Premio Racconti nella Rete 2014 “L’uscita” di Ugo Verticchio
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Amret, il marocchino, mi ha preparato il thè come fa tutte le mattine, tranne la domenica che rimane a dormire fino a tardi. Con lui c’è uno scambio che ritiene equo. Lui prepara la colazione ed io la sera gli do le pasticche di valeriana che lui crede essere Tavor. Ci fa dei bei cocktail prima di andare a letto, e si addormenta beato. E’ venuto anche Mirko, il Vichingo, dalla cella di fronte. A quest’ora le sbarre delle celle dovrebbero essere tutte chiuse ma lui riesce ad aprirle infilando nella serratura il manico di una forchetta, (a patto che non abbiano anche girato le mandate!). Ma la mattina presto anche da lui aprono, per far uscire i lavoranti, e poi richiudono limitandosi a sbattere la cancellata.
Così spesso viene nella nostra cella, Amret prepara il caffè anche a lui, ma con lui non c’è uno scambio di qualcosa, solo il rispetto di una scala gerarchica data dall’età e dagli anni di galera fatti. Mirko si è lamentato dei compagni di cella, a suo dire dei “pischelli irrispettosi a cui bisogna insegnare a fare il letto, a cucinare e pulire il cesso”. Dice alzando la voce: “Io alla loro età ero già evaso due volte dal riformatorio, avevo fatto più reati di mio padre… ci vuole rispetto qui dentro, cazzo!”, e poi rivolto a me: “Aoh, damme ‘na sigaretta che domani mi arrivano e te ricopro tutto de pacchetti, come ‘na piramide egizia”.
Devo dire che due risate riesco a farmele pure qui dentro, e poi tutti sono gentili e rispettosi con me e mica me lo spiego tanto. Stando fuori uno si aspetterebbe chissà quali atti di nonnismo dentro un carcere, invece nulla di nulla nei miei confronti. Manco avessi l’aspetto di un criminale, un fisico che incute terrore. Sarà che il cervello qui dentro viene apprezzato più dei muscoli? Incredibile ma sembrerebbe proprio così. Forse ascoltandomi parlare hanno capito che c’è qualcosa da imparare, in termini di vita sociale, di vita vera all’esterno.
I compagni di cella nordafricani sono tutti musulmani e pregano ogni giorno, rispettando certi orari in base ad un calendario scaricato da Internet appeso al muro vicino la finestra, accanto a quello di Sabrina Ferilli del 2000. Si prostrano per terra rivolti verso La Mecca, direzione che è all’incirca a sud-est rispetto all’Italia, ma che qui corrisponde più o meno alla direzione del cesso. Il loro fanatismo religioso li rende ridicoli ai miei occhi: ringraziano Dio persino di stare in prigione, dicono che ci sarà una ricompensa finale nell’aldilà. Poi però ammettono che, uscendo da qui, continueranno a spacciare e fare furti. Allora Dio cosa c’entra? Da quale parte starebbe? Dalla parte dei criminali o delle loro vittime?
Sono risalito in cella dal colloquio con l’avvocato che mi ha parzialmente rassicurato, ma non voglio credergli più di tanto. Subito dopo mi hanno richiamato, stavolta per andare in sala colloqui; è venuta Raffaella da sola, ed era commossa e preoccupata. L’ho rassicurata con qualche bugia e fatta ridere con qualche racconto divertente su quel che di assurdo accade qui dentro.
Durante i colloqui noi detenuti mentiamo ai parenti su quel che succede realmente dentro, loro mentono su quello che avviene fuori. E’ tutta una bugia, ed entrambe le parti lo intuiscono, immagino, ma va bene così. E’ questione di pura sopravvivenza. Ho detto a mia sorella che posso resistere anche un anno qui dentro, ma mica è vero. Voglio uscire subito!
Quando sono risalito in cella, vedendo il carrello delle vivande, ho pensato fossero le cinque e che avessero già portato la cena. Poi ho visto la sveglia sul letto di Amed, era solo mezzogiorno. Non mi era mai successo di perdere così la cognizione del tempo e mi sono preoccupato un po’. Avevo fatto tante cose, (colloquio avvocati, passeggio, colloquio familiari) ed il tempo sembrava volato. Invece si era semplicemente fermato!
Mi sono messo a letto perché non ho voglia di mangiare lo schifo che ho visto nel carrello: le solite uova sode col tuorlo nero, l’insalata con gli insetti verdi dentro e il tonno, che stavolta abbiamo deciso di conservare per la cena di stasera tutti insieme, per condirci la pasta. Più tardi sono tornato nella cella del filippino spacciatore di shaboo ed ho vinto tre partite su tre. Ho ricevuto i complimenti da tutti, mi vedono come un gran maestro ma la realtà è che loro sono un po’ scarsini.
Poco fa mi ha chiamato una guardia e mi ha detto di scendere, aveva una faccia da funerale ed ho temuto il peggio. Ho creduto che fosse arrivato il fax con il parere negativo del tribunale del riesame. Invece era lo psicologo del Settimo che mi cercava perché voleva avere da me delle news sul riesame. Abbiamo parlato dieci minuti, mi ha detto di farmi mettere a visita domattina con la dermatologa per prenotare una radiografia all’addome.Sono tornato al piano, salendo mogio mogio un gradino alla volta, avvilito come non mai da quando sono qui; mi sono sentito vicino agli Umiliati e Offesi di Dostoevskji, avrei desiderato avere una copia di quel libro così indicato alla situazione e passare quel pomeriggio immerso nella lettura, tanto più che erano tutti fuori al lavoro, la tv era spenta e dal corridoio non arrivavano che le solite risate e le battute goliardiche di Mirko e Tinca.
Mi sono messo sul letto e ho sistemato i fogli che compongono questo diario, numerandoli uno ad uno per paura di mischiarli o di perderli. Avendo finito il quaderno che mi ha portato Federica, ho iniziato a scrivere sul retro dei fogli per le “domandine”, dato che abbondano nella scatola Barilla usata come cassetta della posta: nessuno le compila, quasi mai. Altre pagine le ho scritte sul retro di vari fogli scarabocchiati che raccolgo ogni giorno mendicandoli cella per cella.
E’ pomeriggio e non ci sarà nulla da fare fino a stasera. Correggo gli ultimi due capitoli che ho scritto, vi aggiungo qualche impressione e inserisco qualche nota a margine, poi riprendo il manoscritto dalla prima pagina e ricomincio a leggerlo, daccapo. Mi si chiudono gli occhi dalla noia, più che dalla stanchezza.
Mentre sto per addormentarmi sento un secondino chiamare il mio nome, è la voce del Calabrese, il più stronzo di tutti. Mi alzo dal letto e mi avvicino alle sbarre d’ingresso. Mi viene consegnato un foglio e chiesto di firmare per la notifica, lo giro immediatamente, lo guardo e le uniche parole che leggo sono “Ricorso respinto”. Ho una stretta allo stomaco, deglutisco, lascio cadere il foglio per terra che qualcuno raccoglie ma io sono già dall’altra parte della cella, già sulla mia branda, affondo il viso nel cuscino, e piango. Me ne sto così, in compagnia della mia tristezza, per qualche minuto, poi Vasili mi chiama per dirmi che è arrivato il carrello della cena, mi chiede se preferisco mangiare ora o più tardi insieme a loro.
L’odore nauseabondo di minestrone avariato mi penetra dalle narici direttamente nella testa e ci sono pezzi di broccoli, patate e carote sul mio letto, zucchine e fagioli bollenti. Tutto si fa caldo e denso, la cella si riempie di vapore, una nebbiolina nasconde d’improvviso ogni cosa…
Tutto si fa buio.
La sveglia di Amed continua a fare bip-bip, la raggiungo con un braccio per spegnerla, segna le 17.00. Ho sognato dunque! Non è arrivata nessuna risposta dal tribunale del riesame. Il ricorso non è stato respinto, posso ancora sperare. Mi rimetto a leggere immerso tra i fogli, ma poco dopo mi ridesta un profumo che mi è familiare, un buon odore che non sento da tanto tempo ma che stavolta sembra proprio reale. Vasili mi chiama, mi dice che c’è la pizza ed io non credo alle mie orecchie. Faccio per scendere dal letto ma lui me ne porta una fetta bollente, mi dice che l’ha portata suo fratello che lavora in cucina. E’ ottima: pomodoro mozzarella e basilico, come piace a me!
In quell’istante arriva il secondino più anziano, quello che mi è sempre sembrato il più tranquillo, l’unico quasi simpatico. Mi chiama per nome, apre la cella e mi consegna un foglio. Mi dice di firmare per la notifica e così faccio mentre già ne sbircio il contenuto e allora mi prende un soprassalto alla vista della parola scarcerazione, bella in grassetto e posta proprio sotto le mie generalità e subito dopo l’aggettivo immediata.
Tiro il foglio in aria e lancio un urlo, un grido liberatorio, un “Siiiiiii…” che ripeto e prolungo tutto il tempo necessario ad abbracciare i compagni di cella uno a uno. Infilo le mie poche cose nella federa del cuscino a mo’ di sacco e dico a tutti di prendersi i miei vestiti, che glieli regalo. Mi precipito fuori dalla cella, scendo al piano terra dove un secondino è già allertato ed è lì che mi aspetta e mi porta alla matricola a riprendere le mie cose. Più che l’orologio apprezzo ora i lacci delle scarpe e, infatti, me li infilo subito e seguo il secondino che è corso avanti, è già sull’uscio d’ingresso, già nel cortile di fronte al cancellone di ferro verde e mi fa cenno di sbrigarmi, mi grida che devono richiudere.
Io lo seguo affrettando il passo più che posso, mi metto a correre. Quel varco è in controluce e i raggi del sole mi arrivano negli occhi offuscandomi quasi completamente la vista, mi riparo con una mano e oltrepasso quella soglia. Mi ritrovo fuori, sul marciapiede di via della Lungara, mi volto a guardare a destra e riconosco le mie sorelle dall’altra parte della strada, e poi uno a uno tutti gli amici più cari che sono lì, venuti ad aspettarmi. Mi verrebbe quasi di buttarmi in strada senza neppure guardare, di attraversare con gli occhi chiusi e le braccia aperte fin dall’altra parte. L’emozione è incontenibile e non potrebbe esserlo di più … quando ecco che con la coda dell’occhio scorgo a sinistra una figura appoggiata al muro del carcere.
Il mio cuore si ferma, cessa di battere per qualche istante. Ha i suoi colori, i suoi tratti, le sue movenze. Sembra proprio lei. La raggiungo, ci abbracciamo un minuto intero, le sue lacrime si mischiano alle mie, come le nostre mani e i suoi baci con i miei, ma i suoi singhiozzi si rompono in parole che non riesco a comprendere… Un camioncino passa in quel momento, ha un megafono montato sul tetto e qualcuno strilla: “Domiciliari signoreee, domiciliariii, si aggiustano caldaie e arrotano coltelli, lavori rapidi e a domicilio… rapidiiiii ”. La sua bocca si allontana dalla mia, e tutto a un tratto l’immagine si affievolisce e il suo viso scompare… poi tutta la sua figura e anche le case intorno, le auto, le strade, perfino le mura del carcere si afflosciano come teloni in un teatro.
E tutto si fa buio.
Mi sveglio di soprassalto per le grida di una guardia che chiama il mio nome e ripete la parola “domiciliari, domiciliari”. In un lampo prendo coscienza che stavo sognando, stavo di nuovo sognando! Non è stato respinto il ricorso ma non mi è stata neppure concessa la libertà. È stato tutto un sogno del cazzo! Guardo la sveglia sul letto di Amed che segna le 17.00, realizzo che non sono affatto fuori di qui a festeggiare la mia ritrovata libertà, mi trovo ancora su questa fottuta branda, in questa stramaledetta cella! Resto assorto con la testa tra le mani, alzo lo sguardo sulla sveglia che ora segna le 17.02. Il tempo passa… e quindi è certo che non sto ancora sognando! Ancora intontito dal sonno ma soprattutto deluso, offeso, umiliato, mi trascino giù dal letto fino alle sbarre d’ingresso. Il secondino, venuto ad avvisarmi dell’arrivo del fax con la concessione degli arresti domiciliari, mi dice di preparare in fretta le mie cose.
Esco dunque. Esco!!!
Non completamente in libertà come nel sogno, e neppure con un regalo così inatteso ad attendermi all’uscita. Ma che importa? Non è forse proprio qui che ho imparato ad accontentarmi del meno? A farmi bastare il necessario e a desiderare solo l’indispensabile? Ecco, ora l’importante è solo uscire. Subito i compagni di cella mi si sono fatti intorno, chi per farmi i complimenti, chi per chiedermi qualche vestito. Ahmed mi ha chiesto le ciabatte, Vasili una maglietta a maniche corte per l’estate. Ho dato loro tutto quello che avevo e gli ho detto di prendere anche le cose stese ad asciugare. Ci siamo abbracciati, mi sono fatto trascrivere i nomi di tutti, per poi potergli scrivere e fare qualche versamento di denaro appena potrò. A Giovanni della cella accanto ho dato un libro di scienze che mi aveva portato Raffaella, perché lui è abbastanza appassionato ed era fermo alle letture dei libri di vent’anni fa della biblioteca del carcere. Sceso al piano terra vengo tradotto al Settimo, alla sezione Matricole, quella dell’arrivo. C’era con me l’ambulante napoletano conosciuto in tribunale; lui assolto e in libertà, io in attesa di giudizio e ai domiciliari. Mi ha chiesto se lo aiutavo a rimettere i lacci alle scarpe nel suo dialetto odioso, gli ho risposto di chiedere aiuto alla guardia e lui per nulla infastidito mi ha chiesto se avevo dieci euro per il taxi. “A me li chiedi?” – gli ho risposto – “Fai una bella rapina al tassista così ottieni il passaggio e qualche soldo”. Ho sperato che seguisse il mio consiglio, che fosse arrestato nuovamente e che stavolta avrebbero buttato la chiave della sua cella. Io ai domiciliari e lui, pluripregiudicato, in libertà!
Dopo il disbrigo di alcune formalità e tanti timbri e firme mi hanno riconsegnato la borsa con cui ero arrivato, la cinta e i lacci delle scarpe, il documento e parte dei soldi che avevo con me all’arrivo. Poi mi hanno accompagnato a casa con un’auto della polizia penitenziaria. Lungo la strada mi sentivo di nuovo in un sogno, come quando da bambino al mare mi svegliavo dal riposino pomeridiano, un po’ assente e frastornato. Ho guardato l’orologio che segnava ormai le 18.00, il tempo scorreva rapido e quella era la prova che non si trattava più di un sogno. Ho cercato di cogliere con lo sguardo tutto quel che vedevo: i turisti, uno scorcio di piazza Trilussa, il tram di via Arenula, la gelateria Pica e quando ho visto il portone di casa ho capito che quell’incubo finalmente era finito. Ho avuto vergogna che qualcuno del palazzo mi vedesse dalle finestre che danno sulla piazza. Sono stato accompagnato fin su da una delle due guardie; ho trovato qualcosa in disordine, dovuto alla perquisizione di quando sono stato arrestato.
In terrazzo le piante erano quasi tutte secche, la vela per fare ombra strappata e tutto il pavimento ricoperto da uno strato di sabbia rossa. Ho immaginato che ci fosse stata una bufera, ma in carcere chi se n’era accorto? Sul tavolo della cucina i bicchieri dell’acqua che avevo offerto ai carabinieri quindici giorni prima. La guardia penitenziaria si è congedata, dopo avermi fatto firmare dei fogli e avermi illustrato i termini degli arresti domiciliari. Non potrò né uscire né comunicare con nessuno all’infuori delle mie sorelle; con qualsiasi mezzo, compresi internet, email, facebook.
Ma al momento chissene importa. Non vedevo l’ora di farmi una doccia nel mio bagno, con un accappatoio nuovo e pulito. Ho messo la mia musica preferita, il Notturno n°2 di Chopin, guardando i gabbiani dalla finestra.
Le campane di Sant’Andrea della Valle battevano in quell’istante cinque rintocchi…
Il poco velato disprezzo verso marocchini musulmani dovrebbe aggiungere qualcosa al racconto?
Il disprezzo per l’ambulante che parla “l’odiato dialetto napoletano” che, nonostante assolto, viene bollato come un ladro!
Francamente trovo il racconto razzista!
Spero di non aver capito qualcosa e di sbagliare.
Nel tuo racconto si percepisce lo scollamento tra vita vissuta e questa parentesi accidentale, per altro ben descritta con emozioni e parole. Un incidente di percorso che ha fatto sprofondare negli abissi probabilmente la persona sbagliata. Ogni essere umano che vive pienamente la propria esistenza, si trova spesso a confrontarsi con le oscurita’ della mente e del cuore. Ma l’abisso fisico, cosi’ ostile e drammaticamente sconosciuto, forse e’ prerogativa di pochi. La storia e’ affascinante ed allo stesso tempo inquietante, proprio x lo scollamento a cui accennavo. La distanza sociale si percepisce ed e’ funzionale al racconto, equilibrata ma reale. Chissa’ quanti uscirebbero veramente fuori da quell’ uscita. intendo psichicamente, emotivamente e fisicamente. Credo sia un vissuto che ancora riservera’ sorprese fuori e dentro di se.
Rispondo al post di Valerio Valentini che ha commentato il mio racconto accusandomi di razzismo. Si tratta di una storia vera, il napoletano di cui scrivo è un delinquente incallito assolto in quell’occasione per mancanza di prove, ma dopo avermi confessato il crimine commesso raccontandomelo con dovizia di particolari. Per quanto riguarda l’accusa di razzismo… la mia è una critica alla religione da un punto di vista etico, non alla razza in sè. Un po’ come il boss di mafia nel cui covo è esposto il quadretto di padre pio. Tutto qui.
Di racconti così reali e dettagliati, se devo essere sincera, ne ho letti pochi. Mi si stringe il cuore leggendo queste righe, e questo non potrebbe succedere se tutto ciò non fosse scritto in maniera corretta. Spero di poter leggere il racconto per intero. Complimenti.
Grazie Roberta.. ma da innocenti, con l’anima in pace, è più facile da sopportare, anche se potrebbe sembrare il contrario. E la scrittura mi ha aiutato molto in questo.
Grazie Camilla… troppo buona nel giudizio!!
Mi hai accompagnato per mano attraverso il tuo viaggio e ci sei riuscito anche molto bene dato che ne sono rimasto commosso; sicuramente commuovere non era neanche il tuo fine ultimo. Questo è quello che hai suscitato in me.
Complimenti davvero bravo.
Grazie Stefano, non volevo commuovere nessuno… sapessi quante volte è successo a me rileggendomi però!!
E’ bellissimo… Il contenuto molto reale ma anche al livello di forma e stile letterario molto maturo, hai fatto dei passaggi di racconto tra il sogno e la realtà molto fluidi e con una naturalezza degna di un vero scrittore Dovresti lavorare ancora sulla forma delle narrazioni introduttive – e cioè leggendo è un filino meccanico il preludium dei risvolti delle azioni – un pochino freddo e distaccato nei confronti del resto… e cioè ci sono i momenti iniziali della storia che risultano quasi scritti da un’altra mano… – meno coinvolgenti. Si avverte esattamente che nel crescendo delle tue emozioni cresce anche la prestazione letteraria…quando invece essa dovresti tenerla al massimo anche senza quei picchi , perchè per un lettore le parti introduttive sono quelle che decidono se continuerà a leggere il libro o lo metterà da parte…
Scrittura scorrevole e racconto dettagliato, è vero, ma per il gran numero di personaggi presenti nella storia avrebbe dovuto farti osare di più. A parer mio, se tu avessi descritto più a lungo l’ambiente del carcere e coloro che lo abitano, sarebbe stato più interessante. Soprattutto perché penso che sia giustificabile una descrizione dettagliata delle persone da parte di un uomo che si trova ad essere per un periodo di tempo così limitato dietro le sbarre. Persone che sono lì da molto tempo spesso hanno dipinta in volto la figura monotona che si sono creati (e gli è stata anche appioppata) e lasciano poco alla fantasia: ed è così che li hai descritti, statici e lineari. Ecco, secondo me non hai sfruttato abbastanza l’occasione di poter descrivere queste figure con l’occhio di chi vive ancora nella libertà, e chissà, magari se l’avessi sfruttata il ritorno a casa avrebbe potuto arricchirsi di pensieri ancor più profondi.
Finalmente una bella lettura ,un racconto molto ben scritto , scorrevole ,senz’altro realistico per questo ricco di pathos.Un racconto che fa riflettere , ha catturato la mia curiosità dall’inizio alla fine .
Complimenti
Racconto interessante e scritto bene. In particolare mi è piaciuta la suddivisione in tre parti (prima, durante e dopo il “tutto si fa buio”), che lasciano al lettore lo stesso dubbio del protagonista, ovvero: incubo/sogno o realtà?!…
Mah, secondo me un racconto non deve essere politically correct per forza. Dire che il napoletano è odiato non si può, magari si può dire del milanese o del marchigiano? Oppure non lo diciamo proprio e perdiamo un po’ di colore nel racconto. Mi è piaciuta la descrizione del carcere e dei suoi occupanti. Le ansie e le paure e le piccole gioie del carcerato sono arrivate tutte.
Divago un attimo: la forza liberatoria della scrittura si vede tutta. Qui tra mogli che sono state lasciate o tradite, uomini incarcerati o persi, donne che hanno combattuto contro uomini vigliacchi e mancati aborti, beh, ce n’è per tutti. E allora coltiviamo questa nostra passione, che agli altri piaccia o meno!
Ti faccio i complimenti sinceri. Il racconto scorre, non viene mai voglia di saltare una riga. si sentono le voci, ho sentito anche l’odore di sudore tipico degli spazi stretti. Bravo.
Caro Francesco, sono venuto a farti visita per ricambiare la tua. E ti ringrazio di averlo fatto… per le giuste critiche al mio racconto e per avermi dato la possibilità di leggerne uno davvero bello. I vecchietti bisbetici mi sono sempre stati simpatici !!!
Katarzyna grazie per il commento e la critica, ne farò tesoro !!
Per Roberto Montenero:hai ragione tu, nn bisogna mai essere politically correct quando si scrive!! Qualcuno ha commentato dandomi del razzista e non lo sono affatto… ma tant’è. Il dialetto napoletano può essere divertente, anche piacevole. Ma non quello di questo personaggio, così squallido ed immorale. Grazie per la difesa !!
Concordo con Francesco, il racconto è molto efficace soprattutto nella prima parte, dove viene narrata la statica quotidianità dei detenuti e l’angoscia del protagonista ingiustamente carcerato. Forse perde un po’ di tensione verso la fine, ma nel complesso è comunque appassionante.
Non ci ho letto nessun razzismo a esser sincera, né mi ha dato fastidio il commento sul dialetto, nonostante mio nonno fosse un napoletano doc (pareva uscito da un film di Totò), peraltro uomo integerrimo, coltissimo e di modi raffinati.
Il contesto narrativo cambia la percezione delle cose, qui si descrive il degrado e la sozzura morale di un individuo senza scrupoli e la rabbia per una giustizia deludente e fallace.
Grazie Sara!! Quell’odore era la cosa peggiore..
Ugo, adoro i finali aperti. Da lì in poi ogni lettori scrive la sua storia. La tua è accurata, incisiva, fa riflettere. Non mi è sembrato per niente un racconto razzista, ci ho letto molta amarezza. Complimenti.
Bel racconto, scrittura semplice,
contenuto efficace,
pane pane, vino al vino,
senza fronzoli.
😉
@Mara, grazie del commento… e per la cronaca anche io avevo una nonna napoletana, quindi ripeto… nessun preconcetto!!!
@ Liliana, grazie per i complimenti… il finale è lasciato aperto di proposito. Quelle campane che battono 5 volte lasciano il dubbio che il protagonista stia ancora sognando…
@Maurizio, grazie del tuo bel commento… le cose andavano dette così, fronzoli non potevo aggiungerne di certo !!!
Una storia cruda che toglie serenità per chi la vive. Il ritmo serrato ci restituisce l’amarezza del giovane incarcerato e lo stato di confusione in cui cade per il desiderio della scarcerazione. Complimenti per aver creato lo stato di attesa del colpo di scena.
Emanuele.
Avevo letto il tuo racconto subito dopo il primo commento con cui subito non sono stata d’accordo: mi pare evidente che il pensiero non è il tuo ma del personaggio!
Ho sentito raccontare da amici che hanno svolto servizi scolastici ai carcerati, che dovevano stare attenti a scegliere molto accuratamente i temi per non suscitare discussioni che potessero degenerare. Oltre a separare fisicamente nell’aula le fazioni opposte.
In definitiva sono i carcerati ad essere razzisti e il protagonista non sfugge a questa regola: benché più colto e meno delinquente, la consuetudine con persone che non ha scelto di frequentare lo hanno reso larvatamente razzista.
Grazie Emanuele per la lettura e i complimenti. Grazie anche a Maria Cristina per l’analisi azzeccata.. e aggiungo, gli spazi ristretti lo sono ancor di più quando devono essere condivisi in tanti e anche gli umori in pochi metri nn possono che essere contagiosi. Buon concorso a tutti !!!