Premio Racconti nella Rete 2014 “Chi può dire cosa ha in testa un topo?” di Bruno Della Queva
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014Puoi prendere le birre e portarle al tavolo? Grazie, sai com’è. Dicevamo? Ecco, sì: vuoi sapere come mi sono fatto questo. Beh, è una storia davvero assurda. Saresti il primo a sentirla per intero. Non so perché proprio a te. Forse perché hai le orecchie grandi. O forse è semplicemente arrivato il momento di raccontarla a qualcuno, questa storia.
Il fatto è successo il giorno del mio trentunesimo compleanno. Ero sceso per ritirare un po’ di soldi e andare a fare la spesa. No, ma quale festa! Se c’era una cosa che pensavo mentre camminavo in direzione del bancomat era questa: cosa ci sarebbe da festeggiare? In quel periodo non facevo niente di niente: niente lavoro, niente studio, niente amici. Mi sembrava che tutti volessero giudicarmi. E condannarmi. Potevo sentirli i loro giudizi, e vedere i loro indici aguzzi puntati contro di me. Per cui me ne stavo per i fatti miei. Passavo i giorni a rinnovare propositi – sempre gli stessi – per poi vederli affondare. Mi svegliavo con calma, bevevo il mio caffé, sedevo al tavolo e accendevo il computer con l’intenzione fermissima – le mie intenzioni erano sempre fermissime – di reperire indirizzi, selezionare proposte, inviare curricula; e succedeva che quattro ore dopo mi ritrovavo davanti allo schermo a leggere il Corriere, spiare i profili dei miei “amici”, vagabondare su youtube. La vita andava avanti così; di tanto in tanto, una o due volte al mese, cadevo nell’autocommiserazione e nel disprezzo; poi tutto passava, e tornavo a formulare propositi che mi sembravano nuovi di zecca, ma che invece erano sempre gli stessi e sempre nello stesso modo naufragavano.
Quel giorno, quello del mio trentunesimo compleanno, ero nel pieno di una di queste crisi. Quando raggiunsi la banca e mi accorsi che lo sportello era fuori servizio la testa iniziò a dondolarmi sulle spalle curve (a volte mi capita ancora: un evento del tutto ordinario mi getta in uno stato di inesplicabile e muta disperazione).
Erano passate da poco le quattro e mezza, il sole iniziava a calare. Non avevo un soldo. Mi sembrava che al mondo non ci fossero disgrazie peggiori delle mie.
Mi girai su me stesso per tornare verso casa. La strada risuonava degli schiamazzi di una moltitudine di bambini che aveva appena abbandonato le aule di un fuligginoso edificio scolastico; due di loro, certamente fratelli, colpirono la mia attenzione: entrambi grassocci, con le teste rasate bionde e le guance rosse per il freddo, uno leggermente più alto dell’altro, i due bambini camminavano ai lati di una vecchia ossuta, che dirigeva lo sguardo prima sull’uno e poi sull’altro, preoccupandosi di non far torto a nessuno nell’ascoltare una qualche diatriba che, per quello che ero riuscito a capire mentre mi venivano incontro, aveva per oggetto la proprietà di un mazzetto di figurine. Dalla manica destra del pesante giubbotto del bambino più alto, spuntava un moncherino arrossato che dondolava con spensieratezza lungo il fianco. La cosa avvenne istantaneamente: tutto ciò che mi rotolava per la testa scomparve, spazzato via dalla visione del moncherino. In un primo momento invidiai a quel bambino la sua disgrazia. Oh – pensavo – come sarebbe bella una disgrazia tutta mia, una disgrazia ben visibile, oggettiva, che possa offrirmi una scusa; come sarebbe bello mostrare il mio moncherino a tutti e dire: ecco, è colpa sua! Tutta colpa sua! Dopo, però, iniziai a provare pena per quel bambino, che aveva una mano in quella della nonna e l’altra chissà dove. E questa pena mi calmò. Sentivo i muscoli della faccia distendersi e la schiena drizzarsi. I miei passi diventarono più rapidi, e tutto mi sembrava infinitamente bello.
Oh no, non sono certo i miei i problemi – pensavo. Non sono certo quelli che ho io i veri problemi – continuavo a ripetermi compilando mentalmente un elenco di tutte quelle persone che avrebbero potuto accusarmi: «No, non sono certo quelli che hai tu i problemi». Barboni, profughi, malati terminali, e dietro di loro una folla di bambini silenziosi, magri, con le pance di pietra: la mesta adunata del pantheon della Miseria Umana sfilava davanti ai miei occhi. Tutto mi consolava. Mi sentii leggero. Dimenticai ogni gravità. Decisi di non tornare a casa, e mi diressi verso il parco.
Passeggiavo tra gli alberi con il mio nuovo passo: un passo audace, con il futuro piantato sulle punte degli alluci. Il sole stava per tramontare. I pioppi e i platani si affidavano al cielo, con i loro rami nudi protesi verso l’alto per pregare. Mi fermai e mi sedetti su una panchina. Volevo conservare l’immagine di questo inverno che stavo – ne ero più che certo – per lasciarmi alle spalle. Fu in quel momento che il topo, un grosso topo grigio, mi passò tra le gambe. Si fermò a pochi centimetri dai miei piedi, girò su se stesso, disegnando attorno al suo corpo un semicerchio con la coda, e si piazzò lì, in quello spazio che si era ritagliato con cura sul terreno e che gli conferiva l’autorevolezza di uno stimatissimo giudice seduto sul suo scanno.
Quando lo vidi, il primo istinto fu di arrampicarmi sulla panchina con le ginocchia strette al petto; se non l’ho fatto, se sono restato dov’ero, immobile, sotto i rami dei pioppi, è stato perché lo stupore sopravanzava, e di parecchio, il ribrezzo: il topo, infatti, mi fissava e rideva. Ti giuro. Rideva non come può ridere un topo – che poi non so, un topo può ridere? Ridono i topi? – ma come un uomo. Un sorriso di scherno, che esprimeva, però, anche una qualche forma di comprensione. Incuriosito, iniziai a piegare con cautela il busto verso il basso e ad allungare il collo; i miei occhi socchiusi si avvicinavano ai suoi, due pallette nere e lucide incastonate nella pelliccia sporca; i suoi baffi mostrarono un fremito; la sua bocca si aprì. «Non hai mai visto un topo ridere?» iniziò a cantare «Apri bene gli occhi sai, perché tu ora lo vedrai», concluse, e spalancò la bocca in una risata ampia, che gli scopriva una lunga fila di denti affilati nell’arcata superiore. No che non mi stupii a sentirlo parlare: se un topo può ridere allora non è poi così impossibile che possa anche parlare – pensai. «Posso?» mi domandò. Io ero ancora piegato e gli risposi di sì, certo che poteva, anche se non avevo minimamente idea di quali fossero le sue intenzioni. Mi saltò sulla testa, le sue zampette rosa si aggrapparono a due ciuffi dei miei capelli. «Alzati» mi disse «non vorrai star piegato in due per tutto il tempo.» Gli ubbidii. Aveva qualcosa, nella voce, che quasi ti obbligava a dire: sissignore!
Dalla testa mi scivolò sulla spalla, piazzò il muso in direzione del mio orecchio destro, e da lì continuò a parlarmi.
«Io ti conosco. Trentun’anni oggi, disoccupato, una laurea. Sei nato e cresciuto a Pesaro, hai studiato a Roma, un anno di erasmus a Madrid, e ora vivi a Torino; quando lo dici ti sembra di aver fatto un sacco di cose, di avere vissuto molte vite. Ma a conti fatti? Qualche lavoretto e tanta indolenza. Beh, ragazzo mio, se posso dirtelo, così non va per niente bene.»
Scese dalla spalla, mi si piazzò sulle gambe, riprese a parlare.
«Ora, guardami bene in faccia e ascoltami» mi disse «in un certo senso io ti voglio bene. Non so dirti perché, ma ti ho preso a cuore. Se oggi ti sto parlando, è perché voglio aiutarti, mi capisci? Bene. C’è solo una cosa che devi sapere» spalancò ancora una volta la bocca, i suoi denti mi sembrarono più grandi di prima «IO NON SONO IL FOTTUTO TOPINO DEI DENTINI, HAI CAPITO? NON SONO IL FOTTUTO TOPINO DEI DENTINI!» gridò; e affondò gli incisivi nel mio polso.
Quando mi svegliai… beh, lo vedi da te.
Hanno detto che me lo sono fatto io, questo. Con una pietra hanno detto. Ma te lo immagini? Io che mi prendo a sassate una mano!
– È stato il topo! – avrei voluto dirgli – È stato il topo!
Ma allora mi avrebbero chiesto come, perché, e io non avrei saputo cosa rispondergli, capisci. Chi può dire cosa ha in testa un topo?
Molto simpatico! Mi ha incuriosita il titolo….leggendolo ho riso, anche perchè sono di Torino e ho una Ditta di disinfestazioni ! 🙂 E, in effetti….chi può dire cos’ha in testa un topo? (peraltro essere intelligentissimo!)
Grazie del commento. In effetti il titolo è un po’ paraculo e suscita curiosità, a differenza dell’incipit che è quanto di più anonimo e scialbo possa esistere. Giusto per combinazione io vivo a Torino e il parco in cui è ambientato il finale del racconto e il Valentino. Effettivamente avevo in mente una versione più lunga in cui dare maggiore spazio al topo e alla sua intelligenza, chissà se – a dispetto della mia rovinosa pigrizia – lo scriverò mai. Grazie ancora del commento.
Mi è piaciuto moltissimo. È un racconto profondamente amaro, l’umorismo c’è, ma è un umorismo nero. Una storia estrema e surreale, con una scrittura fluida e leggera.
I topi non hanno vita facile nella nostra società, ma anche i giovani precari non se la passano bene.
Davvero molto bello! Stile divertente e per niente complesso. Lineare e diretto.
Credo che una versione più lunga avrebbe potuto mettere in secondo piano il senso finale del racconto. Alla fine il topo si rivela essere quella parte di noi stessi che ci guarda da lontano e critica ciò che abbiamo fatto e ciò che non abbiamo fatto. E a mio parere è quel lato di noi che comincia col fare le somme dei singoli momenti della vita e dopo poco tempo non vuole far altro che vivere i restanti momenti. Sì, mi piace pensare che l’uomo si sia svegliato un po’ più topo di quanto lo era prima, così da poter guardare l’essere che vede allo specchio, chiedersi “Chi può dire cosa ha in mente quell’uomo?” e sapersi dare una risposta.
un argomento che interesserebbe moltissimo a mia figlia che da quando le abbiamo detto che non esiste il topino dei denti ci odia! 🙂 davvero simpatico
Ben scritto,
racconto piacevole e
surreale
con finale
enigmatico.
😉
@Francesco Saccà In effetti il topo è un po’ il super-Io del protagonista, la sua voglia di giudicarsi e condannarsi senza appello e senza dover(si) dare delle giustificazioni. Ma queste sono interpretazioni a posteriori. Più prosaicamente, mi divertivano molto due cose: l’idea di far cantare Battisti a un topo (Battisti è stato interpretato da cani e porci, perché non includere anche i sorci); la frase “non sono il fottuto topino dei dentini”. Penso che comunque lavorerò a una versione più lunga includendo altri personaggi.
@Anna Bertini Prima o poi l’avrebbe scoperto da sola.
@Maurizio Polimeni Grazie, era proprio così che volevo finisse: in modo enigmatico.
@mara ribera Grazie, hai colto perfettamente le diverse sfumature che volevo dare al mio racconto e la cosa mi rincuora, dato che – non so se capita anche a voi – a racconto finito non riesco più ad avere una visione chiara e a formulare un giudizio critico.
Mi capita, sì. In genere a racconto appena ultimato sono stanchissima ma soddisfatta. Dopo qualche ora se lo rileggo non mi piace più, quasi non lo riconosco. Devono passare mesi senza riguardarlo perché io possa ritrovare una visione chiara di ciò che ho scritto.
Un racconto che parte sottomesso fino a divenire sempre più incalzante. Surreale e ben scritto. Divertentissima la sottolineatura di IO NON SONO IL FOTTUTO TOPINO DEI DENTINI.
Il titolo mi ha sorpreso e invogliato alla lettura. Era inevitabile l’incontro con il topo e il dialogo. Avrei trovato Topolino o Ratatouille? Il protagonista un po’ boy scout degli USA, ottantenne, o il promettente cuoco giunto dalla campagna a Parigi. Nulla di tutto questo, ma non è neppure il fottuto topino dei dentini e da animale, che sa sopravvivere, può dare giudizi e consigli: la coscienza. Puntigliosa e mordace. Forse. Lo stile è convincente e efficace.
Emanuele.