Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “Dopo la fucilazione” di Giovanna Vanin

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

Ieri mi hanno chiamata per dirmi che non hanno più bisogno della mia presenza. Ho chiesto quale fosse la ragione di questa dismissione improvvisa. Avevano trovato del personale più giovane e efficiente. Ho cercato di oppormi alla realtà dei fatti. Ho diritto a vivere ancora, ho urlato, non potete farlo, uccidermi così, buttarmi nella spazzatura, ci conosciamo da mille anni, per voi non conta proprio niente?
Loro, con gli occhi bassi,tenevano in mano il fucile.
E il rispetto per il lavoro svolto? grido, anche quello non serve per fermare questa esecuzione?
Il capo, anche lui armato,li ha visti in faccia. E se avessero titubato a premere il grilletto? Perciò ha ordinato a tutti di indossare le cuffie anti-rumore.
Visto che nessuno più mi udiva mi sono rivolta a lui direttamente. Mi dici chi ha deciso la mia sorte?
Lui mi fa, niente di personale fra noi due, eseguo un ordine impellente della vita, quella con la vu maiuscola, è lei che comanda e stabilisce chi va, chi viene, chi vive e chi deve morire.
Tutto il discorso mi é sembrato una grande cazzata travestita da ragioni che nemmeno ho capito. Il capo ha detto anche qualcosa che aveva a che fare con la sua anima.
E lo dice a me, penso, ridotta in quel momento a un grumo di carne dolente. Poi mi hanno condotta fuori, davanti al muro pieno di buchi e di crepe. Per terra, là dove ogni condannato aspetta in piedi c’è una gettata di sabbia macchiata di marrone. Dall’ultima volta non l’hanno ancora cambiata, il mio sangue si mescolerà a quello di uno sconosciuto. Tanto ormai che importa? E soprattutto a chi interessa che io viva o che io muoia, che io parli o stia zitta? Dico che non voglio bende sugli occhi, voglio guardare in faccia chi avrà il coraggio di prendere la mira e allora vedo che ciascuno dei miei killer ha gli occhiali neri, di quelli che deformano il mondo. Li conosco, li ho usati anch’io in certe occasioni, quando mi è mancato il coraggio, quello vero. So che cosa mostrano gli occhiali: corpi monchi, piedi da capro, serpenti che si intrecciano e strisciano sulla testa del condannato che ruggisce con zanne da leone oppure raglia come un asino all’alba, ragni dalle cento teste sbavano fili su chi non vuol morire. Quindi, si sa, non spari a chi conosci, ma al mostro, é quello che ti sbarra la strada, si mette fra te e la felicità che aspetta. E lei, travestita da fatina, svolazza avanti e indietro nella scena del tuo prossimo delitto e dice, su cosa aspetti, spara, non credere di avermi se non fai il tuo dovere.
E’ per questo che ieri sono morta, uccisa dai colpi di tutti quelli che un tempo mi hanno detto, ti amo, ti voglio bene, e con i loro ray ban addosso hanno specificato che questo amore è una gabbia che li tiene prigionieri.
Chissà, ho pensato prima di cadere, e se avessero ragione?

Mi sono svegliata per il freddo, per la luce, per il rumore di centinaia di motori che scorrono sotto casa. C’era la porta aperta sul balcone. L’avevo fatto apposta. Travolta dagli eventi mi ero detta, potrebbe capitare nel sonno di deambulare e cadere giù, nove piani del condominio dovrebbero bastare per morire.
In realtà non mi sono mai addormentata veramente. Perdevo sangue da ogni ferita, da ogni buco.
Mi alzo a fatica, uno sguardo nello specchio. Sono sempre io, con la mia faccia, le mie gambe, le orecchie attaccate alla testa, solo gli occhi sono scavati sotto, un vallo nero dove le lacrime stazionano prima di scorrere verso il basso. E anche se la bocca rigetta di continuo l’amaro ingoiato io non mi laverò i denti, non voglio sentire il fresco del mentolo, cosa centra con la mia esistenza di adesso?
Anzi, via ogni vestito,via tutto questo peso di lana cotone seta fibre naturali artificiali elasticizzate, via tutto, voglio vedere la mia pelle, tutti i buchi che mi hanno fatto.
Peccato! non si vede niente.
Dovrebbero rimanere sul corpo, visibili al mondo intero, i tagli gli abusi gli scavi fatti su di me e non mi dite che sono grande adulta e vaccinata, è la mia piccola amica, la bimba appesa in alto al trapezio del mio circo, ce l’ho dentro da una vita, che si dissangua per gli spari i colpi d’accetta e di coltello e, pallida aspetta, la poverina non ha ancora esaurita la speranza, che qualcuno ci metta sopra un chilometro di garza emostatica, consumi cento scatole di hansaplast e di poter vivere sospesa in trasfusione permanente nella pancia di una madre di un padre di una creatura viva e calda che non si stanchi mai, dico mai, a tenerla dentro.

Loading

5 commenti »

  1. Le immagini man mano si trasformano in emozioni, il tempo imprecisato ed evanescente man mano si concretizza nel presente.
    Scrivere trasmette tanto al lettore. Ed il tuo racconto si fa leggere fino alla fine trasmettendo tanto.

  2. Grazie Valerio! per la lettura e per il commento.
    Giovanna

  3. Mi si contraeva lo stomaco e mi venivano le lacrime agli occhi. Bellissimo e terribile!

  4. E’ significativo l’accostamento di “licenziamento” e “fucilazione”, con essi si ottiene un risultato simile: quello di togliere la vita e il lavoro, che condiziona la vita. A queste fucilazioni partecipano non solo i responsabili degli uffici ma anche i colleghi, diventati ex. “Mors tua, vita mea.” Ve lo immaginate un Direttore Generale dirvi una frase del genere? E’ successo, credetemi. Questa metafora può valere per gli amori finiti, per le amicizie spezzate e per l’abbandono dei figli. Non lasciano traccia sulla nostra pelle ma sono letali e tragici.
    Brava Giovanna.
    Emanuele

  5. Bellissimo. Impressionante e visionario, con una densità di linguaggio incredibile. Su tutto, quell’immagine della felicità che aspetta e svolazza travestita da fatina. Complimenti!

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.