Premio Racconti nella Rete 2014 “Lacrime” di Carmen Laterza
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Mia madre morì quando io avevo 13 anni.
Dovrei avere molti ricordi di lei, e invece ne ho pochissimi, staccati l’uno dall’altro, senza continuità, come piccole oasi in un deserto di oblio.
Ricordo bene il suo sguardo, le mille espressioni dei suoi occhi; come quando mi guardava arrabbiata, o quando era intenta a contare i punti del suo lavoro all’uncinetto, oppure quando, seduta in cucina, corrucciava le sopracciglia infastidita dalle esclamazioni improvvise di mio padre, che nell’altra stanza esultava per un gol.
Ho in mente cose così: sguardi, dettagli, l’angolo della bocca che si piega in una smorfia, un sopracciglio che si alza, il gesto di massaggiarsi il collo con una mano, e l’espressione “eccoci qua”, che ripeteva senza neanche accorgersene ogni volta che finiva un lavoro.
Di episodi particolari o di giornate intere, invece, non ne ricordo.
Anche del giorno dell’incidente ricordo molto poco.
Era maggio, il mese preferito da mia madre, e io ero andata in bicicletta a casa di Anna.
Avevamo studiato e fatto i compiti; poi ci eravamo sedute sul muretto del cortile, a farci scaldare dal sole e a fantasticare su quello che avremmo fatto dopo gli esami di terza media, in quella che si preannunciava un’estate memorabile. Libere dai compiti, già quasi liceali, noi ci sentivamo invincibili.
Quando tornai a casa mi resi subito conto che era successo qualcosa, perché vidi molte macchine nel parcheggio e salendo per le scale incontrai due uomini in divisa. Pensai che forse erano venuti ad arrestare il signor Michelangelo dell’ultimo piano, perché spesso sbraitava contro la moglie e forse lei l’aveva denunciato.
Invece, quando arrivai al mio pianerottolo, lui stava lì, davanti alla porta aperta di casa mia, mentre sua moglie e altri condomini entravano e uscivano silenziosi, come formiche confuse.
Il cuore cominciò a battermi forte; rallentai gli ultimi passi, mi fermai sullo zerbino e mi tolsi lo zaino dalla spalla. Avevo paura, senza sapere di cosa, e avevo ancora più paura di scoprirlo.
– Irene! Ma dove eri finita? – zia Giuliana uscì urlando dalla cucina e mi abbracciò piangendo.
– Ero da Anna… – balbettai io confusa – la mamma lo sapeva…
Guardai zio Mario dietro di lei, cercando un chiarimento nei suoi occhi. Invano. Anche lui, che di solito era sempre allegro, taceva e mi guardava con aria cupa. Eppure, pensai, essere in ritardo per la cena non poteva essere un’azione così grave.
– Vieni, – riprese zia Giuliana – dobbiamo correre in ospedale!
Mi prese per mano e mi strattonò giù per le scale. Io non ebbi il coraggio di chiedere nulla, ma mi accorsi che tutti annuivano: se prima avevo sbagliato, ora stavo facendo la cosa giusta.
Lungo la strada zia Giuliana mi disse che mamma e papà avevano avuto un brutto incidente a pochi chilometri da casa, e io immaginai l’espressione corrucciata di mia madre, quando vedeva qualcosa di brutto. Invece non riuscivo proprio a immaginare mio padre che faceva un incidente, perché lui andava sempre piano in macchina e, anzi, quando io ero in ritardo e gli chiedevo di accelerare, lui mi rispondeva che non era colpa sua se ero in ritardo; così mi innervosivo e sbuffavo.
Zio Mario correva, passò due semafori col rosso, bofonchiò qualche improperio contro una vecchietta e si fermò davanti al pronto soccorso, con una brusca frenata.
– Voi entrate, – disse – io vado a parcheggiare e poi vi raggiungo.
Entrammo nel pronto soccorso; zia Giuliana parlò con un’infermiera e poco dopo un’altra ci disse di seguirla. A mano a mano che percorrevamo androni e corsie, i rumori e le voci del mondo esterno si allontanavano e svanivano, come se ci stessimo addentrando in una caverna. Alla fine l’infermiera si fermò e indicò la porta chiusa in fondo al corridoio.
– È lì – disse, poi si girò e tornò indietro.
Un cartello diceva inequivocabilmente “Terapia intensiva”, eppure io e zia Giuliana restammo ferme e disorientate. Eravamo arrivate nelle viscere del mostro, e l’unico rumore che si sentiva era quello della nostra paura.
Fui io ad aprire quella porta: una folata di aria calda ci accolse in un mondo fatto di cavi stesi ovunque, di passi silenziosi, di fredde luci al neon, di strumenti elettronici che pigolavano affamati di vita.
Sedute al bancone centrale, due infermiere tenevano d’occhio i monitor delle sei stanze che si affacciavano sull’atrio. Zia Giuliana si avvicinò e si presentò.
– Oh, finalmente! – disse l’infermiera a cui zia si era rivolta – Vi chiamo subito il dottore.
Il dottore era una donna minuta, con i polsi piccoli e le dita lunghe. Ci chiese se sapevamo già la dinamica dell’incidente. Io sapevo solo che i miei genitori quel pomeriggio erano andati in un negozio di mobili. Lei aggiunse tutto il resto.
Sulla strada del ritorno, mio padre era uscito da uno stop senza guardare e, da destra, un tir li aveva investiti in pieno.
Lui aveva riportato molte contusioni e un trauma cranico; non era in pericolo di vita, ma per sicurezza lo tenevano in coma farmacologico.
Mia madre, invece, era morta. Così, sul colpo.
“Non ce l’ha fatta.” disse semplicemente la dottoressa, come se mia madre avesse perso la corsa coi sacchi, o la gara di torte alla sagra della Madonna del Rosario.
Poi ci indicò la stanza dove si trovava mio padre, ma disse che non potevamo entrare. Allora restammo a guardarlo attraverso il vetro, intubato e incosciente, come un palombaro addormentato sul fondo di un acquario.
Mia madre, invece, non la vidi più.
Dissero che era meglio così, che vederla morta sarebbe stata un’immagine troppo forte per me, e che era meglio che me la ricordassi viva e sorridente. Forse avevano ragione, ma in compenso io restai con gli occhi aperti e sgranati per giorni, senza dormire, affinché tutto ciò che stava accadendo si imprimesse nella mia memoria. Se non avevo ricordi precisi di quando mia madre era viva, che almeno li avessi di quando era morta.
Ricordo tutte le persone che vennero a casa di zia Giuliana nei due giorni successivi: i vicini, che si fermavano poco, giusto il tempo di lasciare un piatto o un vassoio, i colleghi di lavoro di papà, che chiedevano notizie su di lui e poi non sapevano che dire, la nonna, che arrivò in treno con tutto il suo bagaglio di dolore, e il prete, che continuava ad accarezzarmi la testa e a dire poverina.
Al funerale vennero tutti i miei compagni di classe e anche qualche professore. Tutti mi accarezzavano, tutti mi abbracciavano e tutti piangevano. Io no.
Qualcuno mi diceva “Dai, sfogati, ti fa bene”, ma io non mi stavo trattenendo; le lacrime non mi venivano proprio. Anzi, guardavo gli altri e mi chiedevo perché piangessero; non erano loro quelli che avevano perso la mamma, non erano loro quelli a cui un pomeriggio di maggio aveva cambiato la vita.
Poi capii. Non piangevano né per se stessi, né per lei: piangevano per me, perché provavano pena e mi commiseravano.
Io invece non provavo nulla; niente dolore, e nemmeno rabbia. Mi sentivo sola, vuota e inutile. E comunque, quel mondo che già mi aveva tolto tutto non meritava anche le mie lacrime.
Da quel giorno non ho più pianto; non ho più versato lacrime, né di gioia né di dolore; non ho più sentito l’inconfondibile nodo in gola, o il pizzicore alla base del naso, quando gli occhi si stanno per riempire di lacrime e sbatti le ciglia per evitare l’inevitabile.
Mia madre mi raccontava che da piccola avevo pianto molto, facendole passare diverse notti in bianco. Da bambina, poi, ricordo io stessa che mi venivano le lacrime agli occhi per qualsiasi cosa; a scuola per un rimprovero della maestra, al parco per un dispetto tra bambine, a casa se mio padre mi metteva in punizione e io mi ritrovavo da sola nella mia cameretta.
Mia madre mi ripeteva sempre di non piangere, che ormai ero grande e dovevo imparare a trattenere le lacrime, altrimenti gli altri avrebbero pensato che ero una pappamolle. Potevo essere arrabbiata, potevo essere triste, ma non dovevo essere debole.
Ci sono poche cose nella vita per cui vale davvero la pena di piangere, diceva.
Quando è morta le ho dato ragione.
toccante…non so se attinto dalla tua esprienza personale o meno, ma se non lo fosse, ottima capacità di immedesiamzione.
certe immagini sono anche angoscianti…ma rende molto bene l’idea
Bel racconto,
semplice e ben scritto.
Irene è tratteggiata benissimo, i suoi ricordi e le sue sensazioni sono realistiche. Spero non derivino da una esperienza personale ma siano, come dice Mattia, il frutto della tua capacità di “sentire” ciò che accade dentro le persone.
Mi è piaciuto molto. Belle frasi semplici, non pretenziose, efficaci.
Grazie!
Per fortuna non ho vissuto la tragica esperienza di rimanere orfana così giovane (mia madre sta benissimo!), ma ho cercato di immedesimarmi cercando soprattutto di ricordare cosa ne sapevo e cosa ne pensavo della morte quando avevo tredici anni.
Mi è piaciuto, fila liscio quanto la tristezza che ti attanaglia in un giorno di pioggia battente.
La narrazione è coinvolgente, in ogni istante si colgono i sentimenti e i pensieri delle persone che s’incontrino. Irene crescerà orfana di madre che le ha lasciato il mandato di non essere debole; la catena che legava la mamma legherà anche la figlia. Mi piace pensare che i racconti adempiano al compito di “liberare le persone dai condizionamenti” perché servono a far conoscere le esperienze di vita e, se del caso, a non ripeterle.
Emanuele.
La narrazione particolarmente lucida credo sia cio’ che piu’ caratterizza il racconto. Sono molto coinvolgenti le sensazioni della ragazza, soprattutto quando sembrano dettate da una sorta di inevitabile distacco. Il linguaggio e’ fluido ed accattivante.
Complimenti Carmen.
Marco
Grazie ad Alberto, Emanuele e Marco!
Apprezzo molto i vostri complimenti, ancor più dal momento che siete uomini e spesso – erroneamente – si pensa che la letteratura “sentimentale” sia appannaggio solo di lettrici donne! Grazie
Quello che mi colpisce nel tuo racconto, Carmen, è la reazione della protagonista al dolore per quella perdita improvvisa e inaspettata ma, ancor di più, la capacità che hai avuto di far vivere al lettore le varie sfumature delle reazioni di persone estranee alla famiglia e che hanno spaziato, attraverso una descrizione di poche righe, dal cinismo, alla partecipazione commossa, alla costernazione o alla semplice incapacità di portare sollievo con le parole appropriate.
Angela
Non mi sembra letteratura sentimentale nel senso comune e deteriore del termine per il semplice fatto che si parla di lacrime.
La definirei più letteratura di sentimento per quello che esprime: l’angosciosa presa di coscienza di una tragedia da parte di una tredicenne.
La perdita di un genitore in generale, della madre in particolare, per ogni adolescente è l’abbattimento di un sostegno fondamentale per la crescita e lo sviluppo della personalità.
Per quanto riguarda lo stile lo trovo asciutto ma al tempo stesso carico di umori: lacrime bagnate di parenti e amici, rezione istintiva e ristoratrice, lacrime asciutte della protagonista, onere destinato a plasmare il corso della vita successiva.
Mi piacciono gli zoomorfismi: le formiche confuse, gli strumenti elettronici che pigolano affamati di vita, mi sembrano metafore adatte al punto di vista di una tredicenne.