Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nela Rete 2014 “Il cuore quella notte” di Tiziana Martini

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

Di notte. Questo silenzio, questo buio, mi fanno paura. Il beep dell’elettrocardiogramma nei primi giorni di degenza mi ha tenuto compagnia. Non lo sento più. Certe volte, soprattutto di notte, quando non c’è traccia di anima viva in corridoio, penso di essere morta. Così mi sforzo, mi sforzo di sentire se quel beep c’è ancora. C’è. E quando lo sento rimbombare tra queste pareti di cemento e di vetro rido di me. Sento. La vita, sento. Comincio a pensare che forse è il caso di mollare, che non vale la pena lottare. Se la fai finita, mi dico, riduci la sofferenza di tua mamma. Perché a vedermi in questo stato, non si rassegnerà mai. Tanto morirò comunque. E se non muoio io, muore mamma di crepacuore. Sono quindici giorni che si alza alle cinque del mattino, prende un autobus e poi un treno e ancora un autobus per venirmi a trovare. Non la lasciano entrare. Può solo guardarmi dal vetro. Non è che non la lascino entrare proprio. Potrebbe. Solo per un’ora al giorno. Non più di una persona al giorno. Mamma non è mai entrata in camera mia. Forse perché le sembra un’ingiustizia vedermi solo dalle quattro alle cinque del pomeriggio. Forse perché toccarmi, significherebbe accettare che sono proprio io. Che sono proprio in coma. Coma. Mi fa paura pronunciare questa parola. Meglio tornare a pensare a mamma. È molto stanca, ha detto ai medici, parlando di me. Se qualcuno la disturba quando dorme, si sveglia incazzata. Fate piano quando entrate in camera, mi raccomando. Io voglio che si svegli col sorriso, ha aggiunto, che si svegli cantando. Mi vede bella attraverso il vetro. Mamma. E piange. Oggi ho sentito il suo sguardo poggiarsi per un istante sulla mia pelle nuda. Mi ha implorato di tornare da lei. Mi ha detto che vuole riabbracciarmi, fosse anche per l’ultima volta. L’ho abbracciata. Ma lei non lo sa. Sento. La vita sento. È la prima volta che vedo mamma piangere. Forse perché ho gli occhi chiusi. Le palpebre pesano. Non l’ho mai vista piangere. Mamma. Quando ero piccola pensavo che le mamme non piangessero mai, perché sono mamme. Perché sono grandi. Ora che sto per diventare mamma anche io ho capito che le mamme piangono. Ma lo fanno in silenzio. Lontano da occhi indiscreti. Perché sono mamme. Perché sono grandi. Ecco perché ancora non ho versato una lacrima bambino mio. Perché da te ancora non posso nascondermi. Perché tu sei dentro di me. Mamma oggi ha versato qualche lacrima. Ha poggiato la testa e una mano al vetro. È convinta che io non la veda. Ha un cuore grande mamma. L’ho sempre saputo, ma non sono mai riuscita a dirle che lo sapevo. E forse non riuscirò a dirglielo mai. Mi sento in colpa. Ho sempre creduto che lei fosse immortale e immune da qualsiasi problema, da qualsiasi malattia. Perché è mamma. Se la sa cavare benissimo da sola. Mamma. Con questa menzogna nel cuore, non le sono stata accanto. Non troppo tempo fa. Aveva bisogno di me e io avevo bisogno che lei mi capisse, che si rendesse conto che non potevo starle accanto. Prima di lei c’erano il mio lavoro, i miei problemi, la mia vita. Io. Si è resa conto. Mamma. È bella mamma. Malgrado il suo nome. Le ho sempre detto che avrebbe dovuto denunciare i genitori. Pasqua. Ma come gli è venuto in mente? Sei pure nata ad agosto. Ma tu c’hai sempre riso su. Sei bella quando ridi. Spero che il tuo viso torni a brillare presto. Anche se io non lo potrò più vederlo. Forse. So che ti chiedo troppo. Ma se dovessi morire voglio che tu torni a sorridere. Dopo un po’ però. Mamma.

Ho perso il senso della realtà. Non so più quando è giorno e quando è notte. Quando è ora di cenare e quando di pranzare. Qui il tempo non passa mai. Ogni istante è uguale a sé stesso e si ripete all’infinito. E io non sono abituata a stare ferma a fare nulla. Lo sai. Devi staccare un po’ la spina. Mi ripetevi sempre. Non puoi continuare a lavorare. Lavorare. Lavorare soltanto. Mi sono fermata. Sei contento? Ma ho sbagliato qualcosa visto che mi trovo incatenata al letto di una sala intensiva. O magari sono la solita ingrata. Era questa l’unica maniera per farmi riposare e io sto sottovalutando. Perché non sono stata educata al riposo. E invece di staccarla la spina, l’ho attaccata a me sotto forma di respiratore. Mi tiene in vita. Non era di certo questa la vita che di cui mi parlavi, vero? Amore mio. Andrea. Che palle. Che palle, mi piaceva dirti ogni volta che provavi a darmi un consiglio. A comunicarmi un tuo pensiero stando attento a che le parole non risultassero un’imposizione. Hai sempre fatto di tutto per non farmi incazzare. E invece ci riuscivi sempre. Con una facilità impressionante. E non dire che sono semplicemente io troppo irritabile. Rido. Ultimamente hai smesso persino di rispondermi quando per una cazzata –  preciso; che tu consideri una cazzata – io vado su tutte le furie. Cinque minuti di panico; di un flusso di parole a mitraglia. E tu aspetti che il tempo decorra. Tutto in cinque minuti. E come l’arcobaleno dopo un temporale, arrivava puntuale il mio sorriso. “Sei i miei cinque minuti” hai fatto incidere su un cuore d’argento. Lo hai disegnato apposta per me e lo hai fatto realizzare. È stato il primo regalo. Anzi. Il primo regalo decente. Perché diciamoci la verità. Sei negato a fare i regali. E non dire che sono una stronza. Vogliamo parlare della sciarpa e dello zuccotto beige che mi hai regalato il primo Natale? Ho provato a dirti che era bellissimo. Non c’hai creduto neanche un istante. Ma cavolo; anche tu. Sei andato a beccare l’unico colore che detesto e che non indosserei mai. Il beige. Rido. L’espressione che hai, mentre guardi l’orologio in attesa che i cinque minuti passino, è la stessa che avevi mentre, in bagno, in silenzio, con lo sguardo mio dentro il tuo, aspettavamo che il test ci dicesse. Ci dicesse ciò che speravamo. E ci siamo abbracciati, senza una parola, tra riso e pianto, quando il tubicino si è illuminato di verde. Il nostro sogno è diventato realtà in quel momento. Ma perché assumesse una forma umana, quella di un bambino, del nostro bambino, dovevamo aspettare un po’. Nove mesi. Anzi meno. Sei diventato più premuroso del solito da quel giorno. Non mi hai più permesso di fare nottate folli davanti al computer, pulizie di Pasqua a ferragosto, anche la spesa era uno sforzo inutile. E io mi sentivo felice. Protetta. Sarai un ottimo padre. E io proverò a essere una brava madre. Sei presente in ogni attimo della mia vita, da quando ti conosco. Ma con discrezione, come dici tu. Quante volte ti ho detto che non voglio che mi stai addosso. Non voglio che tu sia appiccicoso. Più lontani siamo e meglio stiamo. Così è una festa ogni volta che ci vediamo. Ma tu ci sei. Sempre. E ci sei anche adesso. Dall’altra parte del vetro. Nella stanza adiacente la mia. Ma non mi parli. Anche tu sei attaccato a un fottutissimo respiratore. Cazzo, amore. Perché? Perché hai preso la moto? La strada era bagnata. Quindici giorni fa. Per una volta che avevo deciso di dedicarti una serata, di spegnere il cellulare, di cenare con te. Che bel casino che ho combinato. Ho sentito due infermiere parlare. Biascicavano di destino, di amore, di fatalità, di sfiga. Perché ci siamo schiantati tutti e due. Contro la vita. A poca distanza dal ristorante cui avevo riservato un tavolo. A poca distanza l’uno dall’altra. A pochi minuti di distanza l’uno dall’altra. Tu lo hai fatto per conto tuo. Io per conto mio. Cazzo amore. Quante volte ti ho detto che dovresti smetterla di fare quello che faccio io, solo per farmi contenta? Perché? Mi senti? Rispondimi ti prego. Come stai? Stavolta non sono contenta. Sono incazzata a morte con te. Vorrei gridare. Vorrei piangere. Ma non posso. Non voglio che nostro figlio mi senta. Mi veda. Piangere. Perché hai preso la moto? La strada era bagnata.

Quelle infermiere hanno parlato di famiglia distrutta. Io dico che siamo fortunati. Il nostro bambino è sano e salvo. Mamma sicuramente parla di miracolo. E io e te siamo vivi. Cioè mezzi vivi. Volevo parlarci con quelle infermiere. Dire che si sbagliavano. Che siamo semplicemente una famiglia unita, noi. E che non ci poteva capitare cosa più bella e romantica. Avrei voluto muovere un dito. Se fossi stata su di un set cinematografico l’avrei mosso, loro avrebbero chiamato il medico e io mi sarei risvegliata. E invece sono ancora qui. Immobile.

Mentre mamma piangeva oggi, ho capito che avrebbe voluto strapparsi il cuore dal petto per darlo a me. Mi ha dato la vita già una volta. E questo basta. Non deve sentirsi in obbligo di darmela nuovamente. Il mondo ha più bisogno di una donna come lei, che di una come me. Lo so. Non ti piacciono questi discorsi. E allora ti dico che sono sicura che me lo avrebbe regalato il suo cuore mamma. Ma è diabetica. I medici dicono che ci sono poche speranze che io mi salvi. Ho il cuore debole. Lo sapevamo. Abbiamo riso tanto quando il medico ci ha detto che avevo il cuore debole. Io un cuore di pietra, un sergente di ferro. Io, egoista ed egocentrica, che basta a sé stessa, che non ha bisogno di nessuno, con un cuore molle come il pandispagna nel caffélatte. Rido. Avrei bisogno di un cuore nuovo. Anche io ho bisogno.

È notte, come sempre, stanotte. Sento nuovamente il beep dell’encefalogramma. Lo sento perché ha iniziato a scandire diversamente il battito del mio cuore. Sta rallentando. Sto morendo. Sono morta. Il beep è continuo, persistente, un segnale chiaro. All’improvviso sono circondata da gente che si muove frenetica, che mi sballotta come se fossi il loro giocattolo. Defibrillatore, grida un uomo in camice bianco. Poi vedo nero. Un vortice. Il mio corpo si muove con lo stesso moto delle pale di un elicottero che sta per decollare. Verso dove?

Sento. La vita sento. Ho un cuore nuovo. Il tuo. Cazzo amore. Allora è vero che tu fai in modo che io creda di decidere, ma sei tu a farlo per tutti e due. Sempre. Ma cazzo. Sei un prepotente. L’unico modo che avevo di salvarmi era un cuore nuovo. E tu hai deciso di arrenderti alla vita in quell’istante. Mentre il defibrillatore scuoteva il mio corpo. Mi diceva resisti.

Hai ricominciato a vivere da me. Con me. Con il tuo bambino. Quello che mamma ha appena appoggiato al mio seno. Sento. La vita, sento. Mio Dio quanto è piccolo. Ha bisogno di me. Vorrei abbracciare nostro figlio. Le forze mi mancano. Lui piange. Non ce la faccio, amore. Aiutami, ti prego. Tu che mi hai donato la vita, dammi anche la forza di sopravvivere. Muovo il dito. Proprio come succede nei film. Nostro figlio smette di piangere e mamma corre a chiamare l’infermiera. Non so se sono fuori pericolo. La parola coma non mi fa più paura. Perché solo guardandola in faccia puoi combatterla la paura. Tu lo dicevi sempre. E io non ho nessuna voglia di perdere. Perché sono competitiva. Terribilmente. Perché lo devo a nostro figlio. Perché lo devo a te. Amore. Perché il tuo sacrificio non risulti vano. Mi sforzo. Lentamente le palpebre si aprono. Sento. La vita sento.

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2 commenti »

  1. Tiziana arrivi dritta come una spada. E fai anche male. Drammaticità piena e penetrante. Brava!

  2. Angosciante, coinvolgente, emozionante. Mi ha toccato.
    Angela

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