Premio Racconti nella Rete 2014 “Ruggine” di Alberto Vailati
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Romeo stava vangando oramai da più di tre ore, ininterrottamente colpiva mansueto il terreno arido, senza quasi pensare; il giorno precedente, con l’aiuto del trattore a cingoli e dell’aratro, aveva dato una prima sferzata all’appezzamento, ma adesso doveva sistemare le zolle a modo suo. Era meticoloso, puntuale e soprattutto instancabile; quella era la sua natura e quelle le sue radici, basse, potenti e ben impiantate. Sessant’anni appena compiuti, testardo come solo gli uomini di paese sanno essere, stava osservando il sole quasi a picco, segnale dell’approssimarsi del mezzogiorno; si asciugò mollemente la fronte gocciante, impregnando i peli del braccio e il risvolto svogliato della camicia, sputò un poco di catarro raggrumato e, zappa in spalla, si avviò verso casa.
Abitava solo da più di dieci anni, in un casolare color mattone, sul finire di un paesucolo collinare di mille anime: sua moglie Agata, compagna e amica da quando erano nati, se ne era andata in una torrida mattina di Agosto, non ancora cinquantenne, non ancora invecchiata, nel pieno delle forze e della coscienza, così a brutto muso, infarto del miocardio, accasciata d’un botto fra le piante di fagiolini verdi. L’aveva ritrovata proprio Romeo, preso fra le braccia l’esile corpo esanime, per correre all’ospedale. Tre chilometri, la donna adagiata sui sedili posteriori del fuoristrada ingombrante, e le lacrime che scolorivano la vista e bagnavano le guance, mentre scorrevano a rigoni fra le rughe del viso, di salto in salto, come cascate alpine, a fine corsa sul mento, collo, canotta sudata.
Sapeva che era già morta, ma continuava a parlarle, “ Dai Nì”, così la chiamava, “dai che siamo arrivati e passa tutto, solo un colpo di calore, è il troppo caldo, solo il caldo …”, nonostante il viso si fosse già gonfiato, annerito ed estraniato in un nuovo lineamento di sofferenza.
L’aveva persa in questo modo, dall’oggi al domani, senza nemmeno un fottuto preavviso, non so, un acciacco, un malanno, un dannato segno che gli permettesse almeno di ragionarci su, poter dedicare uno dei propri pensieri fatti a monoblocchi, all’amata.
Niente, le ultime parole fra loro erano state come sempre costruite sulle faccende quotidiane, sullo “sbrigati a tornare quando ti chiamo, che vien fredda”, con grugnito benevole di risposta: questo era il loro amore, unico amore pregnante, unico corpo sdoppiato nei mestieri da donna e le fatiche nei campi dell’uomo.
Eppure, una volta rimasto solo, era fin migliorato: l’uomo rude che non sparecchiava, non parlava al telefono ma comunicava, non si ricordava il compleanno dell’unica figlia, e ancor meno della nipote, non riusciva a digerire fino in fondo il genero impiegato incravattato dalle belle mani, era stato invece invaso e infine intriso da quanto mai aveva fatto né provato. La casa in ordine e ben pulita, la dispensa fornita, un calendario illustrato con annotate in pennarello le ricorrenze, e la maestria imparata a piene mani dalla moglie, di cucinare semplicemente, usando quanto coltivava.
E tutti i fine settimana voleva che la famiglia si riunisse, forse per un poco di compagnia, forse per rivedere in Sara, la figlia, le movenze signorili e l’eleganza dei modi della consorte, forse per trovare il conforto di un dialogo fra generazioni diverse, unite però dal vincolo parentale.
Era sabato, e verso sera sarebbero arrivati, Sara, Giulio e Beatrice, filiforme ragazzina oramai prossima alla maggiore età; per anni Bea aveva adorato scorrazzare libera nella tenuta del nonno, controllare gli alberi da frutta, la legna accatastata ad asciugare per l’inverno, le botti di mosto per preparare il vino; osservare le stagioni rincorrersi e sfuggire per alcune ore dagli impegni e dai ritmi soffocanti che la città esala. Ricordava, impressa forte nella memoria, il tempo della vendemmia, giorni frenetici in cui, a bordo del trattorino, armata di guanti e cesoie, ammucchiava violacei e polverosi grappoli in tini plastici che parevano mai riempirsi; i lunghi filari, il caldo umido e il refrigerio della brezza serale, mentre si chiacchierava su panche in legno, cullati dal canto dei grilli.
La zuppa sul fuoco si stava facendo spessa e cominciava a bollire; questa volta l’aveva preparata con pane e ortaggi di stagione: bisognava tagliare a fettine la mollica, scottarle sulla piastra del forno fino alla doratura (e una volta fatto, adorava stillare poche gocce del suo olio corposo per insaporire), e poi adagiarle in un coccio e ricoprirle di rape e patate precedentemente cotte a vapore. Brodo di carne, toma stagionata e via sul fornello, ricordandosi di rimestare ogni tanto.
Quando cucinava si sentiva felice, riusciva per alcuni istanti a bloccare il tempo, anzi a farlo scorrere a ritroso. Si erano realmente amati, un amore incondizionato difficile da incontrare: non esistevano momenti in cui avessero dubitato l’uno dell’altra, non esistevano pentimenti o penitenza.
Abbassò il fuoco e incominciò ad apparecchiare: il vecchio tavolo in legno di ciliegio fu ricoperto da una tovaglia di cotone grezzo, ocra e caffelatte, fino a nascondere le gambe tornite, e poi uno dopo l’altro, accostati a modo suo, i posti assegnati, in fianco a Sara e di fronte a Bea.
Sentì l’acciottolio della ghiaia pestata e il rumore grasso del motore diesel del Suv di Giulio e si fece incontro: come sempre scesero che stavano ancora discutendo, la ragazza acida e nervosa, sua figlia noncurante sorridente e l’inetto narciso con un bel “ciao pà” stampato in gola.
Ci sono alcuni momenti della vita in cui, tuo malgrado, pur sentendoti in pace, ti accorgi di quanto sia in realtà un equilibrio precario: le conversazioni, gli sguardi, le attese nei confronti del prossimo, sono surreali da quanto impagliati e privi di sentimento. E’ un continuo rimpallo nella palestra del niente, di modi misurati ed educati e dell’assorbimento immediato del pur minimo conflitto; nessuna statuina del presepe deve essere spostata né spolverata, la nenia del mulino muschiato che risuona e l’intermittenza rassicurante a cadenzare il ritmo quotidiano. Tutto con il proprio, costante e immutabile ruolo. E ogni cosa funziona perfettamente fino a che non c’è un black-out, un’interruzione improvvisa che ti spinge al di fuori del quadro: e se incominci a osservare, se inizi a estraniarti dal potente meccanismo che tutto vuole e può assorbire, forti dubbi e perplessità ti stanno per assalire, e come la neve colpita da un improvviso Fohn caldo e secco, stai per iniziare a scioglierti.
Questa volta era stato estratto il nome di Giulio: poco più che ventenne, innamorato fradicio, aveva sposato Sara, convinto della scelta, convinto che in amore, quando si presenta l’occasione giusta, non si debba tirare indietro la mano. Pochi anni dopo, la felicità di divenire padre, la soddisfazione di far carriera, promozioni continue nella società informatica che si stava espandendo. Per svariato tempo era rimasto inglobato nella gigantesca bolla della sua prospera esistenza: ufficio, casa, alcune uscite con gli amici, l’appagante rapporto con Sara e con la bimba che, sgambettando, imparava a crescere, lunedì dopo lunedì, weekend dopo weekend, anno dopo anno.
All’alba dei suoi quarantun anni, seduto di fronte alla moglie, si era soffermato a osservare, forse un poco stizzito dalla solita indifferenza del suocero ed era rimasto stordito da un seghettato senso di non appartenenza.
Sua figlia, scazzata, perennemente connessa ai social network e Romeo e Sara, in continuo chiacchiericcio; fissò ripetutamente le due bocche mentre risucchiavano la zuppa, quel modo di appoggiare il cucchiaio alle labbra e il cadenzato movimento per deglutire. Li vedeva identici e per un attimo, fu quasi disgustato dall’impressione di baciare nuovamente quel viso così spiaccicato al consanguineo; non c’era un motivo preciso, ma in testa gli girava solamente una sciagurata e scostante elucubrazione: fuggire.
Scosso dalla coscienza che debordava e lo provocava, mancò un boccone, rovesciandosi un poco di minestra sulla camicia bianca; sentì gli sguardi addosso e il biasimo che ne derivava. Un poco trafelato e sicuramente pallido in volto, arrancò fino al bagno.
Si specchiò e lavò vorace il viso, sperando probabilmente di riuscire a distaccare anche la crudezza che lo aveva pervaso.
Ma il seme della discordia si era impiantato e adesso, si doveva solo attendere che bucasse il terreno, tenero germoglio dalla prodigiosa e incontrollabile proliferazione.
Giulio non stava bene, il recinto dei sentimenti si era troppo ristretto, non ci stava più dentro. E purtroppo, se ne era accorto tutto d’un tratto, così, come quando un giorno ti svegli e decidi che è ora di rinfrescare le pareti, che la cantina deve essere svuotata, che sei avvolto in una gigantesca ragnatela, tesa a obnubilare la tua volontà.
Era finalmente tornato a tavola, con una gigantesca macchia bagnata a stuprare la camicia, e in cuor suo avrebbe volentieri pisciato nella zuppiera, così, senza spiegazioni, per provocare e al contempo rilassarsi, quasi sdraiato su una nuvola a farsi beffe delle preoccupazioni umane.
Invece si scusò e quasi colpevole riprese a cenare. E godette nel tracannare un otre del vino di pà, per il gusto di sdraiarsi inebetito a letto per russare un paio d’ore e poi, sferzato dall’alcool, rimuginare tra camera e cucina, fintamente alla ricerca di acqua.
Si sentiva d’un tratto vivo, non capendo fino in fondo se fosse più una velleitaria protesta destinata a velocemente scemare, o una vera e propria sommossa del cuore, ma ciò che più contava, era lo spirito da cui era pervaso, la forza interiore, in pressione asmatica per non mollare.
Fino in fondo.
Era morto a venti anni, quando aveva scelto di seppellire la propria verve, la propria personalità per dedicarsi alle inconvertibile venerazione di quella longilinea, acculturata e felina creatura. Non che avesse sbagliato, Sara era una persona speciale e propriamente la sua perfetta compagna, simbioticamente allineata con i canoni emozionali che aveva sempre adorato.
Il giorno in cui l’aveva incontrata, ne era rimasto abbacinato: capelli castani fluenti all’essenza di violetta, lentiggini a sfarfallare fra candidi lineamenti, ciglia sensualmente folte a specchiarsi su occhi grigio azzurri, sempre spalancati e vispi. Una maglietta smeraldo, fina, sformata dai seni pieni e generosi e quelle lunghe dita magre, martoriate alle estremità dalla sua congenita insicurezza. Alta, da dover stare ritto per non sfigurare, e così bellamente vaporosa nei movimenti. Una polaroid da scattare, nascondere sotto la camicia per non farla sfocare, e muovere veloce perché si sviluppi al più presto, nitida, spigolosa e genuina.
Ma non puoi sputare addosso alla tua personalità, alla tua indole per appiattirti in un continua ricerca di soddisfare ciò che gli altri si aspettano da te. Essere l’uomo affidabile e corretto, il padre premuroso e presente, puntuale e terribilmente prevedibile. In una parola monotono, fantasma vagante con alcuni glitter nascosti sottopelle, ma comunque impalpabile.
Affondò la testa vagante sul guanciale, sentì corpo e anima disgiungersi, quasi a osservare la scena della propria vita dall’alto. Un poco di tepore lo avvolse, poteva tornare a sopirsi, sperando, invano, che la chimica del cervello lavasse via le sue ultime, intime, elucubrazioni.
Giulio e Romeo, dopo quella notte non si incontrarono più.
Scrivi benissimo. Hai una finezza sintattica e una ricchezza di lessico invidiabili.
Questo tuo racconto è colmo di bellissime immagini e riflessioni acute e profondamente vere.
Da leggere e rileggere.
Complimenti.
Grazie Mara, per l’attenzione e le belle parole!
Immagini nitide in un racconto malinconico e ben scritto. Il finale ci lascia con tante domande e con quel filo di “piacevole” amarezza. Bello!.
Grazie Laura per l’attenzione e l’apprezzamento.
Condivido pienamente quanto ha scritto Mara. “Innamorato fradicio”, “seghettato senso di non appartenenza”, “stuprare la camicia”: esempi di ricercatezza e stile originale. Sono felice di aver letto il tuo racconto.
Grazie Sara Maria, grazie mille, non sai che piacere mi fanno le tue parole!
La tua scrittura è piacevole e coinvolgente con belle espressioni da intendere come pennellate di colore forte per evidenziare i momenti forti. Giulio sembra il personaggio debole, per il suo trovarsi in crisi, ma è un personaggio fragile che si riscatta. Chi non si troverebbe in crisi quando s’accorge di non appartenere alla famiglia? Ci conduci in questi momenti, nascondendoci la tua simpatia, e ci dai la conclusione della vicenda con poche parole. Bello e meritevole, a mio giudizio, di figurare tra i venticinque racconti da premiare.
Emanuele.
Grazie Emanuele, è gratificante quanto mi dici, spero tu abbia ragione!