Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “I perdenti” di Andrea Scarso

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

Un segnale radio continuo, questo è lo scopo della nostra missione verso Milano. Da un giorno all’altro è apparso un segnale radio continuo e, da quanto dicono i nostri superiori, non accadeva una cosa del genere da almeno tre anni. Per chiunque viva in Italia, Milano è una città morta e qualsiasi cosa si muova lì dentro a fatica viene considerata viva o forse è meglio dire umana.
Se ne sentono di tutti i colori sulla Città Nera, è così che ora la chiamano. Sono racconti colmi di sangue, disperazione e orrore, quell’orrore che credi vivere solo nei romanzi di King, Lovecraft, Poe o di qualsiasi altro scrittore del genere. Invece è tutto vero, esiste ed è ovunque.
La Città Nera è uno dei posti peggiori, ma dopo la “Terza” tutto il mondo si è trasformato in un crogiolo di incubi e di atrocità.
Sorvoliamo quel poco che rimane del nord Italia con un vecchio elicottero militare. Benché possa sembrare un rudere è dotato di un sistema anti-radar e le pale sono silenziate. Dovremmo arrivare al punto prescelto senza essere visti da qualche pattuglia nazicomunista ma, se devo essere sincero, per me loro possono anche fottersi; la mia vera paura è incrociare gli esseri che vivono nel cielo. Di loro ho una paura fottuta.
Siamo una squadra di dieci persone, specialisti, così dicono ai piani alti. In realtà, siamo carne da cannone con delle divise più belle e le palle per accettare le missioni più di merda. Forse non abbiamo nemmeno le palle, probabilmente a tutti noi manca qualche rotella.
Ci chiamano “I Perdenti” perché per entrare nella nostra squadra devi aver perso tutto, anche te stesso.
<<Ma purtroppo, a un certo punto, ci si accorge d’essere più vicini alla fine che al principio e allora uno chiede a che cosa è servita la propria vita, quale traccia resterà sulla terra della propria esistenza e se ne resterà traccia, specie pensando a quello che hanno raggiunto gli altri. Certo non sono pensieri molto allegri, ma a volte mi vengono e non riesco più a scacciarli>> la voce di Bogart spezza il nostro silenzio dentro l’elicottero. Il suo sguardo è fisso sul finestrino, osserva le nubi nere e il pallido sole con gli occhi di un uomo senz’anima. Lo chiamiamo Bogart perché ama citare frasi di vecchi film e ora ci ha servito un piccolo estratto da Il ponte sul fiume Kwai. Per quanto sia un uomo assurdo, sceglie sempre citazioni perfette. Anche il suo abbigliamento rimanda a tempi passati: sopra la divisa indossa un un trench beige chiaro, che porta su di sé le macchie delle nostre vecchie battaglie, e in testa un Borsalino marrone. Il comandante gli lascia questa libertà perché sotto la sua follia si nasconde il nostro miglior tiratore. Bogart ci ha levato dalla merda in numerose occasioni e, cazzo, se vuole vestirsi così in un mondo che è andato completamente a puttane, perché impedirglielo?
Siamo fortunati ad avere un comandante con così gran senso della praticità. Quando ero al fronte, in Germania, ho visto ufficiali cagarsi sotto o dare ordini folli mandando a morire giovani allo sbaraglio. Mio fratello è morto così. Li hanno mandati in carica contro un muro di artiglieria e i proiettili li hanno fatti tutti a pezzi. Io non so ancora se definirmi fortunato o sfortunato per aver lasciato il fronte con le mie gambe.
Comunque, in pieno spirito italiano anche la “Terza” l’abbiamo persa.
Devo dire, però, che non siamo quelli messi peggio. Ad esempio, l’Inghilterra l’hanno cancellata dalle mappe geografiche, oltre che fisicamente dal nostro pianeta: tre atomiche e puff. Ciao Londra, ciao Regina, ciao thè delle cinque. Ogni volta che ci penso mi viene in mente quella canzone dei Beatles, che faceva all’incirca così “You say yes, I say no. You say stop and I say go. You say goodbye and I say hello. Hello. Hello...”.

<<Dieci minuti al punto prefissato. Uomini, preparatevi>> il nostro comandante Harlock ci richiama all’ordine. Lo chiamiamo così perché ha una benda, cicatrici sul volto e la stessa freddezza del capitano dello spazio. Adoro quel personaggio.

Controllo se il mio fucile è a posto e poso i miei occhi verso le zone devastate di quella che una volta chiamavamo Lombardia. Ora è una terra di nessuno. Chilometri e chilometri di devastazione, cenere, ossa e animali tramutati in bestie. Assurdo come la natura non si pieghi mai all’uomo. Abbiamo modificato l’ambiente sparando ogni genere di bomba. La natura si è arresa? No, si è adattata, restituendoci le degne creature per questo nuovo paesaggio.
Con la mano destra mi tocco il taschino per controllare se c’è il mio portafortuna: un sigaro cubano, per la precisione un Montecristo. L’ho trovato in una delle nostre missioni in giro per l’Europa. Stava lì, dentro la sua confezione, completamente intatta su un tavolo di legno lavorato. Ero in una casa di ricchi Austriaci, ricordo ancora le vetrate colorate sfondate e la poca luce che vi passava attraverso. Tutta la stanza era illuminata da tanti colori, sembrava di stare dentro ad un caleidoscopio. Il padre di famiglia aveva sparato con un fucile alla moglie e ai figli, mi ero stupito della freddezza con cui aveva compiuto il gesto. A tutti e tre aveva sparato in viso. Vi posso assicurare che non è uno spettacolo per stomaci deboli. Quell’uomo lo ha fatto per tre volte di seguito, prima di infilarsi la canna in bocca. Da un certo punto di vista, ha avuto più coraggio di tanti altri che ho incrociato. Sapeva che la sua famiglia abituata al lusso, alla bella vita e alla ricchezza, sarebbe durata poco in un mondo dove gli incubi si fanno reali ed era anche a conoscenza che non esistesse peso peggiore del ricordo dei propri famigliari morti per mano propria. Se non sei un folle, quel pensiero ti divora. Spararsi in bocca, saggia scelta.
Fumerò questo sigaro quando mi troverò davanti alla parole fine. Che sia la mia fine oppure di questo incubo, in quel momento vorrò il sapore intenso e il denso fumo di questo capolavoro della tabaccheria in bocca.
L’elicottero si ferma nel punto designato, mettendosi ad una quota che ci permetta di scendere con le funi. Uno ad uno scendiamo verso quel piccolo ritaglio d’inferno.
Quando sono a terra cerco il sole con gli occhi ma è sempre più inghiottito dalle nubi nere. E’ mattina, ma sembra quasi sera. Mi manca il cielo azzurro.
Tutto questo schifo è conseguenza dei bombardamenti, delle radiazioni e di tutta la merda chimica che ci siamo lanciati contro. Gli americani e i russi sono stati i maggiori responsabili. Il numero spropositato di bombe che si sono tirati addosso è incalcolabile. Ricordo che quando ero al fronte era un continuo concerto di esplosioni e talvolta, solo in lontananza per fortuna, vedevo salire verso il cielo un fungo atomico. Come è possibile che non mi sia venuto un cancro? O forse ce l’ho e i medici della base non me lo dicono. Finché cammino con le mie gambe, in fondo, servo a qualcosa.

<<Moravia, finiscila di guardare il cielo, non arriveranno. Non è l’ora in cui hanno fame. Prendi con te Nitro e fate un piccolo giro d’ispezione>>.
Nitro è l’unica donna del gruppo, chiamata così per la sua predisposizione all’uso degli esplosivi. L’abbiamo conosciuta sul confine francese, dopo che aveva vagato da sola per dei mesi dopo la sconfitta su quel fronte. Dietro di lei ha lasciato una scia di basi nemiche ridotte in cenere. Ancora non riesco a spiegarmi come sia riuscita a far tutto da sola.
E’ una donna di una bellezza particolare. Ha i capelli scuri, raccolti in una coda alta. Non porta quasi mai l’elmetto e anche in questa missione pare averlo lasciato alla base. Sul viso dalla carnagione olivastra ha una cicatrice a forma di piccola mezza luna appena sotto lo zigomo sinistro. Gli occhi, scuri e profondi più di qualsiasi abisso, ti guardano dandoti l’idea di esser capaci a scrutare ogni tuo intimo segreto. Avvolta in una sua personalissima divisa di pelle nera e circondata da cinte ricolme dei suoi amati esplosivi, è una moderna amazzone in un mondo selvaggio e folle.

<<Sembra tutto tranquillo>> mi rivolgo a lei mentre percorriamo il nostro giro di perlustrazione. Con grande difficoltà riesco a distogliere lo sguardo da cielo: la mia paura per le creature volanti porta i miei occhi ad occuparsi della loro ricerca. Ora comprendo come sia stato difficile per quei soldati non accettare l’invito ad evitare lo sguardo di Medusa. D’altronde, più ti dicono di non pensare all’elefante rosa e più lo visualizzi nella tua mente.

<<Per quanto non creda più alla parola “tranquillità”, Moravia, sembra proprio di sì>>. Nitro si ferma vicino a me, poi inizia a guardare verso il cielo e continua a parlare <<E’ successo prima che ti unissi alla squadra, vero?>>.
Annuisco. <<Ero con alcuni sopravvissuti del mio battaglione, stavamo cercando di rientrare in Italia per raggiungere una delle nostre basi. Ci hanno assaliti di notte, scendendo in silenzio dal cielo. Sono stato svegliato dalle urla dei miei compagni, alcuni portati via in volo e altri dilaniati dalle fauci di quegli esseri immondi. Ricordo ancora come il fuoco dei proiettili a fatica riusciva a scalfire la loro pelle coriacea. E ricordo il loro verso, stridulo e acuto, che penetrava le orecchie e infilzava il tuo cervello come un lungo ago. Di venti uomini che eravamo, siamo rimasti solo in tre. E’ stata la notte più lunga della mia vita>>.
<<Anche più di quella volta a Parigi?>> Nitro accompagna la domanda con una leggera risata.
<<Si, anche più di quella volta>>.
Parigi è stata teatro di numerose battaglie. I Francesi, in questa guerra, non vogliono lasciare la propria città con la stessa facilità con cui la prese Hitler. Hanno lottato prima della “Terza” e lo fanno ancora, rendendo la capitale francese uno degli avamposti maggiori della resistenza.
I Nazicomunisti ogni tanto provano a prendersela, ma si trovano davanti sempre quei “mangia ranocchie” pronti a prenderli a calci nel culo.
Ci siamo ritrovati anche noi ad aiutarli durante uno di quegli scontri. Sono state due settimane continue di guerriglia senza mai fermarsi. Queste sono situazioni in cui si perde il senso del tempo, dove il giorno e la notte si fondono in unico, lungo e tedioso periodo. In simili missioni, per tenerci operativi usiamo qualsiasi tipo di droga o sostanza a nostra disposizione. Il passaggio da caffeina a cocaina è sempre breve.

Quando finiamo il giro d’ispezione, la squadra ha terminato di preparasi per mettersi in marcia. Abbiamo circa un’ora di cammino da qui alla Città Nera e raggiungere il nostro obiettivo sarà tutto meno che una passeggiata.
<<Nessun movimento sospetto>> riferisco al capitano.
<<Ottimo Moravia, mettiamoci in marcia>>.
Mi chiamano Moravia per via della mia passione per la letteratura e la scrittura. Per la cronaca non sono mai riuscito a pubblicare niente, anzi ora mi limito a scrivere solo i rapporti di fine missione. I miei compagni lasciano questo onere a me, vista anche la loro scarsa predisposizione alla grammatica italiana. Sarebbe bello scrivere delle cronache sugli avvenimenti di questo strano periodo, ma non esiste più un giornale e nessuno ha più il tempo di stampare dei libri. Qui, ormai, tutto quello che si fa è sopravvivere. Non importa come. Oltre a scrivere parlo un po’ di francese e di tedesco. Non credo di far parte di questa squadra non tanto per le mie grandi doti militari, ma piuttosto per le mie conoscenze utili alle nostre missioni. Infatti, mi ritrovo più spesso ad analizzare mappe e documenti che a sparare con il mio fucile. Le mie conoscenze hanno aiutato quanto i proiettili sparati dal buon Bogart.

Muoversi in campo aperto è pericoloso, così raggiungiamo velocemente un’entrata al vecchio sistema fognario della città. Tiro fuori dal mio zaino la mappa cartacea che mi hanno fornito: è un po’ datata, ma la rete idrica non ha subito particolari variazioni. Forse possiamo trovare qualche zona non accessibile o crollata ma prima dobbiamo riuscire ad arrivare al punto prestabilito. Purtroppo non possiamo usare i computer, sia per il problema della rete Internet andata a puttane in tutta Europa sia per la rivolta delle macchine in America. Ogni tanto mi sembra di essere in un grande racconto di fantascienza e mi pare assurdo anche che ciò che Terminator ha predetto, si sia avvero seppur in maniera leggermente diversa. Dalle storie che arrivano dal Nuovo Continente, infatti, si dice che il super computer del Pentagono da un giorno all’altro abbia preso una coscienza di sé sempre maggiore, fino ad arrivare al punto di diventare un’entità indipendente. Il passaggio da “Io esisto” a “Io comando” è stato breve e gli Americani si sono ritrovati tanti missili con bandiera a stelle e strisce puntati su di loro. Non esistono i Terminator, ma un nuovo governo comandato da un’intelligenza artificiale che minaccia il proprio popolo con le sue stesse testate nucleari. Secondo alcuni, però, la storia della presa di coscienza è una gran montatura e il computer in realtà sarebbe comandato dai Nazicomunisti o dal Grande Impero del Sol Levante.
Il Grande Impero del Sol Levante o come lo chiamo io “Il Grande Impero di ‘sti cazzi” è il Giappone, che ha ripreso le sue mire di gloria ed espansione. I grandi studi sulla robotica, che hanno sempre portato avanti, non sono serviti a quello mostravano al mondo. Non si trattava di robot pronti ad aiutare i disabili e gli anziani oppure a essere utili nella vita di tutti i giorni. I musi gialli hanno creato un esercito cazzutissimo di robot degni di un episodio di Gundam. Durante la “Terza” hanno bloccato l’esercito dei Nazicomunisti nel Pacifico occidentale, prendendo per sé quei territori e formando il Grande Impero.
Ci muoviamo dentro a un articolato sistema di tunnel che un tempo formavano parte del sistema fognario della città. Sulle pareti di cemento vecchi murales, macchie non ben identificate, muffa e scritte più o meno recenti. La luce di Bogart per un attimo illumina una grande scritta rossa che occupa buona parte di un muro “Ora credo nell’orrore”. Ho un brivido.

<<Ho visto degli orrori, orrori che ha visto anche lei. Ma non avete il diritto di chiamarmi assassino. Avete il diritto di uccidermi, questo sì, ma non avete il diritto di giudicarmi. Non esistono parole per descrivere lo stretto necessario a coloro che non sanno cosa significhi l’orrore. L’orrore ha un volto e bisogna essere amici dell’orrore. L’orrore ed il terrore morale ci sono amici. In caso contrario allora diventano nemici da temere. Sono i veri nemici… >> le parole di Bogart che citano Kurtz in Apocalypse Now riecheggiano tra i cunicoli artificiali. Ogni volta che pronuncia la parola orrore avverto quel brivido. E’ una strana sensazione. Chi sono i fortunati? I sopravvissuti o i morti?

Avanziamo con l’acqua nera delle fogne fin sotto il ginocchio. Odori di ogni genere mi spaccano le narici, arrivando fin dentro allo stomaco. Dovrei vomitare, ma ormai l’abitudine mi ha reso incapace anche di provare una forte nausea. Mi sto abituando sempre di più all’orrore. Mangio, bevo, respiro orrore e forse quel brivido che avverto è il ribrezzo per quello che siamo diventati.
Il tempo, in quel posto immerso nell’oscurità trascorre lento, quasi immobile. Le luci delle torce proiettano le nostre ombre, dando vita ad uno strano gioco di ombre cinesi del tutto casuale. E’ la unica mia fonte di distrazione per tutta quella strana attraversata. Poi la voce del capitano mi dà la notizia che aspettavo dal primo momento in cui ho messo piede in quell’anfratto.

<<Dovrebbe essere questo il punto, giusto Moravia?>>
Controllo la mappa puntandoci la torcia sopra e poi annuisco <<E’ questo>>.
Tutta la squadra sale per una scaletta che ci riporta finalmente in superficie. Appena metto la testa fuori dal tombino riconosco immediatamente il posto: è piazza del Duomo. Tutto quello che c’era un tempo attorno, salvo pochi palazzi, è rovinato o crollato. Ci sono segni di esplosioni e di guerra ovunque. Palazzo Reale ha cessato di esistere, al suo posto solo un cumulo di macerie.
In mezzo a quella devastazione, si erge in perfetto stato il Duomo, che pare quasi farsi beffa di noi e di quello che è rimasto su questa Terra. La sua facciata è rimasta di un bianco immacolato, pur non avendo più a disposizione l’aiuto dei continui lavori di restauro. Alzo gli occhi e, percorrendo i pinnacoli, vedo Lei. Lei ancora domina Milano. La Madonnina d’oro è la vera dominatrice della Città Nera.

<<Guardate! Il portone del Duomo si sta aprendo!>> la voce di Nitro porta tutti i nostri sguardi verso il grande portone della chiesa.
Dall’antro oscuro della cattedrale vediamo uscire lentamente una figura umana. La poca luce del cielo illumina la sagoma mostrandoci i suoi abiti da vescovo e la sua carnagione di un colore molto vicino al verde scuro. Gli occhi sono sgranati verso di noi, il viso è deforme, ricoperto da bozzi e sfregi. Le labbra sono nere e intonano parole incomprensibili, mentre le campane iniziano a suonare.
Dal buio della cattedrale vediamo uscire altri esseri simili al vescovo. Sono tutti deformi. Lo sono tutti, ma ognuno in maniera diversa. Quella che un tempo era una donna, ora presenta delle corna sulla testa e squame su tutto il corpo. Un altro ha una seconda testa nel petto che apre e chiude la sua bocca nera. Da quell’oscurità continuano a uscire creature sempre più assurde e sono sempre di più. In pochi istanti hanno superato di quattro volte il nostro numero. Madre Natura ci mostra una nuova razza che si è evoluta o mutata dalla base che tutti noi conosciamo. Madre Natura ci ha appena donato quello che abbiamo aspettato da secoli: l’altro lato della medaglia, il lato oscuro della Luna, la nostra Nemesi, il nostro nemico naturale.
Quando il suono della campana cessa, la massa mutante corre contro di noi. Bogart grida la parola che passa a tutti per la testa. Ancora una volta, la più azzeccata: “Vaffanculo!”. Insieme al grido partono i primi spari con cui ne colpisce due in piena testa, che si accasciano in un piccolo lago di sangue nero e putrido.
<<Moravia, corri verso il punto da dove parte la comunicazione, proviamo a disperderli. Corri!>>
Il capitano mi invita a correre e io non ci penso due volte. Prendo la mappa mentre faccio lunghe falcate e mi lascio alle spalle tutta quella merda. Merda, a cui penseranno i miei compagni. Dietro di me sento un concerto di spari.
Corro e attorno a me passano insegne di bar, negozi e vecchie attività. Per un attimo mi perdo nel ricordo di un buon Martini, mentre leggo quel che rimane di una scritta sopra ad un vecchio grattacielo. Il mio cuore batte all’impazzata, intanto varco l’entrata di un palazzo e mi infilo su per le scale. Mi fermo al primo piano, cerco veloce in tutte le stanze prendendo il fucile tra le mani. Si vede poco, è quasi buio perché dalle finestre barricate passa poca luce che si proietta in fasci visibili tra la polvere. Entro in una stanza, ma ci trovo solo vecchi mobili d’ufficio e della cianfrusaglia inutile tra cui vecchi numeri di giornali. Su uno di questi, grandi caratteri in stampatello nero formano il titolo: “E’ GUERRA”.
Decido di salire di un piano e quando arrivo un ronzio e delle parole mi arrivano alle orecchie:
<<*Fzzzz* I mutanti hanno iniziato ad organizzarsi. Alcuni hanno abbandonato *Fzzzz* Milano altri stanno opponendo *Fzzzz* resistenza *Fzzzz* Abbiamo bisogno di aiuto *Fzzzz* non resisteremo a *Fzzzz* lungo. *Fzzzz* Ci cacciano e ci mangiano come *Fzzzz* animali>>.

Entro nella stanza e vedo un uomo davanti a un piccolo sistema radio.
<<Grazie a Dio c’è ancora qualcuno, sono Morav….>> non finisco la mia frase perché l’uomo si volta mostrandomi dei denti affilati che sembrano quelli di un piranha. Spalanca la bocca con la sua lingua nera e grida un urlo di battaglia che mi gela il sangue. Non riesco a muovermi e l’essere mi viene addosso morsicandomi la spalla. Caccio un urlo di dolore colmo di disperazione. Poi con un gesto dettato dall’istinto gli scarico tutto un caricatore nel petto. Il sangue nero schizza ovunque, coprendo il mio volto e la mia divisa militare. Un puzzo di marcio mi invade i polmoni e tossisco avvertendo un conato di vomito.
Sbocco un po’ di saliva per terra, poi in un gesto di odio e rabbia tiro qualche calcio alla creatura.
<<Brutto pezzo di merda. Vaffanculo!>> ripeto l’ultima parola che ho sentito dalle labbra di Bogart.
Sul tavolo il sistema radio continua a mandare in loop la comunicazione. L’esca ha portato carne fresca nella Città Nera.
Mi guardo attorno per cercare del materiale utile, ma a parte dischi o vecchi giornali non trovo nulla di interessante. Spengo la comunicazione in loop e vedo che vicino al microfono c’è un vecchio giradischi. Da quanto tempo non ascolto un po’ di musica? Da quanti anni?
Prendo un disco a caso da quella collezione e lo metto sul giradischi, portando la puntina ad inizio traccia. Il sangue continua a colarmi dalla ferita che pulsa, probabilmente quel bastardo mi ha anche attaccato qualche infezione. Mi avvicino ad una finestra barricata e butto giù le assi di legno con il calcio del fucile. Voglio aria, voglio vedere il cielo.
Il rumore di una forte esplosione attira la mia attenzione verso il Duomo, vedo un fumo nero alzarsi e sento grida e spari sempre meno frequenti. Avverto ancora lo stesso brivido che ho provato dentro l’oscurità del sistema fognario o quella volta che le creature volanti hanno sterminato i miei compagni. Ma questa volta è diverso. Il brivido pare farsi freddo, un freddo che ti entra nelle ossa e ti avvolge il cuore. Prendo dal taschino il Montecristo e lo porto alla bocca. Con i denti strappo la capa del sigaro e poi lo avvolgo con le mie labbra. Con la mano destra prendo lo Zippo dalla tasca dei pantaloni e accendo questa meraviglia della tabaccheria. Prendo una bella boccata, il fumo denso e pastoso mi avvolge la lingua. Uno spettacolo.
Mi godo quel momento, le urla dei miei compagni dilaniati dai mutanti si confondono con la musica del vinile che suona le note di Jackie Wilson. La mia risata disperata, folle e colma di orrore si perde nel sottofondo di Higher and Higher.

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