Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “Come un piede” di Ismaela Capecchi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

Franco se ne stava comodamente sdraiato nella sua amaca in giardino, appena sfiorato dai raggi di sole che filtravano tra le fronde delle querce e cullato dal cinguettio degli uccelli e dal vocio animato dei bambini che giocavano a palla poco lontano. A un paio di metri da lui, il suo amico d’infanzia, Umberto, si lambiccava il cervello con le definizioni di un cruciverba. Giovanna e Patrizia, le loro mogli, erano andate a fare una passeggiata lungo il sentiero che attraversa il bosco e porta al laghetto. Alberto, Enrico e Stefano, i tre figli di Franco, stavano riordinando la griglia e gli avanzi di cibo rimasti dopo il barbecue mentre Elisabetta, Federica e Francesca, le loro mogli, vigilavano affinché quel piccolo esercito di bambini, otto per l’esattezza, di età compresa fra i dieci mesi e i dieci anni, giocasse senza farsi male.

 

Era una di quelle domeniche che Franco definiva “celestialmente perfette”: il pranzo con tutta la famiglia riunita intorno allo stesso tavolo e a seguire un lungo pomeriggio di giochi e chiacchierate da trascorrere nella natura incontaminata in cui era immersa la sua abitazione.

 

Umberto e sua moglie venivano spesso invitati a condividere questa perfezione perché Franco considerava Umberto come un fratello. Si erano conosciuti sui banchi di scuola delle elementari e avevano poi coltivato insieme la comune passione per la medicina e sebbene le loro vite avessero seguito strade molto diverse, il loro legame era rimasto saldo e indissolubile.

Dopo l’abilitazione infatti Franco era rimasto in Italia a fare il medico di base, mentre Umberto era partito per l’Africa con un’organizzazione non governativa. Doveva essere per sei mesi, per fare esperienza, ma l’aria dell’Africa gli aveva “giocato un brutto scherzo”, come raccontava lui ridendo, e alla fine in Africa ci aveva passato metà della sua vita. Laggiù aveva conosciuto Patrizia, ginecologa colpita dalla stessa epidemia, ed erano tornati in Italia solo quando i genitori di Umberto non ce la facevano più a stare da soli e avevano bisogno della vicinanza del figlio.

 

“Cu cu!!!”

 

Le riflessioni sulla definizione del 16 verticale furono bruscamente interrotte da una vocina proveniente da dietro la siepe di lauro. Tra le foglie si intravedevano una ciocca di capelli castani e l’orlo di una gonna rossa che appartenevano a Martina, due anni e mezzo, che con il suo simpatico squittire aveva fatto saltar giù dall’amaca il nonno Franco, che ora si trovava a quatto zampe sull’erba del prato a ridosso della siepe, intento a rispondere con un più baritonale “cu cu” a quello della nipote.

 

Quando Martina si fu stancata di mettere a dura prova le ginocchia del nonno, corse ridendo da sua madre a chiedere un bicchiere d’acqua. Franco la guardò allontanarsi sorridendo a sua volta, ma Umberto vide che aveva gli occhi lucidi.

 

“Le somiglia molto, vero?”, gli chiese.

 

“Sì.”, rispose Franco con un filo di voce mentre il sorriso gli si spegneva sul volto. E seguendo le gambette leste che uscivano dalla gonna rossa, andò a prendere un bicchiere d’acqua anche lui.

 

Franco si riferiva a sua figlia Alessandra, nata dopo Enrico e prima di Stefano. Se n’era andata in pochi mesi, nessuno ha mai capito perché.

Quando aveva cominciato a stare poco bene, Franco era letteralmente impazzito: non mangiava più, non dormiva più, non giocava più con Alberto ed Enrico. Trascorreva tutto il suo tempo a fare ricerche su riviste e testi specializzati, chiamava i suoi colleghi, cercava di mettersi in contatto con i grandi luminari. Portò perfino Alessandra in Russia e negli Stati Uniti, ma niente. Niente impedì al male di portarsela via. Se ne andò senza far rumore una notte di settembre e Franco e sua moglie al loro risveglio trovarono nel lettino solo lo stelo di quel fiorellino appassito troppo in fretta.

 

Fortunatamente Stefano sarebbe nato di lì a poco e questa circostanza impedì al dolore di travolgere e distruggere Franco e Giovanna. Umberto era stato spettatore a distanza di questa disgrazia. Dall’Africa chiamava il suo amico tutte le settimane, ma non era riuscito a tornare in Italia che per il funerale, tanto tutto era successo in fretta. Dopo ogni telefonata, che settimana dopo settimana era sempre più piena di frasi senza senso e pianti dirotti alternati a risate isteriche, la mente di Umberto veniva assalita da mille interrogativi. Il suo amico fraterno stava dando i numeri a causa della malattia della figlia, mentre dov’era lui, in Africa, la malattia e la morte facevano parte della quotidianità e venivano accettati con pacata rassegnazione.

 

Dove stava la differenza? E chi aveva “ragione”? Franco che prendeva un aereo dopo l’altro e non era mai soddisfatto dei responsi che riceveva oppure le madri africane che, una volta fatto visitare il figlio dall’unico medico disponibile nel raggio di decine di chilometri, se ne tornavano silenziose ai loro villaggi aspettando che il destino si compisse?

E perché loro, poco tempo dopo aver sepolto il proprio figlio, quando le incontravi lungo i sentieri polverosi, ti dicevano sorridendo che andava tutto bene e invece Franco, a distanza di così tanti anni, non riusciva ancora ad accettare il disegno divino e a placare il suo cuore?

 

Franco tornò con due bicchieri d’acqua: uno per sé e uno per il suo amico d’infanzia. E come se avesse letto nei suoi pensieri, dette risposta a tutte le sue domande.

 

“Vedi Umberto”, disse, “in questi anni non è passato giorno in cui io non abbia riflettuto su quello che è successo, senza però riuscire mai a trovare un motivo, un disegno, una logica. Posso solo dirti come mi sento in questo momento. Per me un figlio è come un piede. Il tuo piede può essere brutto, storto, con le verruche, avere cattivo odore, l’alluce valgo…ma è il tuo piede e gli vuoi bene comunque. Anzi, più è brutto e storto e più tu te ne prendi cura: lo lavi più spesso, lo massaggi con polveri e creme, vai dal podologo, gli compri le scarpe migliori…e sai perché? Perché senza non puoi camminare. E se la vita ti fa inciampare, ti puoi rialzare, ma il tuo passo non sarà mai più quello di prima.”

 

 

 

 

Franco se ne stava comodamente sdraiato nella sua amaca in giardino, appena sfiorato dai raggi di sole che filtravano tra le fronde delle querce e cullato dal cinguettio degli uccelli e dal vocio animato dei bambini che giocavano a palla poco lontano. A un paio di metri da lui, il suo amico d’infanzia, Umberto, si lambiccava il cervello con le definizioni di un cruciverba. Giovanna e Patrizia, le loro mogli, erano andate a fare una passeggiata lungo il sentiero che attraversa il bosco e porta al laghetto. Alberto, Enrico e Stefano, i tre figli di Franco, stavano riordinando la griglia e gli avanzi di cibo rimasti dopo il barbecue mentre Elisabetta, Federica e Francesca, le loro mogli, vigilavano affinché quel piccolo esercito di bambini, otto per l’esattezza, di età compresa fra i dieci mesi e i dieci anni, giocasse senza farsi male.

 

Era una di quelle domeniche che Franco definiva “celestialmente perfette”: il pranzo con tutta la famiglia riunita intorno allo stesso tavolo e a seguire un lungo pomeriggio di giochi e chiacchierate da trascorrere nella natura incontaminata in cui era immersa la sua abitazione.

 

Umberto e sua moglie venivano spesso invitati a condividere questa perfezione perché Franco considerava Umberto come un fratello. Si erano conosciuti sui banchi di scuola delle elementari e avevano poi coltivato insieme la comune passione per la medicina e sebbene le loro vite avessero seguito strade molto diverse, il loro legame era rimasto saldo e indissolubile.

Dopo l’abilitazione infatti Franco era rimasto in Italia a fare il medico di base, mentre Umberto era partito per l’Africa con un’organizzazione non governativa. Doveva essere per sei mesi, per fare esperienza, ma l’aria dell’Africa gli aveva “giocato un brutto scherzo”, come raccontava lui ridendo, e alla fine in Africa ci aveva passato metà della sua vita. Laggiù aveva conosciuto Patrizia, ginecologa colpita dalla stessa epidemia, ed erano tornati in Italia solo quando i genitori di Umberto non ce la facevano più a stare da soli e avevano bisogno della vicinanza del figlio.

 

“Cu cu!!!”

 

Le riflessioni sulla definizione del 16 verticale furono bruscamente interrotte da una vocina proveniente da dietro la siepe di lauro. Tra le foglie si intravedevano una ciocca di capelli castani e l’orlo di una gonna rossa che appartenevano a Martina, due anni e mezzo, che con il suo simpatico squittire aveva fatto saltar giù dall’amaca il nonno Franco, che ora si trovava a quatto zampe sull’erba del prato a ridosso della siepe, intento a rispondere con un più baritonale “cu cu” a quello della nipote.

 

Quando Martina si fu stancata di mettere a dura prova le ginocchia del nonno, corse ridendo da sua madre a chiedere un bicchiere d’acqua. Franco la guardò allontanarsi sorridendo a sua volta, ma Umberto vide che aveva gli occhi lucidi.

 

“Le somiglia molto, vero?”, gli chiese.

 

“Sì.”, rispose Franco con un filo di voce mentre il sorriso gli si spegneva sul volto. E seguendo le gambette leste che uscivano dalla gonna rossa, andò a prendere un bicchiere d’acqua anche lui.

 

Franco si riferiva a sua figlia Alessandra, nata dopo Enrico e prima di Stefano. Se n’era andata in pochi mesi, nessuno ha mai capito perché.

Quando aveva cominciato a stare poco bene, Franco era letteralmente impazzito: non mangiava più, non dormiva più, non giocava più con Alberto ed Enrico. Trascorreva tutto il suo tempo a fare ricerche su riviste e testi specializzati, chiamava i suoi colleghi, cercava di mettersi in contatto con i grandi luminari. Portò perfino Alessandra in Russia e negli Stati Uniti, ma niente. Niente impedì al male di portarsela via. Se ne andò senza far rumore una notte di settembre e Franco e sua moglie al loro risveglio trovarono nel lettino solo lo stelo di quel fiorellino appassito troppo in fretta.

 

Fortunatamente Stefano sarebbe nato di lì a poco e questa circostanza impedì al dolore di travolgere e distruggere Franco e Giovanna. Umberto era stato spettatore a distanza di questa disgrazia. Dall’Africa chiamava il suo amico tutte le settimane, ma non era riuscito a tornare in Italia che per il funerale, tanto tutto era successo in fretta. Dopo ogni telefonata, che settimana dopo settimana era sempre più piena di frasi senza senso e pianti dirotti alternati a risate isteriche, la mente di Umberto veniva assalita da mille interrogativi. Il suo amico fraterno stava dando i numeri a causa della malattia della figlia, mentre dov’era lui, in Africa, la malattia e la morte facevano parte della quotidianità e venivano accettati con pacata rassegnazione.

 

Dove stava la differenza? E chi aveva “ragione”? Franco che prendeva un aereo dopo l’altro e non era mai soddisfatto dei responsi che riceveva oppure le madri africane che, una volta fatto visitare il figlio dall’unico medico disponibile nel raggio di decine di chilometri, se ne tornavano silenziose ai loro villaggi aspettando che il destino si compisse?

E perché loro, poco tempo dopo aver sepolto il proprio figlio, quando le incontravi lungo i sentieri polverosi, ti dicevano sorridendo che andava tutto bene e invece Franco, a distanza di così tanti anni, non riusciva ancora ad accettare il disegno divino e a placare il suo cuore?

 

Franco tornò con due bicchieri d’acqua: uno per sé e uno per il suo amico d’infanzia. E come se avesse letto nei suoi pensieri, dette risposta a tutte le sue domande.

 

“Vedi Umberto”, disse, “in questi anni non è passato giorno in cui io non abbia riflettuto su quello che è successo, senza però riuscire mai a trovare un motivo, un disegno, una logica. Posso solo dirti come mi sento in questo momento. Per me un figlio è come un piede. Il tuo piede può essere brutto, storto, con le verruche, avere cattivo odore, l’alluce valgo…ma è il tuo piede e gli vuoi bene comunque. Anzi, più è brutto e storto e più tu te ne prendi cura: lo lavi più spesso, lo massaggi con polveri e creme, vai dal podologo, gli compri le scarpe migliori…e sai perché? Perché senza non puoi camminare. E se la vita ti fa inciampare, ti puoi rialzare, ma il tuo passo non sarà mai più quello di prima.”

 

 

 

 

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2 commenti »

  1. Bel racconto, scrittura scorrevole. Non ho capito i due testi che mi sembrano identici. Ho letto e riletto, non ho trovato differenze. Forse c’ è una ragione che francamente non so trovare; puoi spiegarmela tu? Ci sono le due riflessioni: la famiglia patriarcale di Franco e il fatalismo delle donne africane, posso dire così?
    Ciao Ismaela.
    Emanuele.

  2. Grazie mille Emanuele! Scusa se ti rispondo solo adesso ma con la tecnologia non ho un buon rapporto e ci ho messo un po’ a capre come si fa…. Eccoti anche la spiegazione del “doppio” racconto…ho semplicemente sbagliato e l’ho copiato e incollato due volte…che ci vuoi fare! 😉
    Grazie ancora e in bocca al lupo anche a te! 🙂
    Ismaela

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