Premio Racconti nella Rete 2014 “La Madre” di Orietta Cicchinelli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Distesa su quel letto osservava quel po’ di realtà che le scorreva davanti. Alzava di tanto in tanto una palpebra, tempo di dare un’occhiata e soddisfare le richieste di attenzione di chi veniva a farle visita in quella stanzetta di una grigia casa per anziani dove aveva trascorso gli ultimi 4 anni. Armanda aveva smesso di parlare e si limitava ad accennare un sì o un no scuotendo la testa o mugugnando. Avrebbe voluto dire tante cose ai figli che si alternavano al suo capezzale, ma a che sarebbe valso? Aveva lavorato una vita nei campi, china sulla vanga o tra i filari della vigna a strappar erbacce: le vesciche e i calli erano un ricordo vivo, anche se le mani apparivano lisce, eppure lei non aveva mai messo piede da un’estetista. Come avrebbe potuto? In quel paese, nel buco del culo del mondo, quattro case arrampicate su una collina, che avrebbe fatto meglio a venir giù con l’ultimo terremoto, non ce n’era ombra. E lei era uscita da lì solo per andare a Roma dalla figlia. Vita grama, come la gramigna che non si può estirpare se non ammazzando pure il grano che, da bimba raccoglieva nell’ara al passaggio della trebbia. Erano preziosi quei chicchi: macinati, assicuravano il pane, mentre la crusca sfamava gli animali da cortile. Ogni cosa aveva il suo scopo: le galline davano le uova, per finire poi in pentola, zampe e testa comprese, perché non si sprecava nulla ai tempi. Non come adesso che si scartava l’inimmaginabile e i figli venivano su viziati. “Ci vuole la fame!” ripeteva ai nipoti che facevano impazzire le madri con i loro capricci.
Ora da quel letto, un pensiero inseguiva l’altro, in un vortice percepito all’esterno solo per quel tremolio delle palpebre, tra giornate scandite nell’attesa del pappone, della medicazione e del lavaggio ad opera delle inservienti. Stavano sempre lì a “sciacquettarla”. Ogni tanto lei ricambiava le gentilezze a suon di morsi con le gengive, perché la dentiera l’aveva gettata al fuoco del camino nel suo periodo piromane. E, poi, la visita di quei benedetti figli più grandi, che i due ultimi abitavano a Roma e venivano di rado. Lei neppure ricordava i nomi: che “la vecchiaia è brutta n’n ce p’zzate arrevà!”. E, ancora, la pappa di mezzogiorno, latte e biscotti a sera, prima che le serrande fossero abbassate per la notte. Nella casa faceva buio presto. Anzi, in quel posto pareva sempre notte, salvo d’estate. Sì, quello poteva definirsi un luogo di passaggio per abituarsi all’oscurità che lei immaginava fosse l’aldilà, dove si sarebbe riposata.
Certo lei non era sempre stata nel letto a vegetare. Arrivata in quell’avamposto della morte (dopo che la cucina era bruciata: dimenticò il fuoco acceso prima di andarsi a coricare) stava sulle gambe. Andava a mensa e mangiava a quattro ganasce. “Non male le lasagne”, pensava, e non aveva neppure il problema di doverle ammassare… Doveva solo passare il tempo. E senza accorgersene (l’aiutava il folletto che si divertiva a chiudere e aprire, a suo piacimento, i cassetti della memoria) dimenticò dov’era.
Le coinquiline la guardavano con curiosità: quella era proprio un tipo strano, ma a posto. Non si lagnava (come faceva invece Clotilde con i suoi dolori di pancia “che non andava in bagno”), e non litigava. Mentre loro discutevano tutto il tempo, lei le osservava e si chiedeva cosa avessero da cianciare quelle oche spennacchiate. Armanda non aveva mai sopportato le pettegole e, per una donna di poche chiacchiere (una parola è poca e due sono troppe, il suo motto), quel vociare era fastidioso. Tanto che, da un giorno all’altro, smise pure di dire quelle quattro parole in croce. Poi non si alzò più, che le gambe le disobbedivano. E lei, spirito indipendente, ora si ritrovava a dipendere da qualcun altro persino per pisciare! Veniva spinta su una sedia a rotelle, dalla camera alla doccia, e la più solerte tra le compagne avrebbe finito pure per imboccarla, quando le sue mani la tradirono. Era Rosa quella che stava meglio: non aveva varcato la soglia degli 80, mentre lei aveva già visto passare 87 primavere, e altrettanti inverni. L’estate? Tardava sempre ad arrivare: poi ti faceva sudare sette camicie, alle prese con le conserve da preparare, e fuggiva al primo acquazzone d’agosto. Rosa aveva un viso tondo e la pelle tirata che pareva cinese: mollata lì da uno dei figli che si era giocato pure la casa a Teresina. “Una malattia il gioco – lo giustificava la madre – non è colpa di Antonio”. Ogni volta la santa donna, onorati i debiti del figlio, lavorando come cuoca, rimproverava Antonio con dolcezza. Lui prometteva, ma il sabato successivo, al solito, non rincasava fino all’alba, impegnato al tavolo del poker. Dalla sedia prima e dal letto poi, Armandina aveva ascoltato tante volte il racconto di Rosa pensando alle mazzate che avrebbe volentieri dato a quel buono a nulla. Anche se poi le maniere forti non erano servite a tenere il proprio figlio minore fuori dai guai.
C’era un gran movimento in quella casa per una donna come lei, abituata sin da piccola a svegliarsi all’alba per andare nei campi dove, spesso, restava fino a sera mangiando un tozzo di pane con quel che la stagione offriva. C’era Vanda a dirigere la baracca. Donnina tanto minuta quanto forte, sapeva il fatto suo: bastava la sua voce a sedare una lite tra Carmela, impettita nel suo scialle di lana fiorato, e Luigina, faccia barbuta, incorniciata da un foulard dai colori improbabili. Motivo del contendere? Le caramelle che i visitatori distribuivano o la sfacciataggine di Luigina che, la bocca piena delle golosità ricevute, ne chiedeva ancora. “Non ti abbotti mai!” l’apostrofava Carmela, e giù epiteti irripetibili.
Armanda se le osservava. Loro, come lei, erano madri di qualcuno. Rosa aveva allevato 5 figli (il marito l’aveva lasciata per un’altra): si era rimboccata le maniche e i ragazzi avevano fatto la loro vita, in paese, in America o in Australia. Lei era rimasta nella sua casetta finché non aveva iniziato a dar segni di demenza senile. Ora ogni tanto inviava un messaggio all’esterno perché i figli la venissero a trovare, usando come messi i parenti delle compagne di sventura. Poi Rosa prese ad appassire e cominciò a chiedere in giro, non senza scusarsi mille volte, dove fosse la sua stanza. Luigina, invece, si manteneva lucida pensando solo al cibo: il pranzo e la cena erano le priorità. Ricordava anche i nomi dei visitatori e il loro ruolo in quel carosello di varia umanità. Si affacciava al balcone al suono del citofono, sempre curiosa, impicciona, come l’apostrofava Maria, rossetto e smalto fucsia, capelli tinti, raggruppati in una codina di cavallo. Da giovane (non si era maritata, diceva, per restare con la madre) Luigina era una di quelle comari che spiavano dalle persiane socchiuse chi andava e chi veniva in paese.
Armanda, invece, non s’impicciava, disinteressata alle umane vicende. Non amava sentire chiacchiere sulla sua famiglia e pretendeva che la condotta dei figli fosse esemplare. A messa la domenica, vestiti sobri e regole ferree. Ora, su quel letto, pensava a quanto sarebbe stata diversa la sua vita se… O forse no! Si lavora, si ama, si brucia per finire nel nulla “come panini imbottiti di terra”. E lei la terra l’aveva ben presente: ne conosceva l’odore, le asperità, la durezza, ma anche la vitalità nella gioia delle messi. E da brava contadina, dalla sua camera, tra disegni fatti dai nipoti a farle compagnia, era giusto tempo di bilanci. Il raccolto di una vita era davanti, nello sguardo amorevole della figlia maggiore (che lei non aveva mai consolato con un abbraccio), nelle frugali carezze del suo Peppino (quel taciturno che tanto le somigliava) e nei baci della più piccola, ribelle marzolina. Ah, sì, poi c’era Claudio il più amato e il più vessato: le piaceva ricordare come la inseguisse con la sediolina di legno, perché voleva “i sisitte” chiedendo di essere allattato ancora a 3 anni! Uno scavezzacollo indomito. Un giorno Claudio tornò da scuola su una bici presa in prestito, disse. E lei, sotto la pioggia, dopo avergliene date di santa ragione, lo costrinse a riportare il maltolto al proprietario. Però anche quel monello la vita se l’era costruita e ora non faceva che lavorare.
Bene, si disse, a fine rassegna, al diavolo il respiratore: era tempo di abbandonare quel corpo. I piedi erano gonfi, piagati, ma non sentiva dolore. Gli occhi spalancati sull’altrove, un ultimo sorso d’aria e il ruvido cuore s’arrese, nell’istante in cui una mano le cinse le spalle. Era il suo antico, unico amore, il padre dei suoi figli, l’adorato Giovannino, il solo che riusciva a sopportare le sue intemperanze, capace di affibbiare nomignoli divertenti ai suoi tanti difetti e di esaltare le rare virtù. Quel sant’uomo del marito aveva, per i suoi pregi, gli occhi di Linceo, mentre per i suoi difetti era cieco come Ipsèa. Giovannino, che spesso ultimamente era venuto a farle visita, era tornato a prenderla: e lei era pronta a seguirlo in una vita senza affanni.
Il riassunto di una vita difficile tratteggiato con poche immagini, venato non tanto da rassegnazione quanto da una pacata consapevolezza che questa è la vita. Con uno spunto finale romantico davvero toccante. Secondo me trasmette la tranquillità e la pace che si dovrebbe provare in quei momenti. Bello.
La vita di una madre,come una fotografia di un piccolo paesino incastonato nell’Italia del terzo millennio,scattata dagli occhi di una figlia e di tutta una famiglia al suo capezzale.Godibilissimo e di notevole spessore. Racconto dolce ma non melenso.Non privo di durezza ma genuino e sincero.Sicuramente vero.
Racconto venato di malinconia, scorrevole e ben scritto.
Grazie Roberto! L’originale era di 18.000 battute, quindi, ho dovuto tagliare, tagliare, tagliare… Non è stato facile riassumere, ma spero non si sia persa comunque l’essenza del racconto. MI fa piacere, soprattutto, essere riuscita a trasmettere quelle emozioni che ho provato io nell’esigenza di scrivere di mia madre, appunto, e delle sue amiche della casa di riposo. Comunque vada il Concorso, è già un successo per me! Grazie!
Grazie Pierluigi e grazie Maurizio per la bella analisi del racconto.
Non avrei saputo recensirlo meglio!
Un ritratto di asperità e dolcezza che colpisce e accarezza
E’ il ritratto sereno e allo stesso tempo intenso di una donna forte e indomita, tratteggiato con poche istantanee che disegnano, nello spazio di un racconto, una intera esistenza. Anche le figure di contorno sono colte nei tratti essenziali e rendono vivo l’affresco di questo angolo di vita. Se chiudo gli occhi, mi sembra di scorgerle…
Finalmente la Scrittura che così raramente si incontra tra le righe dei tanti libri stampati…Un pezzo di rara bellezza e di grande prova di stile…da leggere e rimanerne estasiati.
Grazie dottor Pensosi! Detto da lei è un gran complimento, soprattutto perché, come dicevano i latini: nomen omen!
Merci bien!
Commovente questo racconto, poi per me che ho la mamma ricoverata in una casa Alzheimer ancora di più! L’abbraccio con cui non l’aveva mai consolata poi .. da lacrima!
Brava Orietta, molto bello. Grazie
Un racconto vivido e ricco di vita vera, che rende con autenticità i pensieri e i sentimenti di una madre e tratteggia con maestria i tempi e le atmosfere della vita in campagna. Mi piacerebbe leggere la versione integrale. Complimenti Orietta…..
Per chi in posti del genere ci ha messo piede, risente la pesantezza di quell’aria che è sempre meno, che è sempre più pesante. Tanto descrittivo che quell’aria la può palpare anche chi non c’è mai stato in quei posti. A tratti viene il magone nel vedere le vite che finiscono lentamente, molto lentamente, nel sentire quell’odore di fine. Puoi quasi guardarle in faccia quelle signore e immaginare la loro vita, senza tanti divertimenti, senza vizi, ripagando, però, il vizio di chi viene dopo. Una vita così povera, ma al tempo stesso tanto ricca di solidi sentimenti, come Giovannino che rappresenta l’amore eterno e che lenisce ogni dolore, anche quello dei calli sulle mani. Complimenti…parole vere e crude. In certe parti mi sono dovuto fermare e riprendere dopo un po’ a causa di quell’odore che mi hai fatto ricordare.
Grazie a Barbara, Emidio e Matteo! Sono davvero belle le vostre riflessioni e mi riempie di orgoglio essere riuscita a trasmettere qualcosa, a lasciare un piccolo segno in chi ha “perso” un po’ del suo tempo a leggere questa storia di ordinaria umanità. Grazie di cuore a tutti!
Cara Orietta, grazie a te che con questo racconto ci riporti ai valori e agli affetti veri della vita. Non voglio farmi condizionare dalla commozione che mi ha colto nella lettura ricordandomi di tua madre, che ho conosciuto in più occasioni insieme ai tuoi fratelli e agli altri parenti, ma noto una capacità di raccontare figlia delle tue qualità giornalistiche. Non è semplice però passare dall’articolo di giornale al racconto. Tu ci sei riuscita. Così come nella vita sei riuscita ad andare avanti con le qualità professionali frutto dei tuoi studi ma anche della forza che ti ha dato quel mondo spartano ma piena di valori in cui ti ha fatto crescere tua madre. Non ti fermare. Continua.
Grazie, Stefano! È bellissimo e molto incoraggiante il tuo commento…
E questo Premio Racconti nella Rete per me è già un successo: di lettori e di critica.
Tanti consensi, ma soprattutto, la cosa che mi rende ben più felice è aver toccato tanti cuori che come me, direttamente o non, hanno vissuto e attraversato le tante difficoltà che la vita ci presenta.
Grazie ancora!
un racconto riflesse un’esperienza troppo umana, mi piace lo stilo di Orietta che è semplice e profondo fino a tocca il cuore del lettori .. molto bello Orietta!
Grazie Mohamed! Sono felice che il mio racconto sia arrivato (prodigi della Rete!) perfino al Cairo… Spero di poter un giorno far leggere anche la versione integrale de La Madre!
Sei riuscita a restituire dignità a ciascuna persona, anche quando pare di sentire delle critiche per gli atteggiamenti di qualcuna di esse. L’esistenza di ciascun di noi scorre su binari riservati e, presi dalle nostre difficoltà, pensiamo solo a noi stessi; arriva però per ciascun di noi il momento di valutare ciò che abbiamo fatto. Credo che non ci si debba permettere di criticare gli altri, ma che si possano condannare le situazioni. Questo non è un romanzo, non si può criticare i personaggi, filosofeggiare e fare la morale, questa è un delicato racconto – biografia di molte persone, tratteggiata con poche o molte pagine, delle quali riporti i loro sentimenti e i loro comportamenti da considerare comunque tutti positivi perché vissuti sinceramente. Belle frasi e il finale con Giovannino. Auguri.
Emanuele.
Grazie Emanuele per il bel commento che leggo solo ora!
Sì, La Madre è soltanto un racconto, il mio, di uno spaccato di vita vissuta, senza pretesa alcuna se non la volontà di ricordare e mettere a disposizione degli altri una vicenda che forse è più comune di quanto pensassi…Insomma, spero sia di qualche utilità per chi lo ha letto o lo leggerà!
Un tema non facile raccontato in modo molto delicato con un finale poetico che, da inguaribile romantica quale sono, non può che piacermi moltissimo!. Complimenti.
Grazie Laura! Spero potrai leggere presto la versione integrale del racconto: esattamente il doppio di quella pubblicata sul sito del Concorso. Buon inizio settimana!