Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “Telelavoro” di Annachiara Capuzzo

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

Epoca parentale: Mamma e Lavoratrice Improduttiva

Epoca filiale: Adolescenza Non Collaborativa

Se qualcuno pensasse che il telelavoro aiuti a conciliare impegni lavorativi e familiari, be’, o è un pazzo conclamato o parla senza cognizione di causa. Purtroppo in questa trappola cadono soprattutto donne-mamme, a mio avviso per meglio caricarle di tutti i possibili e immaginabili ruoli sociali/familiari/lavorativi, per di più convincendole di essere delle privilegiate! Care colleghe mamme, dedichiamo pure il massimo di noi stesse in modo esclusivo ai figli dalla nascita ai due anni, ma poi troviamoci un sano modo per evadere dalla famiglia almeno sei ore al giorno, esattamente come fanno i nostri cari compagni, nonché padri dei nostri figli, i quali effettivamente non soffrono mai di stress da cure parentali.

Questo assunto io l’ho capito a mie spese, quando mi è venuta l’idea balzana di lavorare a casa per un periodo, per meglio seguire i figli, così me la raccontavo. Per fortuna quel periodo è stato a termine.

Giugno. Mi chiama il direttore della sede centrale di Monaco.

«Signora, mi è giunta sul tavolo la proposta di trasferimento della filiale commerciale di Padova. Mi mandi una relazione dettagliata e il nuovo piano aziendale con l’analisi dell’aspetto logistico ed economico. E alleghi anche il parere dei capi settore dell’attuale sede. Se lo invia entro una settimana, lo esamineremo nella prossima riunione di staff. E sarebbe meglio che lei fosse qui per esporlo, magari con una breve presentazione a video. La riunione dovrebbe essere il 22 giugno, prenoti pure un volo con arrivo il 21. Buon lavoro, intanto.»

«Mamma! Son non mi lascia in pace, digli di smettere sennò lo ammaazzoo!»

È la voce di Daughter che mi riporta alla realtà domestica. Vedo Son correre in modo travolgente verso lo studio, inciampando sul filo del ventilatore, che cade e si mette a sussultare nei suoi inutili tentativi di girare a destra e sinistra. Al seguito, l’uragano-Daughter armata di stivale di gomma verde oliva, pronta a vergare la schiena di suo fratello.

«Non è colpa mia! È lei che è pazza furiosa. Io stavo solo annaffiando l’orto, mi ha incaricato papà di farlo!»

«Sì, ma non ti ha detto di lavarmi, tu lo fai apposta, sei uno stronzo atomico!»

«Ma sposta la sdraio allora, come faccio a dare acqua a getto con te che sei in mezzo?»

«Tu hai aperto di più l’acqua apposta per bagnarmi. Guarda cos’hai fatto al libro, che è quello con gli esercizi poi, che lo devo mostrare a quella di russo! Me l’hai rovinato!»

«La smettete?! Ero al telefono con un dirigente, mi stava dando degli incarichi importanti e voi… Che figure! Sentite, io devo lavorare, non rompetemi, non disturbatemi e non parlatemi, chiaro?!»

Inizio a mostrare inequivocabili segni di frustrazione. Penso alle cose da organizzare per il mio lavoro, quando Son, spenta l’acqua e abbandonata la canna in mezzo al giardino, sentenzia un «Arrangiatevi allora, se le piantine muoiono, è colpa vostra! Ditelo voi a papà.»

Decido che non è un problema mio.

Butto giù la lista delle cose da fare, ma dopo dieci minuti vengo interrotta da una vigorosa scampanellata. Sono, L. e J., le figlie della mia vicina, accompagnate dalla loro mamma.

«Possiamo stare qua un pochino a giocare con Daughter e il cane?» La voce è quella di J., la più grandicella.

«Posso lasciarle per un’oretta, finché sbrigo una commissione?» completa la loro mamma.

«Certo, si occuperà Daughter di loro. Io, invece, devo lavorare…» Sottolineo il fatto, tanto per chiarezza. Faccio quindi entrare le bambine, che si dirigono subito in camera di Daughter.

Penso di telefonare alla filiale di Padova per comunicare le decisioni della sede centrale, ma prima devo essere sicura di non venire interrotta di nuovo dalle urla, quindi controllo dove siano Son e Daughter. Il primo, inveendo contro la sorella, si sta preparando a una seduta fiume di Assassin’s Creed dal mio computer. La seconda, inveendo contro il fratello, sta tamponando le pagine del libro con salviette di carta. Le bambine la guardano attente, soprattutto assorbono e interiorizzano tutte le nuove parolacce che sentono pronunciare in modo così convinto e poi, finita la sessione linguistica, seguono il cane in giardino. Tutto tranquillo. Compongo il numero e mi faccio passare il responsabile di filiale. Spiego della relazione da preparare, del sopralluogo da effettuare, nonché dell’incarico da assegnare al nostro esperto di piani aziendali che attualmente si trova a Milano, ma preciso che posso provvedere io stessa a chiamarlo così posso spiegargli dell’urgenza di avere la sua relazione nel giro di massimo quattro giorni. Mentre parlo con tono professionale, entra la piccola L. che tirandomi la maglietta dice di avere sete e se le verso un po’ di limonata. Le faccio cenno che dopo e intanto cerco di mantenere un tono convinto al telefono, ma anche J. entra di corsa e urla con tutta l’apprensione di cui è capace una bambina di sei anni che Dog ha preso una lucertola grandissima e la sta facendo a pezzi e che devo intervenire subito perché non è giusto, povera lucertola, essere dilaniata per gioco. Anche a lei faccio cenno che dopo e anche un chiedilo a Daughter, ma lei insiste con me, perché dice che io sono più autorevole di Daughter nei confronti di Dog, perché, dice, sono l’elemento A, al massimo B nella gerarchia di branco, mentre Daughter è almeno elemento C. Comincio a faticare a seguire la telefonata e, spazientita, istintivamente mi rifugio nello sgabuzzino. Tengo tirata la maniglia dall’interno per evitare che qualcuno entri e, contemplando la montagna di biancheria da stirare e la borsa del calcio di Son da cui esce un fetore di scarpe e sudore, evidentemente non svuotata dall’ultimo allenamento, senza farmi prendere da eccessivo scoramento, continuo a organizzare il sopralluogo alla potenziale nuova filiale della ditta per cui lavoro.

Esco dalla prigione-sgabuzzino, mi infilo il telefono in tasca e torno in cucina per riempire un bicchiere di limonata fresca, quindi vado a vedere piccoli pezzi di lucertola che si dimenano intorno a un minuscolo mucchietto di budella, mentre Dog sembra mostrarmi fiero il suo trofeo, il tutto subendo io gli sguardi severi di J. che evidentemente mi ritiene complice, sia pur passiva, dell’efferato assassinio.

Al secondo posto della lista ho scritto controllare e prenotare volo quindi chiedo a Son di cedermi la postazione computer e vengo sbranata da un «Ma se ho appena iniziato!» con lancio a jumping del mouse, per sottolineare il suo disappunto.

«Non ho detto che devi smettere di giocare, devi spostarti e usare il computer di papà.»

«Ma quello ha la password, non lo posso aprire.»

«Telefona a papà e convincilo che giocherai un tempo limitato, come dovresti in effetti fare, e fatti dire per l’ennesima volta la password.»

«Chiamalo tu allora, perché è a te che serve il computer, sennò io sto qua!»

Sono questi i momenti in cui lancio fulmini dagli occhi e sprizzo fumo dalle orecchie, con grande e inutile dispendio di energia, nonostante gli amorevoli suggerimenti della mia insegnante di yoga, otto respirazioni diaframmatiche e tutto il resto, ma tant’è…

«Cosa? Stiamo scherzando? Io dovrei fare cosa? Io devo lavorare! Sloggia subito dal mio computer e arrangiati, se proprio vuoi giocare. Via da qua!»

Tralascio gli improperi che subisco mentre Son si sposta e va a prendere il portatile. Di striscio penso a quello che mi dirà stasera Husband per avere io incoraggiato Son a estorcergli la nuova password… che però una punizione dev’essere una punizione… che non sono abbastanza autorevole, tanto per stare sui pensieri palesabili, mentre quelli inconfessabili saranno sul tipo che, essendo io a casa, dovrei riuscire a badare in qualche modo ai figli, o no? Decido che non è un problema da pormi ora.

Avvio il motore di ricerca e digito voli economici, quando suonano ancora alla porta: è F., un’altra amichetta di sei anni, che vedendo le due bambine godersi mezza giornata in compagnia del mio cane, ha voluto aggregarsi. La faccio entrare, tra una pagina e l’altra di Ryan Air, e subito F. e J., che hanno la stessa età, iniziano a giocare tra di loro sull’amaca, escludendo la piccola L. che quindi entra in casa e, non trovando di meglio da fare, mi si affianca al computer e inizia la raffica di domande tipiche dei bambini svegli di tre anni.

«Cosa fai?»

«Dov’è Monaco?»

«Ma è lontano?»

«Ma, non può venire qui Monaco?»

«Pecché non vai in macchina?»

«E quando vai via?»

«E cosa fai al Monaco?»

«Ma, vai via da sola o con Osban?»

«Pecché non viene Osban?»

«E Dottha può venire a casa mia quando tu sei via?»

«Ma, hai portato Dog in aereo quarche votta?»

«Ma lui ha paura dell’aereo?»

… seguita da una raffica di affermazioni…

«Io non sono mai andata al Monaco.»

«Io vado sempre via con la mamma. E anche con il papà.»

«Anch’io da ggrande voglio andare al Monaco.»

… seguita da una raffica di proposte…

«Se vuoi, puoi portare Dog al Monaco. Gli piace, sai!»

«Vuoi che vengo io al Monaco, mia mamma mi lascia. Vuoi che glielo chiediamo?»

«Se vuoi da ggrande porto io Dog in aereo.»

Rispondo a tutte le sue domande, ma mantengo anche la concentrazione sufficiente a finire il mio compito. Sono riuscita a trovare il volo giusto, partenza il 21 giugno alle 11.25, e ritorno il 22 sera, buon prezzo. Non mi resta che acquistarlo, mi alzo per prendere dalla borsa la mia carta di credito, ma L. si mette alla tastiera e clicca qualcosa. Oddio, no, ferma, che mi tocca rifare tutto il lavoro!

Ricontrollo la pagina e le varie opzioni per non acquistare inavvertitamente servizi inutili e costosi. Sono intenta a copiare i numeri della carta elettronica, quando L. capisce di non avere una buona interlocutrice, quindi mi chiede:

«Posso suonare il pianoforte?»

«Sì, certo, prima lavati le mani.»

Va in bagno e al ritorno, come al solito, mi preme i palmi delle manine sul naso per farmi sentire quanto sono profumate, quindi con gran trambusto alza il coperchio, sposta la panchetta e si siede sopra. Inizia a pestare, con sua grande soddisfazione, quindi decido che non posso fare la telefonata a Milano in questo momento, anche se mi romperebbe che fossero quelli di Padova a farla prima di me, sembra che io non sia sollecita, ma dovrei interrompere il gioco della bambina, e a quel punto avrei un altro problema, quindi decido di fare una pausa lavorativa per passare l’aspirapolvere in casa, in fondo oggi non l’ho ancora fatto e, se non ricordo male, neanche ieri.

È mentre lo sto infilando di gran lena sotto il mio letto che squilla il telefono che tenevo in tasca. Vedo il numero di Milano, è la telefonata che dovevo fare io, sono stata preceduta da persone che, evidentemente, non hanno i miei problemi organizzativi. Spengo di botto l’aspirapolvere e lo mollo a terra, mi alzo e mi do un contegno professionale, come se la persona dall’altro capo dell’etere mi potesse osservare. Mentre parlo, chiudo istintivamente la finestra e la porta della camera per isolarmi acusticamente il più possibile, anche se escludere il pianoforte è un’impresa, ma penso che in fondo non è poi così brutto, solo, il tizio si chiederà dove mi trovi per avere un simile sottofondo. Gli esercizi di autocoscienza che ho iniziato a fare mi mostrano a me stessa in tutta la mia ridicolaggine: sono reclusa in una camera da letto, indosso un prendisole da battaglia allacciato dietro al collo e talmente basso sulla schiena che lascia mezzo scoperto il reggiseno. Qualche macchia di sugo sul davanti completa il quadro. Dalla pinza agganciata di sghembo escono i ciuffi di capelli più corti della nuca, tanto per completare la sciatteria. Però sono con l’esperto di piani aziendali e concordo con lui la visita alla nuova filiale di vendita, l’indomani mattina.

Bene, in qualche modo anche il terzo step della lista è fatto. Se fossi in ufficio avrei sbrigato queste pratiche in massimo trenta minuti, invece ho impiegato più di due ore. Decido che finisco di passare l’aspirapolvere in casa perché mi convinco che dopo mi sentirò molto meglio, e in aggiunta penso che se dessi una passata al bagno, visto che da tre giorni nessuno scuote i tappetini o pulisce i sanitari, dopo potrò fare qualsiasi altra cosa con spirito più rilassato, anche il lavoro ne trarrà giovamento. Persino vedere i letti rifatti contribuirà a farmi dedicare al lavoro con maggior tranquillità ed efficienza, quindi già che ci sono li sistemo, il tutto mentre la mia coscienza critica mi dice almeno di smetterla con queste menate e mi spiattella senza tanti giri di parole che il telelavoro è una stronzata, almeno per le persone che cadono facilmente nella trappola dei lavori domestici.

Finito. Sto pensando a come impostare la presentazione, potrei mettermi al computer, ma mi rendo conto che è quasi mezzogiorno e i miei dovranno pure mangiare qualcosa. Le tre bambine sono tornate a casa, meglio così, oggi sono troppo occupata per metter su un pranzo decoroso per sei. Trenta minuti è il tempo che di solito mi concedo per pensare e preparare il tutto, quindi sono giusta. In fondo, rifletto, mentre cucino posso organizzare mentalmente l’audiovisivo, per cui non è tecnicamente tempo perso.

Come al solito apro simultaneamente il frigo e la dispensa e decido cosa preparare con quello che ho in casa. C’è del pesce di ieri in una vaschetta, all’olfatto non percepisco tracce di rancido, può andar bene. Poi vedo un cetriolo e due pomodori, ottimo come contorno. Devo solo pensare al primo, la solita pasta andrà benissimo. Ma come la condisco? In frigo non vedo niente di interessante. Perché Husband non prepara abbastanza porzioni di sugo pronto? lo rimprovero mentalmente, poi vedo che in fondo alla dispensa c’è un vasetto di conserva, anche se da chissà quanti mesi. Perfetto, dovrò solo fronteggiare le lamentele sul fatto che mangiamo sempre pasta e pomodoro, ma lo farò, punto. Finché metto l’acqua sul fuoco e apro il vasetto penso alla presentazione, a quante pagine, agli argomenti e a tutto il resto, e mi accorgo che il senso di frustrazione è salito a livelli medi. Non ho la sensazione di aver lavorato né molto né bene, e per di più percepisco di essere stata completamente assente per le persone di casa. La mia coscienza critica a questo punto infierisce, facendomi notare come potrei sentirmi se fossi completamente al lavoro oppure completamente in famiglia e visualizzandomi scene di Husband che se ne sta comodamente seduto alla scrivania concentrato su qualcosa di aziendalmente produttivo, anzi no, ora starà comodamente seduto in mensa concentrato a godersi la pausa pranzo.

Mentre sto per buttare la pasta vengo distratta da una telefonata dell’ufficio del personale, devo inviare il mio IBAN per il bonifico delle spese di viaggio, invio richiesto entro il pomeriggio. Lo aggiungo alla lista delle cose da fare, lo farò dopo aver lavato i piatti, quindi torno alla preparazione del pranzo.

«Manca il sale nella pasta, anche oggi! Ma come fai a non ricordartelo, non pensi a quello che fai quando cucini?»

Questa è  Daughter con il primo spietato affondo.

«Me ne sono dimenticata, tranquilla, non è una cosa grave. Metticelo sopra.»

«Mettercelo sopra non è la stessa cosa, fa schifo. E poi dici sempre così, ti giustifichi con scuse del cavolo e soprattutto pensi che questo basti a farti sentire a posto.»

Dovrei essere fiera del fatto che la mia quindicenne sappia esprimere ragionamenti sensati e maturi, ma oggi non sono in vena di apprezzarlo pienamente. Anche Son non manca di farmi notare la mia disconnessione dalla realtà concreta, per di più in modo brutale.

«È da quando sono nato che non mi piace il pesce, dovresti saperlo! E neanche le verdure! Io cosa mangio oggi?»

«Non hai mangiato la pasta?»

«Sì, ma ne hai fatta poca! Io ho ancora fame!»

«E mangiati anche la porzione del cane, a lui darò qualcos’altro.»

«Sì, ma anche tu, farmi qualcosa che io posso mangiare, no? No! Pesce e verdure, proprio le cose che non sopporto. Non sarà mica difficile ricordarselo, dico.»

«Ho capito. Comunque a tredici anni puoi anche iniziare a cucinare da solo, così nessuno deve sentirsi troppo in colpa quando non rammenta i tuoi gusti.»

Finalmente, alle due riprendo il lavoro e invio la mail con i dati bancari. Per farlo devo far sloggiare di nuovo Son dalla postazione. Stavolta è talmente spazientito con me e con il fatto che debba lavorare al computer che se ne esce direttamente di casa. Meglio, penso io, così posso davvero fare qualcosa di produttivo. Inizio a impostare la presentazione, prendo quella del trimestre scorso, usata per un altro scopo, e inizio le modifiche.

Vengo interrotta dopo venti minuti da Son che è già rientrato, con due amici. Si dirigono di soppiatto in camera e confabulano qualcosa. Mi si drizzano le antenne.

«Cosa state facendo?»

«Niente, adesso usciamo di nuovo.»

«E cosa state prendendo?»

«Niente, ti ho detto.»

Mi tocca alzarmi, interrompendo il lavoro di nuovo per controllare una situazione sospetta. Infatti, Son sta racimolando e facendo sparire in uno zaino tutto il materiale bellico di cui dispone, per andare da qualche parte a giocare alla guerra.

«Ancora con questo soft air! Vuoi capirlo che non si può farlo fuori dalle aree autorizzate?»

«Uffa, sei sempre la solita! Andiamo al boschetto dietro la villa abbandonata, lì non c’è nessuno che rompa, e quindi non rompere neanche tu!»

Mi rivolgo ai due amici: «Ma i vostri genitori sanno che fate questo gioco?»

«Ma certo» li anticipa Son «non sono mica come te, loro non fanno tante storie.»

«Non credo proprio!» ribatto io.

Invece i due con voce flebile ma perentoria mi dicono che le loro mamme li hanno autorizzati. Scoprirò dopo il meccanismo: inizia uno di loro a dire preventivamente che le mamme degli altri hanno dato il permesso, ma è una bugia e serve solo per indurre a sganciare un ok. Una volta ottenuta la prima vera autorizzazione da un qualsiasi genitore, diciamo dal primo che abbocca, gli altri adulti si sentono indotti ad autorizzare a loro volta… insomma così. Oggi, nello specifico, sono io la prima che abbocca.

Impiego altro tempo per contrattare vaghe rassicurazioni e alla fine se ne vanno. Mi costringo a pensare che non succederà nessun incidente e che non sarò perseguita penalmente per non aver impedito a mio figlio tredicenne di usare materiale pericoloso né per violazione di proprietà privata o per danni a terzi.

Riprendo dunque il lavoro. Dopo una mezz’oretta, quando sono riuscita a immergermi finalmente nell’universo di questioni logistiche e di marketing, percepisco Daughter fiondarsi in cucina, aprire il frigo per versarsi del succo e poi prendere dalla dispensa uno snack. È una scena ricorrente che dovrebbe farmi venire in mente qualcosa, ma il cervello non partecipa alla ricerca del riflesso condizionato.

«Oggi partiamo un po’ prima, l’allenatrice ci vuole in palestra per le cinque meno un quarto. E dobbiamo passare a prendere le altre, quindi dobbiamo fare il giro lungo.»

Caspita, oggi è martedì, giorno di allenamento, e tocca a me portarle. Ecco il riflesso che non trovavo tra le mie sinapsi.

«Puoi sentire la mamma di M. se può passare lei a prendervi? Oggi avrei del lavoro urgente… Io vi riporterei a casa stasera.»

«Oggi lei deve portare il cane dal veterinario, di sicuro non può.»

Poi, alzando il tono: «Ma non puoi mica dirlo all’ultimo momento che hai problemi, dovevi dirlo almeno ieri, ti pare?! Lei si è organizzata per tempo.»

«Va be’, se aveva programmato la visita del cane dal veterinario…»

Cerco di non lasciar trasparire il tono polemico anche se ormai incline alla rassegnazione.

«Almeno dimmi esattamente a che ora si parte.»

«Alle quattro e un quarto, tra venti minuti.»

Mi costringo a concentrarmi, almeno per il tempo che mi rimane prima di interrompere di nuovo questa sessione di lavoro, ma rimedio solo un innalzamento del senso di frustrazione. E la mia coscienza critica che se la ride sottolineando un Te lo dicevo.

Riprendo il lavoro alle cinque, di ritorno dalla palestra, e so che fino alle sette non dovrei avere altre distrazioni, sempre se non mi telefona la mia amica C., se non vado a comprare qualcosa per rifocillare la dispensa, se non passo in pulitura a ritirare la trapunta che è pronta da settimane, se non chiamo l’ufficio patenti per la pratica di mia figlia che l’ufficio al pomeriggio è aperto solo di martedì, se non passo in biblioteca a riconsegnare il DVD, se non chiamo la vicina per sapere com’è andato l’esame di sua figlia, anche solo per senso di cortesia, se non telefono all’idraulico perché venga a sistemare il condizionatore, se non prendo appuntamento per la revisione dell’auto che scade tra dieci giorni e non potrò più circolare…

Prima di alzarmi e pensare di nuovo alla cena, apro un documento di Word e inizio a scrivere una richiesta di lavoro, che non so se inoltrerò mai, e che mi esce più o meno così: “Donna quarantacinquenne, automunita, cerca lavoro full time, da svolgere preferibilmente in due turni giornalieri e con congrua pausa pranzo, a non meno di venti chilometri da casa. Rigorosamente escluso telelavoro”.

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3 commenti »

  1. Geniale tuttavia, se mi permetti, un quesito: ma è proprio sicura la tua protagonista che un impiego con i requisiti che ha precisato possa renderle la vita agevole con i …carichi di famiglia? Il mio è un impiego full time e per gestire la casa vado a letto a mezzanotte e rimetto i piedi in terra all’alba…sapessi che stanchezza!
    Non ho altro da aggiungere se non ….In bocca al lupo!

  2. La giornata è movimentata per una donna, moglie e mamma anche con il telelavoro; il tuo racconto la descrive egregiamente. Non credo di avere la ricetta o la soluzione, forse va meglio mia moglie che è dipendente per sei ore al giorno per sei giorni. Sei ore di lavoro che diventano nove ore fuori casa se conti il viaggio e la pausa pranzo. A parte tutto, tornando al “Telelavoro” , tu hai reso benissimo lo stato di frustrazione di una donna o di un uomo, dove però il lavoro in sé diventa un rifugio dai figli. Io e mia moglie sosteniamo che: “E’ meglio lavorare per 10 ore che stare a casa per gestire i figli”. Non giudicarci male non ci manca la responsabilità di padre e di madre, è il rapporto con i figli che va costruito ma quale collaborazione si può avere dai figli di 17 e 13 anni? Questo racconto dà la fotografia della famiglia di questi tempi.
    Ciao Annachiara.
    Emanuele.

  3. La donna moderna che lavora e interseca l’essere moglie e madre. Come è complicata la vita per chi ha sposato un fantasma e deve accollarsi tutto l’andamento familiare. Questo racconto mi ha ricordato la sitcom ” Una mamma imperfetta” di Cotroneo. È la foto di una “normale” vita quotidiana di una normale lavoratrice sposata con figli.
    Angela

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