Premio Racconti nella Rete 2014 “La professoressa” di Federica Politi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Dentro, silenzio. Fuori, silenzio. La luce filtra dalle persiane socchiuse. Resto sdraiata, avvolta nella coperta di pile. Aspetto. Di sentire la sua voce. Di vederla entrare dalla porta per chiamarmi a mangiare. Mi riappisolo.
Quando riapro gli occhi, la casa è ancora avvolta nel silenzio mentre la luce penetra con maggiore intensità. I vicini chiacchierano sul pianerottolo. Un bambino sta piangendo e qualcuno cerca, invano, di farlo calmare. Il camion della spazzatura si ferma a raccogliere il sacchetto del multimateriale: plastica e cocci di vetro. Un cane sta abbaiando. Una macchina frena bruscamente ed un uomo urla arrabbiato.
Mi tiro su e mi dirigo verso la sua camera. Solo il rumore dei miei passi riecheggia tra le pareti della casa. Mi fermo sulla porta. Riconosco la sagoma del suo corpo sotto le coperte. E’ insolito che non sia già sveglia: è così mattutina.
Mi avvicino al letto. La sua mano spunta da sotto le lenzuola. La sua mano secca, grinzosa, ricoperta di macchie è immobile proprio sopra la mia testa. M’allungo e mi struscio contro le dita. Non si muove. Non parla. Non chiama il mio nome.
Mi alzo sulle zampe posteriori. M’appoggio al materasso. Ha gli occhi chiusi. I capelli sparsi sul cuscino. Abbaio. Continua a non muoversi. Abbaio più forte. Niente. Provo a leccarle la mano. E’ fredda. Rigida. Abbaio di nuovo, quasi ringhio. Lei non sente, non si muove. Salto sul letto, anche se so che non vuole, che così facendo la farò arrabbiare.
Ma lei continua a non muoversi e non mi urla di scendere. Il mio ringhio si fa debole e diventa quasi un lamento, una preghiera. Avvicino il muso al suo viso. Non sento il suo respiro pesante. Non sento il suo alito forte. Le lecco una guancia ma continua a non muoversi. Non capisco. Non è mai rimasta così tanto a letto, a parte quella volta che prese una brutta influenza e non andò a scuola per una settimana ma mi parlava, lasciava che le facessi compagnia ai piedi del letto.
Mi sistemo nella curva del suo braccio e aspetto. Aspetto che si svegli. Aspetto e ricordo.
Il primo giorno in cui è venuta a prendermi al canile. La sua mano che infilandosi tra le sbarre cercava di carezzarmi mentre io l’osservavo con sospetto. Era buffa con quegli occhiali colorati, i capelli raccolti in una grande crocchia sopra la testa. Le prime settimane in cui abbiamo imparato a conoscerci. Le innumerevoli volte che mi sgridava perché mi addormentavo sul divano lasciandolo ricoperto di peli e sabbia. Le lunghe passeggiate in spiaggia a rincorrere le onde del mare. Le interminabili pedalate in bicicletta. Mi sistemava nel cestino e via nella luce del sole, nel profumo di salsedine: una carezza, una parola affettuosa e quello sguardo dolce. E quel sorriso amaro.
Poi ha smesso di insegnare, ha smesso d’andare a scuola. I suoi capelli erano ormai bianchi. E’ diventata triste. Malinconica. Ha pianto tanto. Lacrime e lacrime a riempire i solchi segnati dalle rughe sul suo viso. Mi sdraiavo sul divano vicino a lei nella speranza di confortarla. Lei m’accarezzava e mi parlava dei suoi alunni, di quanto erano bravi. Diceva di sentirsi sola, inutile. Io mi facevo più vicina, le salivo in grembo e la guardavo di sotto in su. La fissavo. Volevo che capisse che c’ero io con lei, che non sarebbe mai stata sola. Lei continuava a carezzarmi e continuava a piangere.
I mesi sono trascorsi così, sospesi nel vuoto. Poi si è abituata a questa nuova realtà. Credo. Ha cominciato a leggere. Stava ore ed ore sulla poltrona vicino alla finestra, con un libro sulle ginocchia e lo sguardo perso nella ricerca di qualcosa. Qualcosa che probabilmente non è mai arrivato.
Non ha mai smesso di avere cura di me. Ogni giorno prendeva il guinzaglio dal mobile nell’ingresso, me lo metteva con delicatezza e uscivamo. Ci fermavamo a fare colazione, a prendere il giornale e il pane, a fare un po’ di spesa, sempre nella solita bottega.
Ora sono qui, sdraiata al suo fianco. Non sento più il calore del suo corpo, non sento più il suo cuore battere vicino al mio. Ho paura. Ho paura che non si risvegli più. Ho paura di restare qui senza di lei. Non ci siamo mai separate.
Mi stringo sempre più al suo corpo rigido e freddo. Chiudo gli occhi e cerco di evocare la sensazione di calore del mio muso tra le pieghe del suo collo mentre mi gratta dietro le orecchie. Cerco di evocare la sensazione di protezione, di sicurezza e d’affetto di cui mi ha sempre circondata, anche nei momenti più bui. Cerco di evocare tutta la tenerezza, tutta la bellezza dei giorni trascorsi insieme.
Aspetto. E ricordo. Ma la mia cara professoressa è sempre più lontana e per la prima volta, non so come raggiungerla.
Già commentai il tuo precedente racconto, che mi piacque moltissimo.
Questo mi ha particolarmente toccata. Chiunque ha condiviso un tratto di vita con un cane, sa. In letteratura è un tema sfruttato, ma la differenza sta nella narrazione e io amo il tuo modo di raccontare, il tuo stile asciutto e privo di fronzoli. Mi è scesa una lacrima leggendoti.
Bello. Una storia semplice, ben raccontata. Frasi brevi, essenziali, incisive. L’inizio ci proietta perfettamente nell’atmosfera in poche righe.
Se non ci fosse Mara…
mi accodo, bel racconto,
un punto di vista diverso,
una storia tenera e commovente.
Grazie a tutti.
Bello. Tenero. Mi è piaciuto moltissimo. Complimenti.
Bello stile; scelta intelligente di narrare dal punto di vista dell’animale, una femmina di cane, una compagna per affrontare la vita con il suo carico di solitudine e di sofferenze. Pieno di sentimento. Brava Federica.
Emanuele.
Grazie Emanuele