Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “Nero tra gli alberi sempreverdi” di Samantha Terrasi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

24 Novembre 2009

Questo viaggio comincia con la vista di Santa Rita avvolta nella  nebbia. Un treno mi aspetta sui binari per lasciare Torino alle ventidue e venti. Viaggerò l’intera notte affondando la testa nel giubbotto, respirando la mia stessa aria. Arriverò a Roma per affrontare un pezzo del mio passato.  Un passato che non è un romanzo.

Un passato che è scivolato su qualche schiaffo, su qualche ferita di troppo. E’ un viaggio nel Viaggio, è un percorso che è cominciato con il sole di Ottobre. È un passato tagliente ma Mio.

Questo viaggio comincia ora, dal finestrino di un autobus. Nella nebbia.

 

 

Ha ragione Vittoria non devo pentirmi di quello che è successo. Devo guardare al passato con fierezza. Ne devo lasciare testimonianza? Il treno è partito e fuori è buio. Perché sono salita su questo treno?

 

 

25 Novembre 2009

 

 

 

ore 6.30

Sono davanti a un cappuccino con cornetto. Ho gli occhi ancora attaccati dal sonno, da una notte trascorsa attraversando i binari. Il solito viaggio, il solito treno. Questa volta ho chiuso la tenda, ho voluto cancellare il mondo fuori per una manciata di ore. Il viaggio della miseria.

Mi hanno detto di vestirmi bene ma invece ho solo un paio di jeans e un maglione beige. Anonimo. Voglio solo che finisca in fretta o che non arrivi mai quel momento. Non so cosa aspettarmi, ho paura. Sono solo le sei e mezza e in questa mattinata ancora buia, Roma mi sembra persa. O è solo la percezione che io ho di me. Gente veloce che corre, si guarda intorno ma forse non sa neanche dove andare, cosa cercare in fondo. Gente con grandi buste da portare. Gente che spolvera una mattina ancora da vivere che in questo caffè sa di valigie, di cornetti scaldati e cappuccini bollenti. Un signore legge il giornale con una grande lente. Un tassista al di là del vetro si accende una sigaretta. Due russi parlano la loro lingua incomprensibile, è come se si supportassero a vicenda. E’ una questione di sguardi. I loro sono lontani magari ancora nella loro patria sotto qualche coltre di neve.

 

ore 7.30

Mi sono comparse due lacrime. Ricaccio dentro l’amarezza. Non serve, non aiuta. E’ solo una compagna scomoda. Non serve a far passare le cose anzi le sotterra. La data del display del cellulare segna 25 Novembre. Ai giorni non si fugge. Un cartellone grande raffigura una donna che sorride. Fa colazione. Il muro intorno è un mosaico consumato. La gente comincia  a guardarmi, sono ferma qui da un’ora.

 

 

 

ore 8.30

Si sta facendo giorno sempre più velocemente. Gli autobus passano ancora lenti, la gente si infila sotto le fermate ancora con gli occhi chiusi. Davanti a me si ferma un serbo, parla di guerra in un italiano da straniero. Dice che l’Italia parteciperà di nuovo al massacro della sua gente. Due ragazzi si sono seduti adesso. Hanno due zaini enormi. Uno sembra un pirata. Ha due orecchini grandi. Si guardano intorno. Ormai il bar è quasi tutto pieno.

Ho i capelli arruffati e la stanchezza nelle ossa. Ora in questo momento desidero un po’ di calore, qualcuno che mi scaldi che mi dica Andrà tutto bene, Samantha, ma non c’è. Mi sento sola, mi arrendo ma non è da me. E il cappuccino è ormai freddo.

 

 

ore 9.00

S’è fatto giorno. I palazzi intorno hanno un colore. La gente finalmente ha un volto scoperto. La gente comincia a correre. Legge distratta. Non si ferma. E io li guardo sfilare come in una vetrina.

Se tengo ancora un po’ la tazza sporca e la briciole intorno mi sembra che il tempo rimanga ancora un po’ a mia disposizione. Immobile sullo stelo di un cucchiaino, come brina su uno stelo d’erba.

Rimango ancora un po’ a guardare la gente.

Rimango.

E non c’è un motivo che mi trattiene. E non c’è un motivo che mi fa andare. Rimango con il passato che non è una colpa. Viaggiatori che arrivano troppo tardi.

 

 

ore 9.07

E’ arrivato. Mi guarda come se vedesse un fantasma. Magari sono invecchiata di dieci anni e non lo so. Mi sento tirata dentro. Mostro un sorriso ma vorrei che prendesse il primo taxi e sparisse. Come possiamo amare a tal punto da trasformare tutto in un odio stizzito e appiccicoso?

Si siede e mi guarda. Mi prende la mano. Mi porge la sua come se fosse un consolatore. Mi parla ma non riesco ad ascoltarlo. Vorrei essere presente ma mi trovo fuori dimensione. Il traffico è aumentato ed è l’unica cosa che cattura il mio interesse. Mi arriva un caffè sotto il naso. Si è alzato e non me sono accorta. Mi porge una tazzina di caffè fumante. La prendo con piacere. Faccio tintinnare a lungo il cucchiaino tra il caffè e lo zucchero che si scioglie lentamente. Anche quando non sento più i granelli continuo a girare. Forse cerco di fermare il tempo in un vortice, vorrei infilarmi tra una spira e l’altra.

Cominciamo a parlare. Conversazione sterile, le parole sono sempre le stesse. Di circostanza. Convenevoli, appropriate al momento. Nessun tono alto. Nessun cedimento. Solo il traffico che scorre. Non faccio domande. Mi guardo intorno. E’ ora di andare. Ho ancora qualche speranza nel cuore. Guardo l’autobus pieno di gente che mi passa davanti, 105 direzione Termini. Vorrei entrarci per vedere dove va ma fuggire servirebbe ad allungare la pena o l’esecuzione?

 

 

ore 10.00

Cominciamo.

Visi che si scontrano. Roma che si arrangia come può. Camminiamo. Tribunale civile. Il cielo è azzurro. Le foglie gialle sugli alberi. Sono più grande del vialetto che percorro ogni giorno nel vialetto dalle strisce rosse. Mi fermo. Mi appoggio a una balaustra di ferro che delimita il posto delle moto. Non fa freddo, sciolgo la sciarpa.

 

Entro.

L’avvocato parla. Dice poche speranze. Come se stessi per morire. I medici e gli avvocati in alcune occasioni pronunciano le stesse parole. Saranno da protocollo. Dice che è una consensuale molto pacifica. C’è accordo. Sprofondo in me stessa. Cedo in un angolo nascosto del mio cuore. Gli occhi ora si riempiono di lacrime. L’avvocato mi guarda Cosa posso fare per lei?

Il mio Niente è freddo come le mie mani. Un’aula in un corridoio, un termosifone bollente che cerca di scaldare le mie paure. Allento il giubbotto. Dal termosifone si vede l’entrata o l’uscita, punti di vista. Il cielo è ancora azzurro.

 

Piango.

Le lacrime si sono divincolate dal resto. La gente mi guarda. Entrano tutti come se si stessero liberando di qualcosa. Io cosa cerco? Una spugnetta per il passato o una penna nuova che scriva?

 

Rifletto.

 

Piango.

 

Rifletto.

Tiro su con il naso. Il cielo è sempre azzurro.

 

 

ore 11.30

Mi siedo. Il giudice è lì. Ho gli occhi sporchi, gonfi. Legge un foglio. Mi guarda. Chiede il mio nuovo indirizzo. Le rispondo che io non ho cambiato residenza.

Non sono l’anagrafe, dove vive? chiede stizzita.

Riferisco l’indirizzo. Scrive. Allontanamento da casa per lavoro.

Ho perso il mio posto in famiglia. Lo penso ma non è vero, è solo burocrazia. Parla ma non ascolto. Firmo.

Non ho più niente. Ma cosa avevo prima?

Una famiglia.

 

 

ore 11.45

Esco piano. Sento la parola Auguri che è come dire Buona Fortuna a un morto. Mi sento pesante. Cerco di non vivere quello che mi circonda.

 

Rinnego.

 

Non piango.

 

Rinnego.

 

Tiro su con il naso.

 

 

26 Novembre 2009

 

 

Prendo mia figlia con me per due giorni. La faccio vivere con me per sottrarmi a me stessa.

 

 

Prima notte.

Un inferno. E’ come andare a un funerale e realizzare dopo che la tua migliore amica è morta.

 

Seconda notte.

Un inferno più silenzioso.

 

Terza notte.

L’inferno prende forma. Non si torna indietro. Non ho più una casa. Ho solo ricordi. Libri. Foto. Roba da scatoloni. Roba che piano, piano scomparirà  del tutto.

 

 

28 Novembre 2009

 

 

Oggi ti ho guardato dopo tre giorni.

Hai capelli bianchi.

Giri con il pc appresso.

Fumi in balcone con il pc sullo stendino. C’è lei.

Preparo il pranzo. Rimaniamo a guardarci.

L’amore è rimasto attaccato al vetro che si è appannato per i nostri respiri, pieni di odio, di vuoto, di qualcosa che non c’era. L’aria ha asciugato i margini fino a far scomparire il nostro calore. Potevamo respirare ancora, ma non ci siamo capiti. Abbiamo parlato lingue diverse, non capendo che forse dovevamo ascoltare l’esistenza del nostro silenzio. Abbiamo lasciato a quel vetro la capacità di trasformarsi in un muro trasparente.

 

 

29 Novembre 2009

 

Sono sul treno. Torno a Torino. Porto con me diversi libri. La bottiglia dell’acqua tintinna sul tavolinetto  aperto. Il paesaggio sfila e il cielo non sembra più lo stesso.  Vedo solo il nero delle ombre. Nero tra gli alberi sempreverdi.

 

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2 commenti »

  1. Emozionante, descrizioni scarne ma affilate e riescono, di conseguenza, a trasmettere l’angoscia della protagonista.

  2. Ho trovato questo bel racconto grazie al commento dell’autrice sotto il mio. E ne sono lieta.
    Mi è piaciuto, è coinvolgente e poetico. Lo stile è raffinato ma pulito, la narrazione è fluida.
    Un dramma famigliare raccontato con grande efficacia.

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