Premio Racconti nella Rete 2014 “La Casa Bella” di Luigi Lazzaro
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014La vecchia villa di famiglia è là ad attendermi, fedele, dopo tanti anni, amica di molte estati della mia infanzia, ostinatamente abbarbicata sul poggio tra la vallata del lago Trasimeno e le dolci colline toscane: un’anziana signora che porta con dignitosa compostezza i segni del tempo; il giardino è ormai quasi completamente rinselvatichito, nonostante le inutili fatiche di Zaccaria, il vecchio giardiniere.
L’auto valica l’ampio cancello da cui nascono i due viali bianchi delimitati da antichi cipressi, che salgono rispettivamente verso destra e verso sinistra, semicerchi ghiaiosi che abbracciano la scalinata centrale e conducono al corpo principale della palazzina.
Il crocchiare degli pneumatici sul ghiaino mi riporta all’infanzia, quando quella per me era la “Casa Bella”, il luogo incantato al quale per una sorta di eterna magia tornavamo ogni estate, sia che il lavoro di papà ci avesse portati in Africa, in America o chissà dove.
La Casa Bella, il luogo in cui vedevo mamma smarrire quell’aria malinconica che segna lo sguardo di molte donne scandinave, mentre mio padre, sempre in preda allo sconfinato senso di colpa derivante dalle sue frequenti assenze, dedicava alla famiglia, e a me in particolare, un’attenzione che mi riempiva di una lancinante felicità.
Fu proprio nella Casa Bella che mia madre morì.
Se la portò via a trentaquattro anni una leucemia fulminante.
Alcune macchie scure sulla gola un sabato di luglio e, da lì in poi una repentina discesa verso la fine. Nel giro di poche ore le macchie salirono al viso, gli occhi e la bocca si fecero tumefatti.
Ricordo la confusione delle prime ore, quando il vecchio medico del paese imputava il malessere di mamma a uno shock anafilattico, forse provocato dalla puntura di qualche insetto. Man mano che la situazione degradava, vedevo mio padre tormentarsi le mani in un gesto di profonda inquietudine, le nocche delle dita si facevano bianco-violacee, il respiro frequente e leggero.
Titoccio, il fattore factotum, cercava di tenere impegnati la donna di servizio e il giardiniere, ormai convinti che il sangue della Signora si fosse rivuticato, invertendo la direzione del circolo.
Al tramonto, finalmente arrivò da Perugia il Professor Radico, ematologo, vecchio amico di famiglia, rintracciato nella sua casa di campagna dal maresciallo dei carabinieri di Castiglione.
Ricordo l’espressione seria del medico quando entrò nella stanza di mamma e mi chiese con tenerezza di attendere in corridoio.
Mentre la porta si richiudeva dietro di me, avvertii la voce di mia madre, una voce dolorante, un sibilo di carta vetrata: – Carlo, ti prego, salvami, non lasciarmi morire, fallo per la bambina!
In quel momento, istintivamente, spontaneamente, un’ingenua preghiera si alzò dal profondo del mio animo, pregai Gesù e la Madonnina di non far morire mia madre, di lasciarmela. Sarei stata per sempre una bambina ubbidiente e avrei recitato le preghiere tutte le sere, insieme alla mamma.
Fu quella notte che persi la fede.
Quando il dottore uscì dalla stanza, chiamò l’ospedale chiedendo l’invio immediato di un’ambulanza, poi disse a papà: – Fatti coraggio, è nelle mani del Signore.
Quando sentii questa frase, fui certa che mamma si sarebbe salvata. Pensai “Il Signore non vorrà certamente togliere la mamma a una bambina piccola come me.”
Mentre la portavano via, mamma mi tese la mano, chiamandomi: – Orsa, piccina mia.
La sua voce era divenuta un orribile rantolo, le macchie ematiche s’erano allargate sul viso gonfio, già cadaverico, i suoi occhi macchiati di sangue mi trafiggevano… Quella non era più la mia mamma.
Impietrita, spaventata, confusa, non mi avvicinai.
Mentre la caricavano sull’ambulanza, dentro di me urlavo “Non guardarmi! Ti prego, non guardarmi!”
Dopo poche ore, papà la ricondusse a casa, mia madre voleva morire nella Casa Bella.
Quella notte, mentre la luna guardava immemore e indifferente nella mia stanza, sentivo i suoni sordi, le voci sussurrate che da sempre accompagnano le nascite e le morti.
Mamma se ne andò all’ora del lupo, l’ora in cui la notte si confonde con il giorno e gli incubi con la realtà. Era una domenica estiva dal cielo di un indaco spietatamente terso.
Avevo sette anni.
Mio padre mi svegliò dolcemente e, anche se confusa dall’insolito risveglio, capii subito che mamma non c’era più, intuii che qualcosa era cambiato per sempre, avevo perso l’innocenza delle favole, la purezza dell’immortalità: “…e vissero per sempre felici e contenti nella Casa Bella”.
La vita, quella vera, mi era rovinata addosso, strappandomi quello che avevo di più caro.
Papà, gli occhi stravolti dal dolore, colmi di lacrime, s’inginocchiò accanto al mio lettino, chinò il suo capo accanto al mio, abbracciandomi forte: – Orsa – disse – Abbiamo perso la mamma.
Non disse altro… non disse: “mamma non c’è più”; non disse: “mamma è morta”; non disse neanche: “mamma è volata in cielo”.
No …soltanto “l’abbiamo persa”.
Disperata assenza; infinito smarrimento; insostenibile malinconia.
Quante volte, dopo quella notte, mi son chiesta: è possibile che tanto cocente dolore, tante lacrime, tanto amore, siano inutili? Possibile che non abbiano il potere di smuovere neanche di un soffio il corso di una natura indifferente?
Tanti anni son passati, ora sono una donna, ma la risposta non è mai giunta e a volte desidero ardentemente credere in dio.
Per avere la consolazione di maledirlo.
Il ricordo della morte della mamma porta “infinito smarrimento, insostenibile malinconia”; è un fatto che occuperà tutta la vita di una donna a partire dall’età di sette anni. La scrittura è efficace e rende visibili il dramma della bimba e le sue conseguenze.
Emanuele.
Straziante e pieno di rabbia amara. Non c’è mai un perché alla perdita di chi amiamo.
Angela
@Emanuele, @ Angela
Grazie mille per i vostri lusinghieri commenti !