Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2014 “Venusia” di Carla Menon

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

Il rintocco della campana della chiesa di Santa Caterina aveva da poco smesso di suonare, quando una giovane donna si presentò alla porta della sacrestia. Indossava un abito di broccato color zaffiro sul quale mani sapienti avevano ricamato dei grappoli d’uva color dell’oro.  La chioma fluente, nascosta in parte da un velo bianco che le scendeva sulle spalle fino a metà schiena, la faceva assomigliare alla Madonna del Perugino, anche se la parte destra del volto era stata in parte deturpata quasi certamente dalla lama affilata di un coltello. Era visibile che il fattaccio era accaduto da poco perché il sangue fuoriusciva ancora dalla ferita malgrado cercasse di tenere la mano destra premuta sulla guancia.

Il sagrestano, un omino piccolo, calvo con un naso bozzoluto che gli conferiva un’aria buffa, disse: “ Chi bussa alla casa del Signore a quest’ora?” dopo l’ennesimo suono della campanella.

“Madre Santissima!” pronunciò ritraendosi non appena vide la donna davanti a lui.

“Don Luigi, venga immediatamente, di Grazia”.  Disse a gran voce.

“Accorrete, vi prego”. Aggiunse sempre più trafelato.

“Giuseppe, che cosa vuoi a quest’ora? Stavo giusto per mettermi a letto”.

Rispose aggiustandosi il colletto che nella fretta aveva indossato a rovescio.

“O Maria Vergine! Signore benedetto! Muoviti a farla entrare. Non vedi che è ferita.

Povera ragazza, vieni avanti”. Le disse ma la giovane sembrava impietrita come se non avesse sentito le parole appena pronunciate da Don Luigi.

In effetti, Venusia era sordomuta dalla nascita tant’è che l’omino dal naso bozzoluto faticò non poco a farla entrare. Il parroco la riconobbe subito: si trattava nientemeno che della figlia del doge Tommaso Mocenigo. Costui era sbarcato un mese prima nell’isola di Mazzorbo con l’intenzione di affidare la figlia alla badessa del monastero di Santa Caterina perché la giovane potesse ricevere un’educazione “degna” della figlia del doge, l’uomo più potente della Serenissima Repubblica di Venezia. Venusia era tuttavia una ragazza dal temperamento piuttosto ribelle, perciò il padre aveva rimediato mettendole al seguito un drappello di soldati affinché non tentasse di fuggire a sua insaputa. Invece la ragazza era riuscita a eludere la vigilia dei soldati approfittando del fatto che quella sera avevano tracannato vino fino a ubriacarsi.

Chi allora era stato a ferirla in modo così brutale ? Venusia era da poco arrivata sull’isola di Mazzorbo e nessuno degli abitanti era a conoscenza del fatto tranne la badessa e Don Luigi. Malgrado ciò, qualcuno aveva pensato bene di compiere quel gesto efferato forse nel tentativo di rubarle i gioielli.

Venusia indossava, infatti, una splendida collana di pietre preziose e all’anulare della mano destra uno smeraldo della grandezza di un’oliva, monili che il furfante, disturbato, non era riuscito a sottrarle.

“Bisogna avvisare subito la badessa, Giuseppe. Non c’è tempo da perdere se non vogliamo passare dei seri guai. Va’ e dille che la figlia del doge è stata ferita al volto e perde molto sangue”. Gli disse sempre più agitato.

“Corro subito al monastero ma lei Don Luigi cerchi di non farsi prendere dal panico. La ferita non è così grave come mi era parso all’inizio. Guardi lei stesso. Il sangue non esce più come prima”. Rispose continuando a non distogliere lo sguardo da Venusia.

La giovane nel frattempo si era seduta su una cassapanca vicino al camino acceso. Teneva lo sguardo chino sul vestito, dove il sangue aveva disegnato delle strane figure che Venusia si mise a fissare, emettendo dei suoni così flebili che Don Luigi non ci fece caso, preoccupato di risolvere quanto prima la situazione.

Il sacrestano si mise sulle spalle un pastrano, prese una torcia e uscì bofonchiando per l’ora tarda ma soprattutto perché sapeva che la strada che doveva percorrere era frequentata da balordi, che attendevano di solito il malcapitato da derubare, nascosti nel bosco confinante con il monastero di Santa Caterina.

Era quasi arrivato al convento quando gli si parò davanti un drappello di soldati che iniziarono a girargli intorno inneggiando al grido: “Viva il doge Mocenigo!”

Uno di loro si avvicinò a Giuseppe e, guardandolo fisso negli occhi, gli intimò con la voce ancora impastata dalla sbornia di seguirlo fino al monastero, intimando agli altri di tornare all’accampamento. Il povero uomo non se lo fece ripetere due volte: era talmente scosso dall’accaduto che non esitò manco un secondo, non accorgendosi che il pastrano gli era caduto a terra.

Il monastero era avvolto da un lugubre silenzio come se il luogo fosse disabitato. Il sacrestano tentennò un po’ prima di varcare il cancello che stranamente era aperto.

Il soldato, prima di dileguarsi, intimò a Giuseppe di proseguire da solo nonostante il buio fitto rendesse difficoltoso il cammino. Il cuore gli batteva all’impazzata ma, ripensando alle parole di Don Luigi e soprattutto a Venusia che era stata ferita in modo così feroce, avanzò di qualche passo ma proprio in quel momento il cigolio dei cardini del portone lo fece trasalire. La fronte imperlata di sudore e con la torcia che emanava ancora un po’ di luce salì i gradini che lo separavano dall’entrata dove, ad attenderlo, c’era nientemeno che il doge Tommaso Mocenigo in persona.

“Eminenza illustrissima” – proferì Giuseppe non nascondendo lo stupore.

“ Ero giusto venuto per ordine di Don Luigi ad avvertire la badessa che…” Mordendosi le labbra non terminò la frase, pensando che non fosse il momento giusto per avvertire il padre di Venusia di ciò che era successo alla figlia. Tuttavia non riusciva a capire come mai il doge si trovasse all’interno del monastero, per giunta a quell’ora di notte.

Perché era rimasto sull’isola quando invece sarebbe dovuto rientrare a Venezia per presiedere a una seduta straordinaria del Gran Consiglio?

In realtà il drappello di soldati lasciato a Mazzorbo gli serviva come copertura per architettare un piano che da qualche tempo aveva in mente, quantunque avesse lasciato precise disposizioni al comandante del drappello di non divulgare la notizia.

“ Mi rincresce averle recato disturbo Eminenza, ma il mio parroco aveva urgenza di parlare con la badessa per una questione di cui mi duole non poterle fornire la ragione. Dio mi è testimone che non sto mentendo. Come potrei altrimenti di fronte al maggior rappresentante della nostra amata Serenissima?”

Aggiunse pregando la Beata Vergine che lo perdonasse dell’ennesima bugia, ma non aveva altra scelta. Il doge continuava a fissarlo in silenzio nella sua imponenza: all’uomo dal naso bozzoluto appariva come un gigante ,anche se il doge era alto all’incirca come lui ma ciò che lo caratterizzava era l’estrema magrezza, celata dal lungo mantello di ermellino che gli scendeva fino ai piedi .

Finalmente si decise a parlare e con voce prorompente disse: ” Ammiro la sua devozione nei confronti di Don Luigi ma temo che lei mi stia nascondendo la verità. Potrei anche sbagliarmi – Dio mi perdoni se pecco di presunzione– ma, se non ricordo male, il giorno in cui sono sbarcato a Mazzorbo, l’ho notata, poco distante dal molo dove è attraccata la mia imbarcazione, discutere animatamente con un tipo piuttosto strano: portava, infatti, una benda nera all’occhio destro e alla cinta dei pantaloni esibiva un grosso pugnale di quelli che usano certi avventurieri. Fatalità qualche giorno dopo sono stato informato da un tale, di cui non posso svelare l’identità, che mia figlia Venusia era stata rapita, eludendo la sorveglianza dei miei soldati ai quali avevo ordinato di vigilare nei pressi delle mura  che circondano il monastero”.

Aggiunse, avanzando verso Giuseppe, che subito indietreggiò, temendo di non riuscire a reggere il contraccolpo emotivo.

“ Mi creda Eccellenza, non so di cosa stia parlando. Dio mi è testimone che non mi permetterei mai di mentire nientemeno che al doge in persona. Don Luigi glielo potrà confermare se prima di lasciare l’isola vorrà fare visita alla sua parrocchia. Proprio stamattina prima di celebrare messa l’ho sentito dire che …”

Giuseppe preferì interrompere il discorso stabilendo che era più opportuno tacere fintanto che la faccenda non si fosse risolta, anche se aveva come la sensazione che ancora una volta la sorte si stava accanendo contro di lui.

Il doge, infatti, come poteva credere a un povero sciagurato come lui che era stato allevato da Don Luigi dopo che sua madre, scampata sull’isola di Mazzorbo a una morte sicura durante la guerra che i veneziani avevano intrapreso contro i Genovesi, lo aveva abbandonato davanti alla chiesa di Santa Caterina una notte di quasi quarant’anni prima?

Il terrore che stesse per accadere l’irreparabile gli giocò un brutto scherzo: il sacrestano urtò senza accorgersi con il piede sinistro una piccola cassa di legno che forse era stata dimenticata vicino all’ingresso del convento. La torcia gli scivolò a terra ,spegnendosi all’istante davanti ai suoi piedi.

Soltanto la luce soffusa di due candelabri posti ai lati di un piccolo tabernacolo illuminava quel luogo spettrale. Giuseppe si fece forza, cercando di non perdere il controllo, nonostante avvertisse che la paura stava prendendo in lui il sopravvento.  Strabuzzò gli occhi per vedere se il doge fosse ancora lì ai piedi della scala, ma un fumo denso misto a un forte odore d’incenso glielo impedì.

Uscì senza voltarsi dal convento: contava di arrivare alla chiesa di Santa Caterina prima dell’alba. Chissà se Venusia si era ripresa o se malauguratamente la situazione fosse precipitata…– rifletteva, recitando sottovoce il Pater Noster, facendosi il segno della croce ogni volta che terminava di recitarlo.

Giuseppe tuttavia non poteva immaginare che cosa era accaduto in sua assenza: in effetti, come poteva supporre che la giovane si fosse nuovamente dileguata lasciando, sopra la cassapanca, l’abito color zaffiro su cui erano stati ricamati grappoli d’uva color dell’oro. Faceva molto freddo quella notte di fine ottobre dell’anno del Signore 1420 ma Venusia eludendo la sorveglianza del prete, che stava ronfando sonoramente, aveva lasciato la sacrestia richiamata forse da una forza misteriosa…

Un vecchio macilento che spingeva un carretto su cui, ricoperta da un telo sbrindellato, c’era una cassa di legno intarsiato chiusa con uno strano sigillo, scorse la giovane che correva lungo il canale che collegava l’isola di Mazzorbo a quella di Burano. Depose il carretto e strofinandosi gli occhi si diresse verso la sponda sinistra cercando di capire dove Venusia stesse dirigendosi. L’odore dell’acqua, salmastra, e la leggera nebbiolina che saliva dall’acqua rendevano l’atmosfera quasi surreale.

Pochi passi ancora e Venusia sarebbe finita nell’acqua gelida e salmastra sennonché accadde qualcosa  d’incredibile. La giovane si sentì sollevare da terra e deporre sull’erba umida a pochi passi dalla cinta muraria del monastero di Santa Caterina. Si toccò la guancia ferita accorgendosi che, come per miracolo, la pelle era ritornata perfettamente liscia. 

Nell’aria un profumo di miele, di frutta matura, di aromi salmastri aveva trasformato quel luogo in un giardino incantevole con fontane meravigliose e siepi di rose gialle odorose.

Venusia si guardò intorno ma l’unica persona che notò fu un vecchio magrissimo: trascinava a stento una cassa di legno che depose poco distante dalla giovane, svanendo all’istante.

Un tremore le attraversò le membra ma non esitò ad avvicinarsi. Osservò con stupore che su tutti e quattro lati della cassa erano state incise delle foglie di vite ricoperte da una lamina d’oro.

Al centro della cassa, invece, spiccavano due lettere: D e V e una data, 1403, l’anno in cui Venusia era nata.

La giovane provò ad aprirla ma un pesante torpore le pervase le membra: le braccia si allungarono in rami di vite, i piedi invece restarono come inchiodati al suolo mentre il volto si trasformò in un bellissimo grappolo d’uva dai riflessi dorati.

                                    “Venessia, Venissa, Venusia” [1]

                                    


[1] Andrea Zanzotto – Poesie –

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1 commento »

  1. Carla, i tre nomi dell’ultima riga: Venessia, Venissa, Venusia stanno per Venezia? E’ un racconto – leggenda? Questa è la conferma che preferisci i racconti a sfondo storico. Bello stile. Non apprezzo il carattere della scrittura, pur scelto credo in relazione alla tipologia del racconto. Ciao.
    Emanuele.

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