Premio Racconti nella Rete 2014 “Al Calar del Tramonto” di Emanuele Pieroni
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Tre quarti d’ora, forse meno, all’arrivo del mio treno.
Sono agitato, le gambe tremano sotto questa lettera: per la prima volta lascio la mia città, con la consapevolezza che mai più ci metterò piede. Lascio tutto e tutti dietro le spalle, parto per un lungo viaggio, senza voltarmi. Scelte radicali come questa non si prendono da un giorno all’altro, si lasciano come ultima alternativa, si cercano soluzioni diverse e di norma finisce, sempre, che non si prendono più.
Io ho dovuto guardare in faccia la realtà: qui per me non c’è più nulla, e, quando le cose stanno così, cari amici, è giunta l’ora di cambiare aria. Nella mia vita ho conosciuto tante persone che conducono un’esistenza che non gli piace, che non sentono propria; la vivono in costrizione, tuttavia non fanno nulla per cambiarla. Non voglio fare il moralista, li capisco, so bene perché non lo fanno, in fondo è una condizione che ho provato anche io, a lungo, sulla mia pelle.
Sono afflitti da un morbo invisibile, che quotidianamente si insinua, scava, infine penetra: rende apatici, inermi, permette una tacita accettazione dell’infelicità della propria esistenza, come se fosse normale, inibisce qualsiasi recondita velleità rivoluzionaria dell’animo: è il morbo della rassegnazione. Si radica maligno, nel profondo, pesante come un macigno, stringe come una morsa, contro la quale io stesso ho dovuto combattere a lungo, prima di poter finalmente vincere, liberami da questa oppressione.
E no, la mia non è codardia, partire non è un fuggire dai problemi, anzi, proprio perché prima li ho affrontati, ho guardato in faccia le mie paure, solo allora, solo in quel momento, ho capito cosa avrei dovuto fare. No amici, siete voi i codardi, se fuggite dai vostri turbamenti, dai fantasmi della tristezza, dal grigiore delle vostre ordinarie vite che detestate, per tutta risposta semplicemente vi voltate altrove. Se vi nascondete sotto mari di superfluo, fiumi d’ipocrisie, se restate qui, a vedere passare inesorabile il vostro tempo, senza darvi alcuna pena, senza mai prendervi le responsabilità e gli oneri che comportano un cambiamento.
Oggi io, finalmente, vi saluto, senza rimpianti. Dico addio a tutte le mie ombre, prendo il treno e parto, volo verso un luogo per me magico, dove da tanto, troppo tempo ormai, voglio tornare: lì c’è una scogliera ad attendermi, maestosa, imponente, antica come il mondo, e si affaccia sul mare. Lì, al calar del tramonto, si possono ammirare i pescatori gettare le reti nelle acque turchesi, sfumate dal roseo riflesso del cielo, dove dei gabbiani solitari tutte le sere intonano i loro canti d’amore, prima che le ultime sfumature dorate del crepuscolo si accingano a lasciar spazio alle notti stellate.
Sono venuto in stazione con buon anticipo, di proposito, rispetto all’orario del mio treno. Ho pensato a lungo se fosse meglio scrivere questa lettera da casa, ponderarla con calma, rileggerla e rileggerla ancora: poi ho concluso che le migliori parole, le più sincere, scaturiscono solo quando si prova la vivida sensazione che, se non le fai uscire in quel momento dal tuo cuore, allora non usciranno più. Ora che il tempo stringe e il mio treno si avvicina, ritengo di aver fatto la scelta giusta: sento l’emozione della partenza crescere intensa dentro di me, mi rendo conto che da questa panchina, davanti a binari vuoti, non riuscirò a lasciarvi un poema. Penso sia meglio così: ho paura che dovrete accontentarvi di poche parole, ma sincere.
A voi, miei cari genitori, piccole austere formiche borghesi, ignavi che altro non siete, vissuti sempre nell’illusione e nella speranza di avere una parvenza di importanza sociale, attenti solo a come apparivate al cospetto degli occhi del vostro piccolo mondo esterno, mai una sola volta intenti ad accorgervi di ciò che avveniva sotto i vostri. A voi, insensibili ai sentimenti di vostro figlio, alle sue turbe, ai suoi bisogni lasciati volontariamente inascoltati, nel silenzio della vostra indifferenza, troppo spesso bagnati da lacrime amare, mai una volta asciugate. A voi, custodi di scheletri sepolti in ogni armadio della vostra vita, io me ne vado, vi libero. Vi libero dal peso di sopportare un figlio che mai avete capito, che mai vi siete solo sforzati di capire: vi sollevo una volta per tutte dagli imbarazzi che vi ho procurato, dagli amari sorrisi di circostanza rifilati ai vostri amici, mentre cercavate patetiche giustificazioni per i miei fallimenti. Vi ringrazio per tutto l’amore che non mi avete mai mostrato, per avermi insegnato che il non riuscire equivale solo ad un deprecabile fallire, che non importa che persona sei, tanto è solo ciò che fai nella vita che ti qualifica. Vi auguro di cuore che le vostre bare siano le più sfarzose, adornate dei fiori più rigogliosi, sepolte in cripte marmoree come mausolei, che possano fare invidia a tutti i vostri dirimpettai al cimitero.
Ai miei pochi ed unici amici, le mie più grandi delusioni, una dedica: vi è stato facile essere spesso presenti, stare tutti uniti in momenti di piacevole compagnia, senza impegni, senza pensieri. Vi è diventato un tantino più complicato fare la stessa, identica cosa, quando per qualcuno la vita è andata a rotoli, quando uno di voi è sprofondato in un vortice di disperazione, un oceano oscuro di tristezza senza fine. Sì, sapete bene a cosa mi riferisco: quando la mia Cati è morta, i primi giorni, siete stati davvero prodighi di buoni consigli, pacche sulle spalle e notevoli frasi di circostanza, perfino promesse solenni, questo ve lo devo riconoscere. Poi, però, in breve tempo, siete diventati campioni olimpionici nel non farvi mai trovare, nello sparire. Forse lo sciocco sono stato io, forse mi ero illuso troppo, ma davvero credevo, speravo, che mi avreste potuto aiutare a uscirne almeno un po’, o almeno contavo sul fatto che qualcuno di voi ci avrebbe quantomeno provato di cuore. Ora, se ho fatto le valigie, è soprattutto grazie a voi, che eravate l’ultima cosa che credevo mi restasse in questa triste città. Mi sbagliavo. In fondo comunque posso capirvi, non riesco a non odiarvi, tuttavia posso capirvi: chi mai avrebbe voglia di passare anche solo poco tempo con un infelice depresso, a cui è venuta a mancare la persona più cara che aveva? Per voi deve essere stata una situazione triste in cui trovarsi, lo immagino… e poi i figli, le mogli, il lavoro, il tempo che è sempre così poco; lo so, lo so. Vi invidio, deve essere bello avere ancora intatte le vostre piccole certezze quotidiane, sopratutto vivere nella totale incapacità di rendersi conto che possono venire a mancare in un battere di ciglia. A voi auguro solo che questa grande illusione possa durare in eterno.
Temo di essere stato fin troppo prolisso, il mio treno sta per arrivare. L’ultimo pensiero va ovviamente a te, Cati, è per te, mia dolce amata: tutte le notti da quando te ne sei andata così bruscamente, da quando ti hanno strappata troppo presto al mondo, al nostro mondo, ho sognato di avere la possibilità di dirti tutto quel che non ti avevo mai detto, ma nel sogno non trovavo le parole, il modo di farti capire quanto forte, quanto importante fosse per me tutto quello che mi hai dato, quanto tu sia stata il centro del mio universo: non ci riuscivo perché avevo poco tempo, così poco tempo, dovevo assolutamente metterti in guardia.
Nel mio sogno ricorrente siamo seduti sulla scogliera, sotto la punta del molo, proprio lì dove da ragazzi andavamo a guardare le barche dei pescatori abbassare le reti, al calar del tramonto, e ci chiedevamo cosa mai avrebbero tirato su la mattina seguente.
Ogni notte tu sei lì, accanto a me, le tue lunghe gambe appoggiate sopra le mie, mi stringi forte una mano e contempliamo il mare, mentre il pallido sole arancione del tramonto riflette i suoi ultimi raggi e fa baluginare la superficie dell’acqua. Il tuo viso è ancora quello della dolce ragazzina che avevo conosciuto tanto tempo prima: i tuoi occhi verdi smeraldo brillano nei riflessi porpora del cielo e argentati del mare, guardano dritti nei miei con aria speranzosa, luminosi e sognanti. Sento che vuoi chiedermi qualcosa, schiudi le labbra per parlare ma ti interrompo, poggiandoti in fretta e furia un dito sulla bocca, mi agito, le gambe mi tremano, sento, so che c’è qualcosa che devo dirti e so anche che mi resta poco tempo, ma non so perché!
Ti lascio la mano e inizio a scuoterti per le spalle e mi sento quasi urlare in preda al panico: «Ascoltami, non devi andare! Non devi andare…» E mi sveglio, sempre in quel punto del sogno, tutte le notti, con il cuore che batte all’impazzata nel petto, con ancora le parole che ti stavo urlando strozzate nella gola, secca e annodata. Ci impiego diversi secondi a realizzare che ormai non ci sei più: mi sento stringere lo stomaco e gli occhi pulsano, si gonfiano di lacrime… poi impazzisco, fremo di rabbia furente e cieca, perché ti ho avuto di nuovo davanti, di nuovo viva davanti a me e non sono riuscito a dirti altro che poche, confuse parole, così prive di senso, mentre avrei dovuto solo abbracciarti, stringerti forte, farti capire in ogni modo quanto ti ho amata.
– Attenzione. Treno EuroStar Alta Velocità proveniente da Milano Centrale e diretto a Bari Centrale in transito al binario due. Si pregano i signori viaggiatori di allontanarsi dalla linea gialla. –
Non importa, il mio treno è in arrivo, devo andare, ho pochissimo tempo. Questione di un istante e poi saremo di nuovo lì, insieme, su quella scogliera, ad ammirare il mare luccicare e brillare, per poi diventare blu scuro col calar del sole.
Amore mio, ora finalmente non dovrò interromperti come nel mio sogno, non dovrò lasciarti la mano; avrò tutto il tempo per esprimerti il mio amore, per ringraziarti di avermi illuminato la vita con la tua gioia, per avermi reso così fortunato, per aver scelto proprio me.
E vedremo le barche dei pescatori sollevare le reti al mattino. Avremo tutto il tempo del mondo.
Un uomo scrive la lettera d’addio alla sua famiglia e alla comunità, con essa urla la sua rabbia ai genitori per non essere stato incoraggiato e rimprovera gli amici di averlo abbandonato al di là della professata voglia di vicinanza per la sofferenza della morte di Cati, la sua donna. Dal testo traspare la rabbia e la delusione come oggetti pesanti e si sente l’amore per Cati. Gesti di tenerezza e di dedizioni; bellissime le marine. L’uomo parte con il treno e gusta l’incontro con la sua donna. Belle pagine di sentimento.Auguri Emanuele da Emanuele.