Premio Racconti nella Rete 2014 “Il Fantasma di Orlando” di Anna Bertini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014I fantasmi sono qualcosa che ritorna con certa costanza in una vita. Eppure, quello, il fantasma di Orlando, col suo nome da poema cavalleresco, era stato uno dei pochi fantasmi a sparire del tutto, credevo.
Anche quando i ricordi che lo contornavano si ripresentarono, presero di nuovo forma, vita e chiarezza, lui, il fantasma di Orlando, resto’ invisibile e lontano come il senno del paladino.
La sua voce perfetta, non troppo grave ne’ fendente, aveva abitato il buio della mia stanza per molti anni. Si spandeva nella penombra tutte le sere proveniente dal transistor, lo stesso che mio padre usava per sentire le partite la domenica pomeriggio. In quel giorno il transistor passava di mano. Per il resto della settimana era tutto mio. Dentro, ci stava la radio. Con la musica che la rendeva inconfondibile, la musica che sarebbe rimasta per sempre a farmi compagnia.
La mia radio era musica ma anche uno spaccato di vita allegra e buffa. Aveva smesso le trasmissioni nell’anno del mio diploma liceale, e in quello stesso anno un incidente di percorso mi aveva impedito di diplomarmi al conservatorio. Furono tre carte che uscirono insieme, e fecero i giochi.Un periodo davvero unico si chiudeva. Spesso ne ho parlato come ‘i tempi della radio’, invece che ‘del liceo’ o del conservatorio. Era stata una dimensione avvolgente. E infatti, a un certo punto, l’avevo ritrovata.
Solo Orlando, lui e la sua voce, rimasero nebbia apparentemente, per tutti i lunghi anni che passarono prima che quella radio tornasse nella mia vita, e anche quando questa fu ricomparsa.
La nostra gioventù si era spesa in una provincia italiana poco attraente: almeno dal punto di vista storico e artistico così veniva considerata la nostra città. Non era come nascere in un grande centro storico del Nord o in qualche provincia del sud ricca di arte e tradizione, o nel capoluogo di regione, culla del Rinascimento. Noi abitanti di quella città, persino i più alto-borghesi e apparentemente tradizionalisti, ( categoria sociale alla quale la mia famiglia peraltro non apparteneva ), eravamo in fondo meno inquadrati che altrove.
Il piombo di quegli anni da noi era meno pesante, e quello in cui eccellevamo forse, era questo essere più liberi, più aperti e pronti a tagliare i ponti col passato per generare il nuovo. L’esperienza della nostra radio libera ci aveva regalato momenti esilaranti. Tutto era scaturito dagli entusiasmi di un gruppo di studenti dei licei o del conservatorio cittadino. L’offerta musicale, i vari speaker e dj, i gruppi nati intorno al programma delle dediche con personaggio surreali, i contenitori un po’ pazzoidi e quasi scurrili tenuti a battesimo nella sede angusta dell’emittente, erano davvero originali. Questa sede era arrangiata nella soffitta di un palazzo del centro, con molti piani ma senza ascensore. Il “format”, si direbbe oggi, della nostra radio era, come molte delle cose che vengono partorite nello spirito comune in quella città, nuovo, fatto di intuizioni che erano riuscite nell’intento, nemmeno consapevole, di aprire un capitolo inedito.
Tutti noi che avevamo partecipato nei vari ruoli, come ascoltatori o come fondatori della storia di quella emittente, mantenemmo negli anni del nostro divenire adulti, e nonostante le vicende normali o qualche volta straordinarie delle singole vite, nostalgia dei tempi della radio, sia che fossimo rimasti nella stessa città che ci fossimo sparpagliati più o meno lontano. In tempi più recenti ritrovare le tracce del passato e intrecciare i fili dei destini era diventato facile, grazie al web e i social, e così ci scoprimmo ancora in molti con la viva memoria di lei.
Riprendemmo a scambiarci ricordi, emozioni, come se non ci fossimo mai allontanati da quella soffitta, dai pochi quartieri del centro intorno alle nostre case e scuole, ai gruppi dei nostri amici. E anche a programmare pezzi. Eravamo tutti artefici ora, della radio. La radio non era un fantasma, viveva di nuovo. Decidemmo anche un raduno, una specie di cena dei groupies dell’emittente. Con tanta della nostra musica preferita e tutte le testimonianze che potevamo portare.
Mancava solo lui, Orlando. Con lo spegnersi delle frequenze Orlando era diventato ufficialmente il fantasma di Orlando.
Nessuno sapeva se fosse vivo o morto, se si fosse arruolato nella legione straniera per portare nell’oblio un periodo tanto bello come quello vissuto alla radio, o se invece avesse scoperto, Orlando, che non gliene importava un bel niente di tutte le adolescenti ascoltatrici impazzite per le onde della sua voce e ammaliate dai pezzi di musica che trasmetteva, introducendoli con frasi in francese o con citazioni in lingua originale dai testi dei brani.
Le stesse ascoltatrici ingrate che, quando se lo ritrovavano davanti, si dovevano accorgere con evidente delusione che non si trattava di una versione autoctona di Alain Delon. Orlando era un ragazzetto mingherlino e peloso che celava uno sguardo insignificante nel migliore dei casi, oppure strabico, sotto enormi Ray-Ban a specchio.
Eppure, tali e tante ammiratrici per conoscerlo erano salite con qualche scusa fino alla soffittina. O addirittura erano riuscite, grazie a ore di attesa ( riconoscibili sotto forma di aloni in corrispondenza dell’ ascella sudata ) a incedere a suon di gomitate giù per le scale umide dello scantinato sede di un locale cittadino, nella speranza di partecipare a una delle feste organizzate dall’emittente.
Ero certa che il Fantasma di Orlando fosse proprio l’antimateria di questa storia. Poi un giorno qualsiasi, sotto la doccia, mentre i miei pensieri vagavano come sempre in una specie di proficua confusione, i fili si snodarono, ed ebbi l’intuizione.
Il fantasma di Orlando era come con il senno del Paladino, bisognava spingersi lontano qualche luna, per cercare di ritrovarlo. E io, in effetti, lo avevo incontrato più volte.
Speravo solo che non fossero già troppe.
Un buon fantasma, un fantasma che viene dalla memoria e continua ad essere positivo per te, e ad essere parte del vissuto, lo puoi incontrare al massimo cinque volte diceva Elina, la sensitiva di Budapest conosciuta a un corso di lingua negli anni ottanta. Compare in giro per il mondo, per rimanere vivo e piacevole nel tuo ricordo. Può succedere che tu lo ritrovi dove e quando meno te lo aspetti, e non e’ detto che ripassi di la’ dove tu lo hai incontrato. Ma se la quinta volta torna ‘a casa’, per così dire, smetterà di essere un fantasma e tornerà reale. Se però il fantasma torna a casa la sesta volta che lo incontri, sosteneva con decisione Elina, questo significa che non è più un buon fantasma. Qualcosa di negativo deve essere successo, e certamente, la sesta volta e’ anche l’ultima che compare. Quella che segna la sua sparizione definitiva, dalla memoria e dal tuo vissuto.
Il teorema di Elina mi ricomparve con chiarezza mentre lasciavo l’acqua picchiettare il mio viso come in un massaggio capace di far funzionare meglio le zone cerebrali atte all’elaborazione del ricordo. Lo applicai ad Orlando.
A vedere bene, non tutti i segni della sua presenza erano stati abbastanza evidenti. Ma quando decisi improvvisamente di capirli, ci volle solo un po’ di accortezza e, per fortuna, la mia maga magiara mi aveva istruito molto bene. Allora fu chiaro che il fantasma di Orlando c’era stato nella mia vita, eccome.
Non biasimerò chi vorrà conservare un po’ di sano scetticismo su queste teorie, ma vi invito lo stesso a leggere questo breve sommario degli imprevisti incontri con lui. Non potrete fare a meno di vedere dei nessi, mi pare. Non so dirvi quanto cronologico sia questo breve resoconto, ho cercato di renderlo tale ma, i fantasmi sfuggono alla precisione e, la memoria, anche una decisamente capiente come la mia, spesso, e’ incoercibile.
APPARIZIONI DEL FANTASMA DI ORLANDO
VALPARAISO, CILE.
Sto attraversando in taxi la città di Valparaiso in Cile, per raggiungere la casa di Neruda. E’ una città fatta a strati, densa, verticale, che precipita verso il mare. Mentre viaggiamo sono in osservazione della vita fuori dai finestrini; le strade sono abbastanza larghe, salgono e scendono, come a S. Francisco, fiancheggiate da case colorate, grandi insegne di cartone, bidoni, negozi, e piene di gente che viene e va. Ad un certo punto il traffico comincia ad addensarsi, non si riesce più a procedere, siamo quasi fermi. Il taxista sostiene che non siamo lontani dalla destinazione: la casa del poeta e’ a pochi metri da qua, nella strada parallela. Se lo desidero, posso scendere e con pochi passi a piedi raggiungerla in breve tempo. Lo ringrazio, se può accostare da qualche parte pagherò la corsa e proseguirò a piedi. Mi fa cenno di uno spiazzo sul lato, lo raggiunge. Pago, e scendo. Uscita dal taxi, giro l’angolo di un cubo di lamiera che pare la sede di qualche ditta commerciale, e mi trovo sotto un’ enorme insegna di cartone con su scritto ORLANDO POMPAS. Si tratta di un rivenditore autorizzato di pompe per l’acqua. Ma questo e’ proprio il nome di Orlando! Orlando faceva Pompa di cognome, improponibile, vero, per un tenebroso e romantico dj della mia radio preferita! Non riesco a non pensare a lui, invece che alle pompe dell’acqua, e immagino che sia sparito dalle nostre vite per aprire un qualche commercio in questo lontano luogo.
SEGESTA, SICILIA.
Sono salita fino a quel colle che ai greci doveva aver ricordato il Parnaso per vedere uno spettacolo non proprio tradizionale di pupari siciliani. E’ l’alba di una domenica di estate. Sole e luna si fronteggiano nel cielo. L’uno sale lento e un poco velato e l’altra piano si sbiadisce nella luce del mattino. Il puparo, uno degli ultimi rappresentanti di una famiglia storica siciliana, sfodera la sua voce pastosa e la plasma, le conferisce del metallo che risuoni mentre le armature dei pupi-paladini impegnati in battaglia fanno rumore nello spazio enorme dell’anfiteatro, riempiendo il silenzio dei campi circostanti, giù fino al mare. Ma quando il paladino Orlando non combatte, la voce si fa morbida, suadente, più intima.
Forse mi ricorda qualcuno, non so chi in quel momento.
Le gesta cavalleresche sono divise in scene, e sottolineate o introdotte da musiche di diversa provenienza. I pezzi sono scelti con grande efficacia e varietà.
Quando entra in scena Angelica le note di ANGIE si diffondono nell’aria piano, per poi crescere. La voce di Mick e’ tagliente in quel silenzio, e il puparo la sovrasta, citando il testo con una pronuncia non impeccabile a dire il vero, ma ciò non toglie fascino alla sua interpretazione:
Angie, Angie, when will those clouds all disappear?
Angie, Angie, where will it lead us from here?
L’emozione dello spettacolo e’ grande, scendo dal colle rapita alla sua fine, e non mi abbandona la sensazione di qualcosa, qualcuno dal passato che mi e’ stato riportato alla memoria. Non so chi; frugo nel ricordo….Mi guardo intorno, possibile non trovare niente? Poi mi distrae la bellezza di quel luogo così speciale. Solo oggi, so di chi si trattava.
ORLANDO, FLORIDA.
La musica inonda il Diner tutte le volte che un bambino ordina quel piatto. Si chiama Long Train Running, come il titolo del bellissimo pezzo dei Doobie Brothers, anni 70. Il gestore del Diner ama molto quel pezzo ed e’ contento che lo abbia riconosciuto. Gli racconto che era lo stacchetto di un dj sulla mia emittente preferita, ascoltavo sempre quel programma. Che strano dice lui, più o meno in quegli anni anche io facevo il disc jockey in una radio locale, bei momenti, gioventù e tanta music. Music was my first love! Esclama citando un altro famoso pezzo in modo abbastanza scontato, mentre serve a mia figlia lo strano sandwich, lungo come un treno e farcito da scoppiare. Noi ci siamo trovate catapultate fuori dal parco divertimenti vicino alla città all’ora assai tarda di chiusura, mia figlia e’ ancora esaltata e io invece ho lo guardo spento e non trovo niente di mangiabile in quel posto.
Adesso ci si mette pure lui e mi racconta tutta una serie di ricordi della sua fantastica youth. Riusciamo a lasciare il locale e a trascinarci verso l’albergo dopo aver ascoltato la sua epopea di promettente musicista finito – ahi noi! – a gestire un diner. Che fortuna! Mi chiedo perchè spesso mi capitino incontri assurdi di questo tipo, e che senso mai avranno, nella mia vita. Ma quel giorno, evidentemente, non sono pronta a capirlo. Eppure, gli elementi, ci sono tutti.
CHAMPS ELYSEES, PARIS
Sono invitata alla prima dell’Orlando di Haendel al Theatre du Champs Elysees, Parigi. Il teatro di regia trionfa, e uno dei registi – guru della contemporaneità offre la sua chiave di lettura dell’opera barocca ispirata alle gesta del Paladino.
Come accade spesso di questi tempi l’opera e’ trasposta in altra epoca se non anche in altri luoghi.
Siamo negli anni settanta, Zoroastro e’ un dj che fa incantesimi e magie attraverso un juke-box Wurlitzer, che si aziona con lo sguardo e con la gestualità senza bisogno di toccarlo. Ne escono filtri d’amore, musiche paralizzanti, armonie che annientano la memoria, antidoti e fatture, che si evidenziano sotto forma di azione sui corpi dei protagonisti, mentre sullo schermo a fondo scena si vedono le copertine di alcuni dischi di baroque-pop risalenti agli anni sessanta e settanta, tra cui Burt Bacharach con Walk on By, gli Zombies per She’s not There, The Left Banke con Walk Away Renée, i Beatles di Eleanor Rigby, i Rolling Stones con Lady Jane e alla fine A Whiter Shade of Pale dei Procol Harum.
Orlando e’ un mercenario in mimetica che presta la sua azione al servizio di truppe cosiddette di pace, spostandosi tra paesi dell’Africa in sommossa, un oriente diviso tra oltranzismi e conquistadores, e qualche vecchia europa che si rifa’ il maquillage geopolitico. Ama Angelica, la quale, in sua assenza, ha perso la testa per un nobile capo-clan africano, Medoro, arrivato in Europa per gli studi. Di lui e’ invaghita anche Dorinda, una giardiniera che coltiva le sue serre, nelle quali Medoro lavora part-time per finanziare gli studi.
Tornando per un breve congedo Orlando viene a sapere del tradimento di Angelica ed esce di senno.
Toccherà a Zoroastro, con i poteri della sua musica, rimettere in ordine gli equilibri e far ritrovare al Paladino la pace.
Mentre i protagonisti dell’opera cantano le loro ripetitive arie barocche tutte impervie di acuti e gorgheggi, dietro la scena scorrono ora le immagini dei grandi raduni musicali e concerti della beat generation.
‘ All we are saying, is give peace a chance’, viene scritto sullo schermo all’ultima scena, mentre i protagonisti dell’ opera si rappacificano tra di loro.
Alla fine dello spettacolo, esco sugli Champs Elysees illuminati dalla notte parigina, e questa volta non può mancare il collegamento e il ricordo di Orlando, che con la sua voce flessibile e pastosa introduce il programma serale con Bonsoir tout le Monde, o si congeda con Bonne Nuit a tous le Jeune filles.
Ma cavolo come era proustiano Orlando, mi dico sorridente mentre raggiungo la compagnia; e’ quasi primavera qui, le fanciulle e la natura stanno per tornare in fiore, Parigi profuma come la gioventù di allora, e una specie di entusiasmo adolescenziale mi coglie mentre spingo la porta girevole del Bistrot dove andiamo a cena.
CONCLUSIONI
Tirando le somme, avevo incontrato il Fantasma di Orlando gia’ quattro volte, e a voler dar credito al teorema di Elina, eravamo ad una svolta. Certo, eravamo ad una svolta, perche’ il raduno della Radio era già fissato e mancavano poche settimane oramai a che tutti noi ci saremmo rivisti, decenni dopo, per far rivivere quell’epoca e i nostri ricordi.
In poche parole, esistevano due possibilità riguardo al Fantasma di Orlando: o tornava anche lui a casa, e quindi avrebbe fatto parte integrante di quel revival, e della nostra memoria, oppure, chissà, sarebbe apparso altre due volte altrove e poi sparito per sempre, dissociandosi dalla nostra ricostruzione di quella bella gioventù, e gettando un ombra sinistra sulla Radio.
Questa ipotesi non mi piaceva, e mi pareva ingiusta. No, non poteva finire così. Ma dove era finito veramente Orlando? C’era qualche possibilità che si nascondesse tra i vari frequentatori della pagina dedicata alla nostra Radio sui Social, o che fosse comunque tramite questi rintracciabile?
Mi impegnai in una ricerca. Controllai alcune persone o dj con il suo nome o con nomi imparentati col suo, persone che potessero risiedere nelle vicinanze della mia città natale, e altre fantasiose combinazioni. L’unico candidato residente in un cerchio di raggio diciamo 200 km intorno al nostro luogo poteva essere un certo Pompeo Paladino, che si trincerava dietro alla foto di uno di quegli sgraziati robot che piacciono ai maschietti, con le mani a forma di martello. Difficile immaginare che la’ sotto si nascondesse il nostro Orlando. I vari personaggi che portavano il suo nome vero risiedevano tutti tra Caracas e San Paolo in Brasile, dando credito alla versione di un Orlando trasferito in Sudamerica, magari quello della ditta delle pompe per l’acqua.
Poi c’erano vari Dj Paladin, Orlando, e un certo Pompa, dislocati tra le Filippine e la Romania, passando per Louisville, e poco più che adolescenti, che proponevano musiche tecno e tormentoni acustici vari. No, non era questa la pista da seguire. Orlando, non lo avremmo certo trovato.
Tuttavia oramai la mia immaginazione aveva preso la sua strada, e io vedevo già davanti agli occhi la serata del raduno nella mia città: la primavera avanzata, le strade chiare di luce, il salmastro che si respira anche nel centro, e noi. Noi ora adulti, ciascuno con le proprie storie ( i fallimenti, le conquiste, gli amori, i figli, le separazioni, le nuove unioni, le pancette sporgenti, i capelli non pervenuti, i capelli ormai bianchi sotto qualche nuovo colore, i trasferimenti, qualche malanno: tutti così cambiati da allora e tutti di nuovo riuniti nel nome della radio ) che proviamo a tornare un poco adolescenti. E proprio quando qualche bicchiere di vino o birra e la musica dei nostri miti ci hanno fatto perdere l’imbarazzo di essere così diversi e un po’ più grigi dentro, da qualche parte che non vogliamo far intuire, proprio quando non ci sentiamo più un po’ buffi e un po’ sconosciuti, e ci mettiamo a ridere, ballare, cantare forte, ecco, entra Orlando, come il commendatore nel Don Giovanni, solo molto meno imponente….. e parafrasando la figura di Mozart esclama, mentre noi lo guardiamo con stupore, fermi nella musica che continua a pulsare ‘ NON MI CHIAMASTE MA SON VENUTO COMUNQUE…. ‘
Così il Fantasma di Orlando sarebbe divenuto di nuovo Orlando, un canuto signore che lavorava, che ne so, in uno studio commerciale di qualche cittadina adriatica, e preparava scalette di pezzi per le feste di ferragosto sugli stabilimenti balneari, o per qualche compleanno di diciottenne in un locale di questi dove si fanno gli ‘apericena’, per usare questo neologismo di moda, mescolando le hit degli anni 70, qualche evergreen e ruffianerie di oggi.
IL RADUNO
Ma intanto, mentre io mi ostinavo a cercare i segni del ritorno a casa del Fantasma di Orlando, le settimane erano volate, e il giorno del Raduno della Radio, era arrivato davvero.
Mi preparavo, in modo un po’ buffo, era come un rewind fino alla gioventù. Certo che gli anni mi avevano cambiata, ma essendo piccola di statura, avevo un vantaggio. I camicioni di garza ricamata che mi aveva confezionato allora mia madre, o che avevo acquistato sulla spiaggia nel luogo dove passavamo a quei tempi la villeggiatura, quelli, li avevo ancora e per fortuna ci entravo ancora dentro, non aderivano neppure troppo. Ne avrei indossato uno. Alle aste di internet avevo recuperato un pantalone jeans vita bassa e gamba svasata della stessa marca di quelli che preferivo allora. Vivevo l’eta’ raggiunta in modo naturale; il fisico adolescente era oublié in buona pace. Ero una cinquantenne e si vedeva. A parte vivere in modo più sano e sportivo possibile, non ero orientata a remare contro la natura per rimettere indietro l’orologio biologico.
Ma quegli abiti potevo ancora metterli, erano nel mio stile, semplice, fresco. Ero ancora io, in continuità con quei miei bellissimi anni, ancora entusiasta, ancora idealista, ancora facilmente emozionabile, molto più sicura, certo, e soprattutto sempre immersa fino al collo nell’universo della musica, che da una passione era diventata la mia professione.
Il più bel gioco del mondo mi aveva offerto la possibilità di praticarlo guadagnandomi il pane. Ero una privilegiata. Lo sapevo, mi sentivo grata.
Così, quel pomeriggio, mi avviai verso la mia città natale.
Anni trascorsi tra le culture anglosassoni avevano fatto di me un’ inguaribile amante della puntualità ed appena parcheggiata l’auto lungo i canali che, tagliando in settori la città, vanno verso il mare per consentire il passaggio alle chiatte e ai pescherecci che svolgono i commerci, mi accorsi di essere addirittura in largo anticipo; quel Raduno mi metteva un po’ d’ansia.
Dovevo trovare un passatempo adatto a tirare un po’ tardi. Pensai a quali erano quelli di allora: erano, a dirla tutta, gli stessi di oggi. Ore tra gli scaffali delle librerie e i negozi di dischi, soprattutto reparto usati, e poi pellegrinaggi nei luoghi per me più magici della città; oppure andare a sedersi davanti al mare, e guardarlo come se tutti i giorni dell’anno li’ lo spettacolo venisse cambiato allo stesso modo del palcoscenico di un teatro, e tu vedendolo ogni volta per la prima volta, rimanessi ammutolita dalla novità.
La prima tappa sarebbe stata una libreria non lontana dal luogo del raduno, appartenuta ad una grande famiglia ebraica cittadina, e che ancora conservava l’arredo originale degli anni d’oro in cui era di fatto la più grande e fornita libreria della città. Li’ si prenotavano i libri per la scuola, mia mamma ci passava qualche pomeriggio l’anno per l’aggiornamento sui testi scolastici appunto, e io l’accompagnavo e intanto cercavo i miei romanzi preferiti, sfogliavo gli scaffali prima dei libri, inalavo il loro profumo, che ora, mi sforzavo di ritrovare insieme al luccichio degli occhiali del proprietario; ricordavo ancora quel volto, si chinava su di te quando chiedevi un titolo, guardandoti con interesse e discostando le lenti per farlo meglio.
Le novità, che strano, non le guardavo quasi mai entrando in una libreria. Avevo sempre paura di trovarci i romanzi delle classifiche di vendita, dei premi letterari, degli scrittori best-seller, che in genere, non mi interessavano. Ma quella volta entrando da sotto i portici della più grande arteria cittadina, prima mi ero lasciata prendere dalla prospettiva del locale, dalle vetrate del retrobottega aperte sul cortile interno di un grande palazzo anni sessanta, dalla direzione della scaffalature che ancora correvano dritte verso quella luce esterna, fino ad arrivare al bancone al fondo.
Poi dall’ atmosfera, non tanto diversa a dire il vero dal punto di vista strutturale, ma comunque oramai priva di quel fascino, di quel religioso ossequio per il libro, che allora vi regnava. Così mi ero sentita come se tenessi un comportamento strano, e per mitigare questa impressione mi ero accostata al primo banchetto entrando, quello delle novità.
Forse fu per evitare quelle brossure coi caratteri del titolo un po’ gotici e cubitali, forse fu per il colore intenso e scuro della sua semplice copertina cartonata che sporsi lo sguardo verso quell’alto volume adagiato vicino all’angolo retrostante del banchetto, sul quale si allacciava una fascetta chiara con su’ scritto: NUOVA EDIZIONE CRITICA arricchita con INSERTO – VIRGINIA WOOLF; ORLANDO.
Virginia Woolf, un altro mito di quegli anni, anni in cui la divoravo, non solo i suoi romanzi ma le biografie dedicate alla sua vita, al gruppo di Bloomsbury; quella scritta da suo nipote Quentin Bell per esempio, che mi ero trascinata a chissà quanti collettivi e gruppi di teatro, a scioperi e magari fino sotto il palazzo della radio. Eppure, a quei tempi quel romanzo non lo avevo mai trovato. Più tardi, a fine anni ottanta, lo avevo letto e considerato una vera rivelazione, rivelazione che si era amplificata quando nei primi anni novanta, avevo visto il film ispirato a quel romanzo e alla vita della scrittrice Vita Sackville West per la regia di Sally Potter.
Presi il libro in mano. L’inserto era riferito proprio a quel film. C’era un ampio reportage, pieno di immagini, chiavi di lettura, e il romanzo, diventato meno scottante e impopolare in questi tempi, considerati i contenuti, aveva ricevuto una nuova traduzione ed una più puntuale edizione critica.
Mi girai subito verso la cassa col libro in mano, pagai, aspettai che dalla mano della commessa il volume scivolasse in una bustina di carta sponsorizzata da una casa editrice, che mi fu consegnata, e uscii di nuovo sotto i portici nel passeggio della gente.
Ero nella mia città natale, con addosso vestiti che richiamavano la fine degli anni settanta, l’epoca dei miei studi liceali e musicali, e l’epoca in cui ascoltavo e amavo un’ emittente radiofonica; questa emittente appunto che avremmo festeggiato stasera insieme a persone che non avevo più visto da allora.
Avevo passato settimane a cercare di riportare a casa il Fantasma di Orlando, proprio qui e oggi, per questo raduno.
Avevo in mano un libro dal titolo ‘ORLANDO’, scritto da una scrittrice che leggevo molto allora. Ecco, il fantasma, non poteva essere più a casa di così qui e oggi. Eppure, non mi bastava ancora. Avevo sposato la teoria sui fantasmi di Elina, la sensitiva, e la avevo applicata diligentemente ai miei ricordi: avevo trovato un mondo di allusioni e significati che la vita ti mette a disposizione perché tu possa leggerli e capirli.
Quello che mi interessava adesso era sapere cosa significasse che Orlando, il Dj scomparso della mia radio, fosse in quel libro ora, in una storia così particolare e complessa.
La storia era quella di un personaggio ammaliante e androgino vissuto nella Londra seicentesca, cortigiano ambiguo pregato di non invecchiare dalla Regina e tutti coloro, molti, che ne subivano il fascino e lo volevano intatto. Colto improvvisamente da sonno catartico, Orlando al risveglio decide di lasciare la corte inglese per attraversare gli orienti come ambasciatore, e invece di spostarsi solo attraverso i luoghi finisce per attraversare le epoche, vagando nella storia; alla fine pero’ sposa la contemporaneità dopo essersi fisicamente trasformato da uomo in donna, una poetessa.
Pensai al nostro Orlando, che di fatto, per noi, era rimasto quello dentro la soffitta, coi vinili e gli LP, i baracchini e i trasmettitori, le frequenze e i mixer, e i suoi Ray-Ban a specchio.
Lui, per noi, non era invecchiato.
Ma intanto noi, che ce n’eravamo andati a giro, per il mondo e per gli anni, per gli stili musicali, le emittenti radiofoniche, passando dai transistor ai sintonizzatori, dai walkman agli mp3, ai computer e alle mediateche, noi ce lo eravamo portati dietro.
Ciascuno di noi, maschio o femmina, che lo avesse ascoltato e ricordato tutti questi anni, anche solo per sfotterlo e divertirsi a immaginare che fine avesse fatto, lo aveva fatto vivere e lasciato contemporaneamente trasformare, passeggiare attraverso le epoche; sempre uguale, con la sua voce, il suo fisico mingherlino e le sue scelte musicali; e sempre diverso, diverso come eravamo noi adesso. Potevamo, io o uno qualsiasi di noi, riprendere un programma con le caratteristiche di quello condotto da lui, in una webradio, in una pagina social, in uno streaming, e quello sarebbe comunque stato un programma di Orlando.
Se anche questo personaggio oggi fosse esistito lontano da qui, diverso, irriconoscibile, inutile, noioso, enfatico, grottesco o cos’altro per noi ne esisteva di fatto uno soltanto, quello che vive qui, oggi, nel nostro ricordo, congelato negli anni della nostra radio.
Non c’era più bisogno di cercarlo, e di pensare che avrebbe gettato ombre oscure o misteri sulla nostra idea della radio e di farla rivivere. L’emittente riprendeva vita insieme a lui, e non certo senza.
Ma ora, ora era tempo, potevo avviarmi, il Raduno, stava per iniziare.
Cara Anna, avevi la preoccupazione di comunicarci tante cose al punto di appesantire il racconto. Senza dubbio sono tutte puntualizzazione appropriate che risentono però di quella preoccupazione togliendo la freschezza al racconto. Io sono rimasto deluso e confuso, scusa; forse non valeva la pena cercare Orlando o il suo fantasma. Ciao.
Emanuele.
grazie comunque della lettura. per me cercarlo valeva in ogni modo. Anna.