Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “Il disegno” di Giuseppe Feola

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

L’aula di scuola è bianca e soleggiata, nel mattino di un’azzurra primavera.

Chini sui banchi celesti di fòrmica, i bambini svolgono un compito: devono vestire di colori la pagina di un libro, che l’autore ha lasciato in bianco e nero. Sono contenti, perché, finché dura quel compito, non si farà né aritmetica né analisi grammaticale.

La scena da colorare è familiare e semplice, o tale vorrebbe riuscire: per la via, tra automobili e bancarelle, una mamma va a fare la spesa, tenendo per mano un figlio e una figlia. Il figlio ha i capelli corti e i calzoncini alla marinara, come tutti i figli di tutti i sussidiari del mondo; la figlia ha i capelli lunghi e una gonna plissettata, per far capire a tutti che è una figlia. Ci sono degli alberi, per la strada, che, più che una strada, sembra un viale; e negozi di ogni tipo. Un’automobile. Un giovane in bicicletta. Nell’aria, da destra a sinistra, si muove sospeso un uccello. Sopra ogni cosa, nel Cielo che immaginiamo blu e profondo, un Sole, grande come e più della testa riccioluta della mamma, governa la vita del Tutto.

Un bambino, nell’aula – non quello sul foglio –, vestito in pantaloni giallo-canarino e una camicia bianca, a strisce canarino pure quelle (visto il gran caldo, la maestra ha permesso a tutti, quel giorno, di togliere i grembiulini), all’ultimo banco, dove si è seduto perché non ha voglia di star troppo attento (forse oggi preferisce guardare, dalla finestra, la luce del Sole che avanza nel Cielo), ha appena deciso di avere già svolto troppe volte quel tipo di compiti, per stare ancora un’altra volta a preoccuparsi di come vada svolto. E proprio non ha genio di tirare a indovinare di che umore si è alzata la mamma sul foglio: se la gonna plissettata è verde come la primavera o marrone come un tronco; se la bambina sorridente è bionda o bruna; se il bambino è suo fratello – e deve assomigliarle – o può anche – perché no? – essere un negretto. Se tutti quanti hanno le lentiggini (esistono negretti con le lentiggini?) o la pelle rosea e uniforme come quella dei maialini (il rosa dei pennarelli, con cui si colora la faccia delle persona, sembra proprio quello dei maialini. Esisteranno maialini negretti?).

La volta precedente che si era fatto un compito del genere, aveva chiesto ogni tipo di dettagli su come andasse svolto: la montagna da colorare era da immaginarsi in primavera, in estate o in autunno? (in inverno di sicuro no, perché le querce del bosco avevano le foglie) E dunque: ci doveva mettere la neve, o no? Se sì, quanta? E gli alberi, doveva colorarli di verde o di marrone?

La maestra, serafica, aveva risposto: « A piacere. »

“Bene. Vediamo se, facendo il disegno ‘a piacere’, la maestra stavolta è contenta”.

 

Iniziamo dal centro. La faccia della mamma, che di sicuro è il personaggio che la maestra preferisce, la faccio del mio colore preferito: vediamo dov’è il pennarello. Eccolo qua: ho letto che si chiama “blu oltremare”. Il pennarello, quando si colora uno spazio rotondo, va passato a spirale, dall’esterno verso l’interno, o vice versa, sennò poi rimangono, ai margini, dei brutti spazi bianchi. Guarda un po’: sembra proprio un mare, com’è sulla carta geografica, oppure quando lo vedo dal balcone. I capelli, che paiono schiuma, li lascio bianchi. Però così sembra una nonna, invece che una mamma. Allora li faccio arancioni: non so perché, ma davvero ci sta bene.           Poi: di che colore si sarà vestita? Forse, dopo tutto, un po’ di bianco ci andrebbe; però, il bianco della carta lasciata in bianco non sembra mai un vero colore come il pennarello: è invece come se fosse trasparente. Allora lascio in bianco solo le mani, il collo e la gola: che bella dev’essere, una mamma con la pelle bianca e blu. Il vestito lo faccio viola. Colorare il vestito delle femmine è sempre una gran noia, perché ogni volta ha queste forme complicate. Allora è meglio farlo a pallini: si deve premere la punta del pennarello quanto basta per lasciare una macchia, ma bisogna anche star attenti a non bagnare troppo il foglio, sennò poi si buca. Un vestito bianco a pallini viola. Chissà perché, se il vestito lo lascio tutto bianco, sembra trasparente; ma, se ci metto i pallini viola, non sembra trasparente a pallini viola: sembra bianco a pallini viola.

« Maestra, possiamo metterci anche qualche disegno? »

« Certo, bambini! Potete metterci tutto quello che volete. »

Allora, negli spazi tra i pallini viola, sul vestito della mamma bianca con la faccia azzurra, metto pure qualche teschiolino giallo. Mi stanno simpatici i teschiolini. Certo, i teschiolini in genere sono bianchi e neri: ma si confonderebbero coi bordi del vestito.

 

Passiamo alla parte più fastidiosa: la bambina.

Ah, no! Dimenticavo. Le scarpe della mamma: la cantante che domenica stava in televisione le aveva colorate tipo zebra. E se questa mamma le portasse fatte a tigre? Però la zebra è meglio, perché tra le strisce nere non devo passare l’arancione, e faccio prima. Sì: è meglio la zebra.

 

Sta proprio venendo bene, questo disegno.

Ora, la smorfiosa bambina. Tutti sono bravi, a vestire le bambine di bianco, o di rosa. Questa bambina – lo dico io – è vestita di nero.      No: farà un brutto effetto sul foglio. Una volta tanto, sarò gentile con la bambina: sarà una brava bambina, che va sempre a messa. Quindi è vestita di celeste, con tante croci nere sul vestito.

Si rese conto che già la faccia della mamma era blu, e che usare il celeste per un altro personaggio poteva indicare scarsa fantasia, cosa che spesso gli veniva imputata, e la quale gli dava molto fastidio, perché non capiva cosa mai se ne dovesse fare, della fantasia. Optò quindi per un bel rosso: la faccia della bambina era tutta rossa fuoco, mentre le manine e le gambe le fece amaranto. Pensò che per una bambina con la faccia rossa poteva essere piacevole indossare un vestito giallo. Ma il giallo sapeva già per cosa avrebbe, poi, dovuto usarlo. Il verde, nemmeno a parlarne: rosso e verde, vicini, gli ricordavano i fagioloni al sugo che lo avevano fatto vomitare qualche sera prima: non voleva ricordarsene nemmeno da morto.

Decise che l’idea originaria era proprio quella migliore: vestirla di nero; risolto questo problema, sarebbe passato al bambino, per il quale aveva già pensato una soluzione, e poi aveva tutto il tempo a disposizione per spicciare la banalità del paesaggio, e passare finalmente alla parte preferita del disegno.

 

Tracciò con cura tante strisce giallo canarino sulla giacchetta alla marinara del bambino, lasciando il resto in bianco. Vennero perfettamente diritte: in queste cose non aveva alcun bisogno del righello, che comunque, col pennarello, si sarebbe sporcato. Con altrettanta cura, riempì di giallo i pantaloncini. Alle scarpe, neppure pensò. Questo bambino non ha i piedi: o – meglio – li ha trasparenti.

 

Col medesimo spirito di intraprendenza col quale aveva liquidato la bambina, seppure con maggior benevolenza, spicciò alberi e passanti: i primi sembravano fiamme (rosse, carminio, azzurre come il fuoco del fornello, gialle come quelle di un caminetto), e i passanti, che meno lo interessavano, fantasmi.

Guardò l’orologio: aveva ancora un quarto d’ora.

Frugò nel portapenne: scelse tre diverse tonalità di giallo, quelle che più amava. Con il più chiaro, che era di poco più carico di quello usato per il vestito del bambino, creò un lago bellissimo, profondissimo, densissimo, nel mezzo del Sole, curando di lasciar bianco il punto centrale. Poi, con calma, chiuse il primo pennarello, e prese la più forte e scura delle tre tinte: questa assomigliava ad un uovo sbattuto. Alla stessa maniera in cui aveva colorato di blu la faccia della mamma, prese ad avvolgere a spirale, dall’interno verso l’esterno, una tangente al nucleo centrale del Sole, che scendeva verso destra, e poi risaliva a sinistra; ma, stavolta, lasciando dei sottili spazi bianchi tra le strisce di colore. L’ultimo giro coincideva con la circonferenza del gran cerchio. Si fermò, estasiato, a perdersi nella visione della propria opera. Il tratto di pennarello – un’unica linea sinuosa che partiva dal centro del Sole e finiva ad adagiarsi sul perimetro – era appena un poco tremolante: sembrava, così, ancora più bello. Oscillava tutto: così come sembra fare il Sole, quando cerchiamo di guardarlo, ma lui, più forte, scaccia i nostri occhi.

Infine, con la tonalità intermedia, simile a un colore d’erba secca, pennellò dentro al Cielo, come scavandolo, delle linee ondulate, serpentine, folte come i riflessi di luce sul mare nei mezzogiorni estivi: lo invadevano, il Cielo, per più della metà.

 

Ora, l’uccello. Decise che un uccello che volava sotto un Sole così bello non poteva esser un comune piccione. Stabilì che si trattava di un falco: pazienza, se chi aveva fatto il libro non gli aveva messo un becco all’altezza della situazione, un becco da falco. Per fortuna, dal disegno non si capiva se l’uccello mostrasse la schiena o la pancia. Poté quindi scegliere come gli piacque. Scelse la schiena, e, con un forte blu scuro e un robusto grigio acciaio, cercò di rendere i colori della schiena del falcone, come si vedevano nei suoi libri sugli animali. Ma si concesse una piccola licenza: lungo il taglio del margine inferiore del becco, grigio ardesia e giallo uovo (la stessa identica tinta del Sole), depose una goccia di rosso purissimo, come quella che vedeva ogni giorno sul becco dei gabbiani, sul lungomare davanti casa; sì, è vero: purtroppo i falchi non ce l’hanno; e in ogni caso – se anche ce l’avessero – la maestra avrebbe pensato che fosse una goccia di sangue.

“Però anche i gabbiani sono belli: questo sarà un falco-che-è-un-po’-un-gabbiano. Quanto al resto, non sono fatti miei, cosa del mio disegno penseranno tutti gli altri”.

 

La maestra passava per i banchi, osservando i disegni.

L’estate precedente, la cugina di sua madre, con la quale erano andati in vacanza, osservando stupefatta l’abbigliamento balneare di papà, mamma, di lui stesso e sua sorella, aveva commentato qualcosa sui colori “esotici” delle loro magliette, dei loro bermuda e dei loro costumi. La verità – ma lui non lo sapeva – era che avevano comprato tutta roba di marca, che è più resistente, ma di colori e a motivi decorativi così folli da respingere l’acquirente comune: giacenze di magazzino, che perciò erano in svendita. Quell’esternazione della cugina Daniela sui loro bermuda gli aveva fornito – ma lei non lo sapeva – la categoria estetica che faceva per lui: intese che i loro costumi erano “eccentrici”, e da quel momento seppe – e fu per sempre – cosa avrebbe dovuto dire alla maestra, per farle capire che aveva scelto quei colori non perché non sapesse com’è fatta la faccia della mamma (temeva fortemente di preoccuparla), bensì in Piena Coscienza di Autore.

 

« Ma cosa sono questi colori? »

« Sono colori esotici ».

 

Non avesse voluto alla maestra tutto il bene che le voleva, le avrebbe detto quel che pensava: più o meno, che il compito che lei aveva assegnato loro era per lui così noioso, che in qualche modo doveva pur renderselo interessante.            Ma scelse di non dirlo, perché voleva molto bene all’anziana maestra. E – anche se sapeva che non sarebbe stato punito – sentiva che dirle quella cosa le avrebbe fatto del male.

E anche questa scelta – e neppure questo lui sapeva – lo avrebbe segnato per sempre.

 

“Però: che bello il disegno! È venuto proprio bene”.

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5 commenti »

  1. Grazie al tuo commento al mio racconto ho scoperto il tuo. I bambini scelgono consapevolmente e logicamente, e creano. A volte siamo noi adulti a perdere il via e la via. A volte danno spiegazioni per accontentarci e evitare grane!

  2. Questo piccolo genio della pittura, amante della pelle scura e dei colori esotici, mi ricorda un artista parigino che amo immensamente… 🙂
    Per me che ho studiato decorazione e ho disegnato per molti anni è stata una lettura emozionante. Hai saputo descrivere l’atto della creazione ispirata in maniera esemplare, puntigliosa ma piena di poesia.

  3. grazie per questi complimenti. A me sembra che spesso i bambini vogliono solo essere “lasciati in santa pace”, a fare quello che piace loro fare. Il fatto che la società debba necessariamente chiedere loro uno sforzo di concentrazione per apprendere ad adattarsi alle regole, non toglie che il risultato finale di questo ‘tiro alla fune’ è sempre un compromesso. In “Tabula rasa elettrificata”, i CSI cantavano “doma di bimbo, doma di cavallo, condizione dell’uomo”.

  4. I bambini crescono sapendo di dover non deludere i grandi e saper giustificarsi delle loro azioni. Meno male che le maestre sanno essere migliori dei genitori e invogliano gli alunni a fare quello che devono fare, consentendo le varianti per liberare la fantasia o cercare qualcosa di personale. Questo racconto ci svela la creatività infantile. In bocca a lupo, Giuseppe.
    Emanuele.

  5. caro Emanuele, grazie.

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