il tono di voce ora è più sommesso, “materna, al civico 13 primo piano in fondo a sinistra, lingua parlata il Veneto di provincia, che donnina…! Mi portava una banana per metà nera ogni sacrosanto pomeriggio all’uscita da scuola. Con lei non ho mai mangiato una caramella, mai una pizzetta. Non ho mai provato il senso proibito di una carta gettata per terra, mai il dolore di uno schiaffo. Ma ho provato il tenero brivido di rubare le rose che sbucavano dalle cancellate degli altri e poi subito andare a funghi dietro l’ospedale. L’ho fatta impazzire ma l’ho amata come si amano le cose belle. In realtà le ho adorate entrambe le mie nonne, insieme erano ingestibili, imprevedibili e divertenti: al ritrovo di una delle gite per anziani, situazioni in cui proponevano poi l’acquisto delle batterie di pentole, sbagliarono il pulmino e finirono al casinò di Lugano invece che a Loreto. Dovevano accendere dei ceri per i morti, il programma iniziale era questo”.
La sento ridacchiare ma non capisco ancora dove voglia arrivare: “Invece accesero i tavoli da gioco con le loro vestaglie a fiori e i bottoni bianchi trasparenti, con sotto le rigorose sottovesti con bordino in pizzo, un centimetro a vista sempre garantito! Pensa, la borsa che ci siamo portati da casa, quella vicino a te, preparata in cinque minuti d’orologio, l’aveva comprata la nonna Pina (paterna, civico 17 terzo piano a sinistra, lingua parlata il Tranese da ortofrutta, alto peso specifico direttamente proporzionale all’arroganza). Voleva ingannarci e mentire, convinta che ci saremmo bevuti la storia che la croce rossa su sfondo bianco fosse un simbolo religioso. Ricordo ancora l’ansia che tagliava l’aria quando non erano scese dal bus dei devoti che rientravano a Milano. Mio padre era incavolato nero perché il giorno seguente era lunedì e si alzava alle 5:30, minacciava di prenderle entrambe a calci nel sedere; mia madre si perdeva in telefonate ma nessuno sapeva niente: di certo 2 posti a sedere per Loreto erano rimasti vuoti. Le ricordo ancora scendere giulive gli scalini con a destra la scritta rossa Lugano- Casinò. Ricordo la nonna Pina sussurrarmi all’orecchio che la nonna Maria si era fatta la pipì addosso dal ridere ma aveva le mutande di ricambio: mi raccontò che aveva perso la dentiera dentro il risotto. Un giorno vorrei raccontarti tutte queste cose sotto i portici dei caseggiati popolari dove le mie nonne, migranti italiane in Italia, hanno passato cinquantanni delle loro vite; vorrei farti affacciare dai loro balconi per darti un’idea di ciò che vedevano mentre le pentole infuriavano sui fornelli”.
Ho una strana sensazione, credo sia giunto il momento di girarmi e fingere di svegliarmi. Non ne ho il tempo necessario perché Lei prosegue: “Tuo papà, caro mio, sembra scappato da un incendio, ha persino la cerniera dei pantaloni rotta, non ha ancora messo a fuoco cosa sarà domani e cosa saranno tutti i domani. È un uomo confusionario, vivremo giorno dopo giorno senza porci troppe domande. Guarda come dorme ricurvo su quella sedia, guarda che spettacolo indegno a poche ore dalla tua nascita!”.
Ora inizio a far sul serio. Tra un minuto inizio a piangere e a fare il neonato; loro sono più pratici che teorici, è preferibile non lasciargli troppo tempo per pensare.
Chiudo le comunicazioni confermando che l’uomo sulla sedia è mio padre e ha tagliato il filo del mio viaggio appena qualche ore fa! Confermo anche che la donna che non sta mai zitta è mia madre! Io sono Nino e tutto il resto è in costruzione.
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Bel racconto, Sara. Devo ammettere che, dopo essermi perso a metà percorso, le ultime sei righe ,mi hanno condotto a destinazione. La seconda lettura mi ha divertito facendomi spaziare sugli ultimi cinquantanni di vita dell’Italia, vizi e virtù (emigrazione, case popolari e passione del gioco). E’ registrata l’immagine del marito e del papà per l’inizio di questo millennio che corrisponde ma che noi maschi dovremmo modificare, moglie permettendo. La precocità di Nino è la precocità dell’ultima generazione, dovuta forse all’ereditarietà o anche per la capacità della vita in grembo di partecipare ai suoni, ai dialoghi e alle emozioni, ammettendo che ci sia in atto una fase di apprendimento.
Questa considerazione ci da una chiave di lettura e ci consente di dire come i nostri figli siano “già esperti sin da subito”; parlando poi dei miei figli, 13 e 17 anni, dico che sono già da iscrivere al Club degli “Incasinati” quello con il motto: “Non mi devi dire cosa devo fare”.
Ciao Emanuele
E’ bello il tono della voce narrante: sembra costantemente un po’ più alto di una voce normale.
Un racconto veramente originale, mi è piaciuta molto questa narrazione asciutta e distaccata, priva di retorica e facili luoghi comuni.
Il tema trattato esponeva il fianco alla facile commozione ma tu hai saputo raccontarlo in un modo intelligente e molto personale.
Racconto con un senso di onirico che lascia un po’ spiazzati. Mi ha ricordato “Lessico Famigliare” della Ginzburg.
Vi ringrazio per i commenti. Grazie davvero.
I ricordi che si rincorrono e ingarbugliano come foglie al vento; il rapporto familiare, uomo, donna, bambino, tratteggiato in modo ironico ma tagliente; bello, mi è piaciuto!
Effettivamente è un po’ strano, perché si capisce solo alla fine dove vuole andare a parare: è voluto, immagino, ma non sarebbe stato fuori luogo qualche indizio in più. Detto questo, il racconto è carino, è scorrevole e si fa anche rileggere volentieri; fa sorridere e fa pensare – combinazione sempre fortunata.
Sei stata bravissima a tenere l’equivoco fino alla fine. Così si è costretti a rileggere il racconto che acquista tutta un’altra luce. Brava, brava, brava davvero!!!
Angela Lonardo
Grazie per i commenti.
Angela, leggerò con piacere il tuo racconto…ce ne sono talmente tanti che ci si perde via!
Raffaele, ho tentato di essere onesta con i lettori fin dalle prime due righe. Poi ho praticato la strada dei diversivi, cavalcando le ondate illogiche dei ricordi e emozioni che caratterizzano gli eventi che cambiano le vite! Felice di averti divertito. Ho studiato archeologia, il tuo racconto mi resterà caro.
Molto originale, ben scritto e fluido.
La sorpesa arriva alla fine, inaspettata.
Complimenti
marco
Ringrazio Marco per il commento e auguro a tutte e tutti voi di non perdere mai l’amore per la scrittura. Un grande in bocca al lupo…con il tenero significato proprio di questo antico detto popolare! Sara
Complimenti a tutte e tutti i “25”.
Sono felice soprattutto per Mara Ribera, che scopro essere di Milano come me.
Un abbraccio, Sara.
Sara Maria, grazie con tutto il cuore per le tue bellissime parole.
È stato davvero bello conoscerti, mi sarebbe piaciuto incontrarti a Lucca, spero di rileggerti ancora qui il prossimo anno. Un abbraccio.