Premio Racconti nella Rete 2014 “Io, guarda che torno” di Pietro Mossa
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Dedicato a P.
Attraverso P.
Nonostante P.
Vedo te e scrivo te.
Sento te e scrivo te.
Vene, tubi e pompe ad infusione. Non è così male se dopo tanto tempo – ora sì – ora ti parlo, usando il proiettile che riposa nel lobo sinistro dopo tutta la corsa attraverso il lobo destro.
Coma di IV grado e ti parlo e ti vedo, io pianta grassa e solo io lo so – ma chi se ne frega. Sento te e scrivo te. Mangio il mio ossigeno che esce dal tuo corpo: e non mi importa di dove sono e cosa sono, perché è il tuo respiro e lui – sì – che sa di mare.
Sa di mare come al Principio, tu magro ed allungato come un palo della luce – e a me che non piacevano, i pali della luce. Parlavo, mi guardavi e ascoltavi il mio dire, che era gonfio di cazzate e paura del silenzio.
Ascoltavi, respiravi: era quello che facevi, pallottola nel mio cervello che è ancora qui, nel seno destro, coinquilina di quella di piombo.
Anche ora tu mi guardi. Ed hai occhi grandi e neri con dentro tutto il perché del mondo e acqua e sale e dolore e inquietudine, che la mia lingua un tempo – credevo – asciugava. Aria dentro poi aria fuori, come ora che lo faccio anch’io, che sobbalzo sul letto e smuovo gli aghi, fissando in alto la bocca semiaperta.
Acidosi metabolica, un’ipotesi in mezzo a tre: questa è stata scelta, questa è quella giusta, scende nel mio corpo un bolo di qualcosa –
bicarbonato.
Ballo una danza che è di gioia e bentornato: e sobbalzo sul letto, e smuovo gli aghi.
Tu parli con me in una lingua senza suoni.
Cucini ancora? Lo fai per me? Io in ritardo – come sempre, tu lo sai e rallenti il gas. E cosa mi fai – pollo alla thailandese? Ti inventi una ricetta e la condisci col tuo corpo, allora metto una fragola tra le labbra e ti dico Assaggia, è buona, Ma le ho anch’io, Ma questa è più buona perché la pasta può aspettare e il pollo può seccare, c’è il tappeto e bocca su bocca, sperma su sperma, amore su amore.
Il tuo primo ti amo sul divano di casa mia mi risuona dentro con una nota larga e vibrante.
Velocemente mi scompenso – il bicarbonato non funziona.
L’intensivista: non capisce, e l’Esimio Primario: manco sente.
Tu invece: ecco, tu sì.
Come io sentivo il tuo quando bussava al mio ma era troppo, e soffocava, e ti urlavo dietro e ti ferivo ed era il tuo silenzio che nasceva – che ho imparato a temere. E che ho conosciuto troppo bene. Uriele, e quaranta giorni, e poi altri quaranta: e non più di quaranta.
Andato via, e con te il mio respiro – il biotensor puntato verso la nostalgia di te. Hai voluto insegnarmi – ma cosa non so, perché ancora adesso io questo non so, che continuo a sobbalzare, e gli intensivisti – che anche loro non sanno.
Poi le bombe, quelle intorno a te quelle dentro di me: la malattia, la gelosia, la voglia di finire e anche di finirti, l’orrore di pensarlo e la tenerezza infinita che ora ti dedico perché non mi importa una sega se grondo melassa, la pallottola quella di piombo vince la partita e tremo e tremo e cazzo se tremo e gli intensivisti che mi guardano con occhio sbarrato, dalla mia bocca rantoli e saliva si mischia e si secca nei bordi.
Guardo me stesso.
E’ questo il morire?
Ora la tua voce, perché io non la sento? L’intensivista sopra me, una maschera sul volto e mi pompano l’ossigeno, fa male e brucia lo so che dà fastidio, lo so che dà fastidio. Ho i parametri che crollano come le torri gemelle – sorrido e non si vede, l’ossigeno squassa e fa male e brucia e mi viene voglia di finire, ho paura amore mio, lo vedo che ho paura, sono in coma ma ho paura, e se fosse il tuo respiro quel che ora mi entra dentro, allora non saprebbe di vento acido e rimpianto ed invissuto e se mi fanno il massaggio cardiaco prendimi la mano, perché
a ogni colpo
la mia gola
fa dei suoni
che io
non voglio fare, chiamano
mia mamma
ma tu
sei qui, mi tieni la mano – e va bene così –
va bene così.
…
…
…
Andiamo via, adesso, insieme. Facciamola una cosa, adesso, insieme.
Però aspetta perché batto di nuovo, l’intensivista fottuto stronzo si è ripreso è zuppo di sudore e di pettorali doloranti: che dovrebbe ringraziarmi perché ha fatto body building sopra me e la sua amante, non un medico, ora l’apprezzerà grazieaddio di più.
Scusa ma non ce la faccio a non gonfiarmi, non gonfiarmi di questo edema, non ce la faccio perché mi riempie ed è un fiume carsico che invade il corpo: ma tu mi scusi, è vero che mi scusi?
Scompenso cardiaco e tutto ristagna, tutto ristagna e tutto non scorre proprio come quello che non ci siamo detti e ancora adesso qui non ci diciamo, nella Maginot che è costruita tra di noi e che magari non vediamo, no però c’è.
Ho paura, di morire: tu questo lo sapevi? Io questo – io no, l’intensivista lo ha capito, perché è da mo’ che l’ha capito, le grafologie dei macchinari sono ad altare dietro di me e non capisco un cazzo dove a lui non c’è segreto: io so solo il mio cratere che prende spazio e sempre qui, qui dov’è lo sterno, che anche allora lo provavo e sapeva solitudine e non voglio sentirlo – ma non posso rifiutare, perché se muoio e tu scompari e non è vero che sei qui, ed invece sei lontano, combattendo i tuoi fantasmi – mentre il mio gioca con me?
Ma tu mi abbracci, mi abbracci da dietro e mi chiami satirello, piccolo amore e quanto sei carino, e allora io lo so, che la morte non c’è, e non ho paura, se ci sei tu, anche se ora un paravento dice che forse non passo la notte e le macchine sono quasi staccate perché questi farmaci con quello che costano e l’infusione continua e i tagli alla sanità ed il resto: tutto il resto, acqua e sale e dolore e inquietudine, che sono le mie lacrime e quanto le ho aspettate. Il Primario mi guarda, la pianta che crepa e si mette a piangere?, sarà il simpatico o il parasimpatico? Lui non lo sa ma tu certo, sì, e questo è sufficiente e questo è ciò che conta, tutto ciò mi basta e anzi in più mi avanza.
Avremo modo di parlare e ci diremo tante cose: tu aspettami perché torno, io torno, torno subito. Ora vado perché il cuore si è fermato, ma io torno, guarda che torno, tu aspetta ancora un poco, non andare proprio adesso, tutto è rumore – corsa – dolore, percussioni e ottoni dei macchinari che impazziscono ma ancora un poco, e io guarda che torno.
Stai qui, con me, ancora, un poco.
Perché io,
guarda che torno.
Bellissimo.
Amore e morte, corpo che vegeta ma passione che urla.
Un racconto denso di poesia, di rimpianto e di nostalgia, teso e vibrante come un violino che suona il concerto in re maggiore. Quanta, bellezza, quanta verità, quanta ispirazione… grazie.
Grazie a te Mara, le tue parole mi onorano molto. Sono contento che il mio racconto ti abbia lasciato qualcosa.
Grazie ancora.
Apprezzo sempre tantissimo chi scrive in un modo così particolare, se vuoi anche complesso sempre apparire appesantito o noioso. Lettura incalzante ad ogni frase. Bella la contrapposizione tra amore e morte . Mi è piaciuto molto. Bravo Pietro
Grazie anche a te Francesca… So che non è un italiano tra i più immediatamente fruibili, ma quello che mi premeva era dare il senso di una specie di delirio, di parole che si affastellano… Senza per questo diventare inespressivamente macchinoso. Ho ricercato anche un andamento ritmico che richiamasse, in qualche modo, un “fattore musicale”.
Un delirio dove le parole si affastellano. E chi l’ha detto che parole in quei momenti sono sensate? O meglio, che seguono sensazioni conosciute? Avere una pallottola in corpo e aver paura di morire da soli… Non sempre facile da seguire ma rende perfettamente l’idea. Mi è piaciuto.
Grazie Roberto.
Ho letto il tuo, mi piace lo stile asciutto e lo scoprire poco a poco le carte… Si è invogliati ad andare avanti, cosa tutt’altro che scontata, anzi…