Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “Quando il sangue è salmastro” di Bruno Amore

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

A Livorno, nel quartiere più vecchio della città portuale, “la Venezia”, viveva una popolazione di piccoli pescatori e facchini di porto, i quali della navigazione marittima avevano, al massimo, qualche nozione tramandata oralmente dai comandanti di piccolo cabotaggio che conoscevano il Portolano Ministeriale, ma aveva nelle vene sangue salmastro.

I più sapevano prendere il largo nel chiarore metallico dell’alba per salpare in tempo le reti e recuperare quanto trattenevano prima che i molluschi, pulci di mare e crostacei scoprissero e raggiungessero i pesci rimasti imprigionati o morti tra le maglie, per cibarsene.

A Livorno chiamano “scali” i corti moli costruiti nei fossi sullo stesso livello del mare e i fossi sono canali, che insinuano l’acqua salmastra sin dentro l’abitato; antiche comode vie per trasbordare le merci coi capienti navicelli, dai bastimenti alla fonda ai magazzini a terra. Erano stati la brillante idea degli ingegnosissimi architetti dei mercanti medicei.Vi faceva capo gente di mare e di traffici usuali ed esotici, da e per il mondo allora noto, in affari con la Firenze pingue di fiorini e di bellezze. Lungo i fossi, hanno resistito alle distruzioni dell’ultima guerra, alcuni bei palazzi che si affacciano sull’acqua, quasi un lungarno di fiorentina e pisana memoria, meno nobile, non meno bello e lunghe teorie di abitazioni popolari, pregne ancora dell’umanità che ci viveva. E dal Porto Mediceo, la Fortezza Vecchia t’avvia col fosso principale al Porto Vecchio e alla Fortezza Nuova, nello slargo d’acqua del Pontino. Ora ci attraccano effimere barche da diporto, in materiali leggeri, trasparenti, con motorizzazioni degne d’altro più utile impiego. Ma è questo il tempo della tecnologia imperante, del divertimento consumistico, ad ogni costo.

L’acqua è sempre stata maleodorante, un tempo di sentori umani, eppure i ragazzi ci si bagnavano. Ora puzza di nafta e arabeschi cangianti tentano forme che nessuno riconosce. I gabbiani spazzini ci planano, si posano per cibarsi, non di pesci ancorché morti, che gli è naturale, ma di strani rifiuti, spesso ancora incartati, che malcreati gettano incuranti.

Il vecchio Suardi aveva la rimessa degli attrezzi nella “cantina” di uno scalo: un grande vano buio, antico magazzino merci sotto il livello della strada da tanti anni; col viso grinzo cotto dal sole e dal salmastro, con le dita rattrappite a pochi movimenti, non faceva altro che pescare. Era stato anche facchino portuale, per breve tempo, ma non aveva la salute e la forza per continuare. Così sbarcava il lunario con piccole pesche nel bacino Santo Stefano, l’imboccatura del porto nell’acqua fonda, a ridosso della diga Della Meloria o della Vegliaia e Della Curvilinea.

Con la bonaccia si spingeva al largo, fino alle secche.

Non si lamentava delle poche catture, né si esaltava quando la pesca era fruttuosa. Metodicamente, col giusto tempo, andava a “bolentino” con poca attrezzatura e tanta pazienza, o a stendere i “tramagli”, quando il mare lo consentiva. Le prede migliori andavano alla Trattoria Della Venezia, allora all’angolo di Via delle Acciughe.

Lo chiamavano “Occhiata”, un soprannome crudele eppure intriso di affettuosità popolana, per via di quelle spesse lenti come fondi di bicchiere, che facevano apparire gli occhi, afflitti da cronico tracoma, piccoli piccoli. Salpava sempre di buonora, chino a poppa, alla barra, vicino ai comandi del diesel, che borbottando monotono, spingeva il gozzo su e giù per le onde, per andare alle tre miglia dalla riva, dove erano stati calati i tramagli per la pesca da postazione, prima di notte. Sempre la bruma, in ogni stagione, gli bagnava il viso, imperlava le ciglia e le rossicce sopracciglia cespugliose, si cristallizzava in minuscoli grumi di sale su quei peli che luccicavano, come cosparsi di polvere di vetro, ai primi raggi tiepidi di sole.

Non amava il mare, nel modo e senso di quelli che lo fanno dalla riva o dalla spiaggia ma, da sempre, era la sua vita. Quasi il suo elemento, anche se non ci si immerse mai per capriccio o divertimento. Per bisogno sì, e con sicumera, quando c’era da liberare l’elica dalle alghe o da qualche rifiuto inciampato durante la navigazione. Era il posto che conosceva meglio di ogni altro al mondo: ci viveva, lavorava e sperava di averne buoni frutti ogni giorno.

Da un bel pezzo, oramai, usciva da solo. Il suo ragazzo, il più giovane, che l’aiutava: gli altri avevano scelto di sfacchinare ai moli là, nel porto; era caduto in mare affogandoci, una notte di burrasca, nel tentativo di salvare le reti che la mareggiata avrebbe portato via, irrimediabilmente. Gli stringeva il cuore ripensarci e in quei momenti di pesca solitaria, ci parlava come l’avesse lì a prua, a calare o salpare, rassettare reti, aggiuntare sagole, montare galleggianti. Come parlava al mare, alla barca, alle creature che accostavano per caso o volontariamente, i legni che vanno per mare: gabbiani, procellarie, pesci volanti e quei ladroni birbanti dei delfini, che avrebbero banchettato alle sue reti e poi, squittendo, saltare fuori dall’acqua davanti alla prua.

«Guarda Nedo… Sì, poeroammè! Magari fosse ‘vi. C’è rimasta un’aragosta, anche bella, gli è andato di traverso il pesce che rubbava.» Oppure: «Facci un segno ‘vi c’è uno sbrago, va riparato, è troppo grande per lasciallo ‘osì.»

Beccheggiava la barca, tenuta di prua contro le onde, mentre la fiancata di dritta era inclinata fino a sfiorare col bordo il pelo dell’acqua, sotto il peso delle reti intrise che salpava.

«Mare cane! Come sei freddo. Almeno dammi un po’ di pesce bono, stamattina, così si fa giornata. Ovvai Gloria: aveva chiamato la barca col nome della moglie; tieni botta. S’è quasi finito, si va a casa a bersi un ber ponce ar mandarino.»

Quando le reti erano a bordo, l’alba da dietro le colline allungava ormai le dita da terra fino al mare, che prendeva tutto il colore del cielo, spandendoselo sulla superficie come fosse una coperta di seta azzurra.

Il motore s’avviava con sbuffi neri dallo scarico di fianco e spingeva lentamente il gozzo appesantito. Barra a dritta e via tranquillo verso riva.

Capitava che a prua solcassero veloci il mare le pinne dei delfini, era buon segno, un’allegria, che non sempre capitava di godere.

Nulla lo distrasse mai da quella sua attività in solitario, a lui piaceva così e ci morì, in solitario, mentre riordinava le reti, nella sua cantina, in Scali del Monte Pio. Su quel breve lembo di molo, i gabbiani avevano preso a posarcisi regolarmente, quando tornava dalla pesca, perché li nutriva coi pesci di scarto, danneggiati, e per molto tempo dopo la sua morte, al tramonto, si posavano ancora sulla spalletta ad attendere, inutilmente, il suo arrivo.

Appesi alle muraglie di pietra lungo i fossi, qua e là ancora crescono ciuffi pendenti della pianta di cappero, sembrano cascatelle verdi verso l’acqua scura. Alla stagione giusta, sbocciano piccoli fiori bianchi, che somigliano, nella forma, a quelli della passiflora.

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1 commento »

  1. E’ poesia, quando cogliamo i sentimenti e la sofferenza in un’opera letteraria. Questo racconto ben condotto ci parla della vita di “Occhiata”, la cui esistenza è stata scandita dalla pesca sul mare e la cui presenza è ricordata, qualche mese oltre la morte, dai gabbiani soliti a cibarsi degli scarti gettati dal pescatore. E’ la testimonianza di una vita solitaria, vissuta o subita con convinzione.
    Emanuele.

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