Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “La città scomparsa” di Harielle Rosy De Luca

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

Eravamo nascosti all’angolo della strada, tesi e pronti a scattare. Attenti alla minima distrazione del fruttivendolo del quartiere dei ricchi, pronti a correre e senza farlo notare arraffare una mela, un’arancia e di nuovo correre, prima di arrivare a scuola, dove  nell’intervallo delle lezioni avremmo avuto qualcosa da barattare con  i nostri annoiati compagni  stufi di merende confezionate e di panini superimbottiti. Per me e mio fratello, quelli erano invece un cibo prelibato: al mattino, dopo averci servito la colazione, la mamma non sempre ci dava lo spuntino. Sempre però ci raccomandava di stare attenti mentre attraversavamo le strade, di mostrarci obbedienti e rispettosi verso gli insegnanti, di non litigare con i compagni e di farceli amici. Quest’ultima cosa ci riusciva più difficile, perché da un anno a questa parte, cioè da quando avevamo lasciato il nostro villaggio natale e ci eravamo trasferiti su un continente diverso, in una città sconosciuta, nessuno aveva mostrato desiderio di sedersi spontaneamente accanto a noi. Qualcuno arricciava il naso ed una volta io, da sempre più  sveglia di quello zuccone di mio fratello gemello, avevo percepito dalle frasi pronunciate sommessamente “Ma puzzano” disse storcendo il naso e roteando gli occhi Alice,  la bambina più bella della classe, bionda con iridi verdi, che mio fratello,  come del resto tutti gli altri compagni di scuola, mangiava con gli occhi.

L’ insegnante la guardò severamente ma non replicò quando Alice si accomodò al suo solito posto, lasciandoci confinati al primo banco laterale. Solo durante l’intervallo alcuni tra i ragazzi, incuriositi della nostra frutta, proponevano silenziosi scambi, soddisfacenti per entrambe le parti. Dopo la scuola tornavamo a casa, noi due soli, tra scherzi e battute nella nostra lingua, ridendo dell’altezzosità compassata dei nostri insegnanti  e prendendoci gioco degli indigeni dimoranti nel quartiere residenziale in cui era situata la nostra scuola. Il nostro rione, invece,  era abitato da tante persone del nostro stesso paese, e lì era facile e rilassante ritrovare la nostra lingua, il dialetto, persino gli alimenti cui eravamo abituati. Compravamo pane e verdure come ci avevano ordinato mamma e papà, poi restavamo soli in casa fino a sera, aspettando che tornassero i nostri genitori, guardando il tramonto sulla grande città tra i piloni d’acciaio di un ponte dalle finestre del nostro minuscolo appartamento.

Arrivava prima la mamma, che subito liberava i capelli e cominciava a cucinare cibi saporiti, che spandevano per l’appartamento un odore di aglio e spezie. Poi giungeva il papà, sempre stanco e corrucciato appena arrivava, poi rasserenato dalle canzoni che mamma cantava mentre friggeva e subito metteva in tavola. Spesso ci chiedevano di mostrare loro i nostri quaderni, di far vedere i voti. Io, che ero più svelta del mio gemello ad apprendere la nuova lingua, ascoltavo con falsa modestia le lodi con cui mio padre mi elogiava. “Voglio che tu sia brava, che vada all’università” ripeteva, ed io mi sentivo felice e sgomenta allo stesso tempo nel sentirmi investita da una tale responsabilità.

Di domenica seguivo mia madre in chiesa, ascoltavamo la funzione e dopo  ci recavamo in sacrestia, dove alcune donne ci regalavano dei pacchi per bisognosi. A casa li aprivamo con vergogna: contenevano generi alimentari, talaltra vestiti, in genere troppo grandi o troppo stretti per noi ragazzi, ma bisognava adattarseli addosso. Mio fratello e mio padre badavano alle galline, confinate in un piccolo spazio nel comune cortile, adibito anche a piccolo orto, dove, resistendo al gelo invernale, crescevano stentatamente alcuni vegetali.

Era proprio il clima freddo a cui non riuscivo ad abituarmi, più che la nuova città dalle dimensioni gigantesche, dall’odore perenne di gas di scarico e di benzina. Nei miei momenti di ozio fantasticavo di tornare dalla nonna materna, nella vecchia casa dalle porte sempre aperte, dove giocavamo a rincorrerci con i nostri cugini con i piedi nudi sulla sabbia. Con mio fratello, mentre andavamo o tornavamo da scuola, avevamo inventato uno strano divertimento, in cui vinceva chi si ricordava più cose del nostro paese natale.

A scuola ci impegnavamo al massimo, e dopo qualche mese di completa immersione in un idioma del tutto sconosciuto, un giorno scoprimmo che riuscivamo ad afferrare sempre più  quello che i professori dicevano. Eravamo meno bravi a parlare quella lingua nuova così complessa, anche perché, ogni volta che venivamo interrogati, sentivamo le risatine di scherno dei nostri compagni per il nostro strano accento. Fu proprio Alice, però un giorno, quando vide mio fratello in lacrime, ad andare incontro al gruppo di ragazzi più accaniti e a intimare al loro capo di smetterla. Tornata da mio fratello, gli offrì poi la sua merenda e lui le diede in cambio la piccola mela che mamma ci metteva in borsa ormai ogni giorno, da quando il fruttaiolo si era lamentato con lei delle nostre incursioni mattutine. Quanti scapaccioni avevamo preso per quella piccola marachella! Da quella mattina a scuola, Alice diventò nostra amica, ed per noi due da allora la vita fu più semplice, anche perché,  di ritorno dalle lezioni, fino al limitare del quartiere elegante in cui Alice abitava, camminavamo insieme chiacchierando e ridendo.

Ma un pomeriggio, mentre terminavamo i compiti, udii il pianto sommesso di mio fratello.

“Che hai?” gli chiesi bruscamente, sentendomi, come sempre, nonostante fossimo gemelli,  la sorella maggiore, sapendo di essere sicuramente la più alta dei due. Lui continuava a piangere, finché scuotendolo, mi rispose tra i singhiozzi. “ E’ scomparsa” ripeteva, scuotendo la testa. Lo strattonai incalzandolo  finchè non aggiunse: “Non ricordo più la nostra casa, la città, le strade. Sono scomparse dalla mia mente.”

Allora mi alzai e presi un quaderno dalla cartella, strappai un foglio dal centro e, munita di due matite, mi avvicinai a lui. “Che sciocco sei. Non è possibile che tu non la ricordi del tutto, magari l’hai solo un po’ dimenticata. Dai,  disegniamola”

Ed ecco, linea dopo linea, tornare a vivere la città scomparsa. Qui c’era la marina, lì il castello normanno, vicino al molo dei pescatori.  Più avanti, di fronte alla spiaggetta, la casa della nonna con l’aranceto. Sembrava quasi di vederla mentre la domenica impastava le orecchiette da preparare con le cime di rapa. Qui stava la bottega dello speziale, lì il forno, qui ancora la casa degli zii, più a destra la chiesa, dove andavamo a fare catechismo da piccoli, e dove siamo stati battezzati.  Piano piano Giovanni aveva smesso di piangere, e aggiungeva altri particolari alla nostra mappa. “Ecco, Maria, qui c’era la casa di Antonia, te la ricordi quanto era bella?” chiese .“Antonia somigliava un po’ ad Alice, vero? Non cambi mai gusti, vedo” risposi io, strizzandogli l’occhio, certa che sarebbe arrossito. Restammo a disegnare la nostra mappa finchè il sole non tramontò, tracciando mura dopo mura, stradine dopo vicoli, piazza dopo vie.

E poi ci alzammo, due  dodicenni italiani degli anni ‘50, e ci affacciammo alla finestra che da lontano mostrava il ponte, nella prima strada, nel quartiere che i nostri compaesani in dialetto chiamavano “Brucculìn”,  e che nella scuola americana avevamo imparato a scrivere correttamente Brooklyn. Eravamo emigrati da più di un anno ormai dalla nostra terra,  che ricordavamo calda e profumata di mare, ma la nostra città adesso non era più scomparsa, né così lontana.

Chiudemmo in fretta il quaderno mentre sentivamo la serratura scorrere e la voce allegra di mamma chiamarci, mentre si liberava della cuffietta da cameriera a servizio. Prima di accorrere e aiutarla,  però,  feci in tempo a disegnare in alto sulla mappa un enorme sole sorridente.

Loading

5 commenti »

  1. Mi è piaciuto. Semplice e puro. Molto bella l’idea di non rivelare le nazionalità sino all’ultimo, lasciandoci in balia dei nostri preconcetti.

  2. Ho capito dal ponte che poteva essere New York, bel racconto Harielle. In bocca al lupo.

  3. Solo alla fine ho capito che gli immigrati eravamo… noi! E poi così bello e poetico, nella semplicità dei due fratellini, il ricordo della terra natale.
    Complimenti davvero.

  4. Un racconto tenero, delicato in cui la nostalgia per la propria città, attraverso il disegno dei luoghi dovuti abbandonare per necessità diventa per i due ragazzini un gioco da cui emerge un passato da conservare per sempre. Bello ed emozionante.

  5. Storia di’immigrazione vissuta da dodicenni, il racconto esprime il senso di smarrimento che sopraggiunge in coloro che ricordano il loro paese d’origine. Chi si trasferisce, chi cambia paese deve anche lasciare i ricordi o li devono raffigurare, Non basta, solo il tempo aiuta in questa operazione di cambiamenti. Bel racconto.
    Emanuele.

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.