Premio Racconti nella Rete 2014 “La luce in fondo al pozzo” di Giacomo Colossi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Scavare nel cemento armato era diventata la sua vita, il suo passatempo degli ultimi sette lunghi anni, la sua prigione oscura e polverosa, il suo loculo gelido e alienante, l’unica ragione per andare avanti ancora, ancora, nonostante tutto.
Con le mani callose e ruvide, solcate da rughe nere grandi come canyon, perfettamente saldate al martello pneumatico, aveva perforato due chilometri di nulla, duemila metri di bestemmie e rabbia, sangue e sudore, aggressività e speranza.
Perché lo avesse fatto se l’era chiesto ogni santo giorno passato in quella tuta in cui aveva perso venti chili, con la testa infilata in un casco, col respiratore che sbuffava, la finissima polvere che riduceva le luci sulle sue spalle, il rumore mostruoso nelle orecchie dai timpani ormai distrutti.
Se l’era chiesto un milione di volte ma ancora non conosceva la risposta. La domanda che lo aveva invece spinto era semplice: perché non farlo?
Secondo i suoi calcoli quello doveva essere il giorno esatto. Era frenetico nell’uso del martello pneumatico. Conficcava la punta e premeva il tasto motore, poi piegava la punta e staccava un pezzo di cemento duro come l’acciaio, poi tranciava il ferro dell’armatura, vecchia di cent’anni, riempiva il secchio e quelli che stavano sopra tiravano su il materiale. Aveva fatto così per sette lunghissimi anni, ma quello doveva essere l’ultimo giorno. Lo sentiva. Lo aveva calcolato.
Doveva scavare ancora solo qualche metro, … solo pochi metri.
– Ehi … – gridò Klaus nel microfono della radio. – Sbrigatevi a far scendere il secchio!
Seduto su un masso mangiava la solita razione di proteine sintetiche e carboidrati rigenerati e pensava con orrore che forse aveva sbagliato qualcosa. Si logorava al solo pensiero dell’errore, sentiva ribollire il cervello, non si dava pace.
Non poteva aver buttato via sette anni della sua vita. Non così.
Le mappe dell’ultimo computer funzionante della bidonville, ormai spento da cinque anni, avevano detto che là sotto c’era qualcosa, e quindi perché non cercare, perché non mollare la superficie tutta uguale di quel mondo morto per scavare dentro le sue viscere, sotto terra, sotto chilometri di colate di cemento che coprivano tutto.
E lui lo aveva fatto per Dio, aveva scavato e ora non doveva arrendersi ai dubbi, dopo sette anni di follia, dopo che aveva convinto il suo equipaggio a seguirlo nell’impresa.
Conficcò la punta in una crepa del suolo grigio, accese il motore a scoppio del martello e poco dopo tutto cadde giù, sul fondo, con un tonfo secco.
Lui rimase aggrappato alla corda del secchio e gridò nella radio, a chi stava due chilometri sopra la sua testa, di non lasciarlo cadere. Ma tutto avvenne troppo velocemente e Klaus precipitò giù con il secchio dei detriti e il martello pneumatico.
Sei metri. Un volo di sei metri per ritrovarsi seduto su un mucchio di rocce infrante, circondato solo dalla polvere e dalla tenebra scura illuminata dai fasci di luce emanati dalle torce elettriche sistemate sulle spalle della sua tuta. Nessun dolore. Era vivo.
Si mise in piedi e scrutò nell’oscurità. La radio non funzionava. Il silenzio era totale. Solo i suoi passi risuonavano lì sotto, il suo cuore e il suo respiro.
Si accorse di essere felice, come non lo era mai stato.
Camminò per circa mezz’ora all’interno di quel corridoio buio e largo, e alla fine si accorse che era arrivato dove pensava di arrivare già sette anni prima.
Non pensò alle radiazioni, pensò solo che dopo centosette anni era il primo essere umano che entrava in quell’edifico.
Si avvicinò ad una parete ed osservò con stupore da bambino quell’incantevole spettacolo d’altri tempi. Allungò un braccio e ne prese uno. Si sedette.
I fasci di luce lo illuminarono e lui lo aprì, lentamente, con timore reverenziale.
Solo e pensoso … i più deserti campi … vo misurando a passi tardi e lenti…
Cominciò a leggere. Era il primo libro che toccava, da quando erano ritornati sulla Terra.