Premio Racconti nella Rete 2014 “Il Ronin di Nagasaki” di Oriana Ramunno
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014La sagoma nera della nave apparve come un mostro uscito dalla nebbia e virò nella nostra direzione. Mi misi a nuotare più veloce, quando la sentii dietro di noi. Fendeva le acque avanzando minacciosa, col rumore assordante delle eliche che ci inseguivano. Mia madre mi spinse in avanti.
– Non voltarti – mi urlò.
Io e la mia famiglia vivevamo in Siberia, ma in inverno andavamo in Giappone. Durante le lunghe traversate, noi piccoli passavamo il tempo ascoltando i racconti dei nonni. Gli anziani erano quelli che avevano più cose da raccontare. Creature di mare, avevano solcato l’oceano fin da quando erano nati. Avevano visto esseri marini sconosciuti e leggendari, erano capitati in mezzo a tempeste e tsunami. Alcuni avevano visto anche i pirati.
Ascoltando le loro storie, battevamo le acque dell’oceano. Quell’anno, però, era successo qualcosa. Io e mia madre eravamo rimaste da sole, tra le acque di Nagasaki, e all’improvviso la sagoma nera della nave era apparsa davanti a noi.
– Non fermarti – urlò ancora mia madre.
La nave stava aumentando la sua corsa. Guardai in alto. Un uomo sul parapetto reggeva una fune, un altro imbracciava un fucile. Un sibilo tagliò l’aria. Mia madre mi coprì e la lancia le colpì il fianco. L’onda della nave mi sbalzò a qualche metro da lei. Un’altra lancia vibrò nell’aria e la colpì al centro della schiena, spargendo nell’acqua il rosso del sangue. Gli uomini calarono le reti per tirarla a bordo. La vidi allontanarsi, lentamente. Persi l’orientamento e sbattei contro l’elica. Fu allora che le acque del mare mi avvolsero, trascinandomi giù.
Quando riaprii gli occhi, ero sulla spiaggia di Nagasaki. Sentivo l’acqua arrivare alle mie estremità, bagnarmi e poi ritirarsi. La risacca era lenta e cadenzata. L’odore forte del salmastro, portato dal vento, mi rassicurò.
Quando capii dov’ero, cercai di muovere la coda. Sentii la pelle tirare. Dovevo essere fuori dall’acqua da ore, ormai. Tentai di muovere anche le pinne anteriori, ma nulla. Ero bloccata. Arenata su quella spiaggia.
All’improvviso, il panorama della litorale venne sostituito da due piedi nudi e raggrinziti. Sollevai lo sguardo. Un vecchio era chino su di me e mi sorrideva. Prese con le mani dell’acqua e me la versò sul capo, facendo scivolare la mano sulla pelle tesa. Una sensazione di freschezza mi fece stare meglio, ma fu solo un attimo. L’uomo mi guardò negli occhi, stringendo i suoi in due mezzelune nere, e andò via.
Tornò dopo poco. Trascinava dietro di sé un carretto pieno di oggetti. Posò a terra un secchio, una cassetta di legno intarsiato, una spada e una coperta di tela. Prese il secchio e lo riempì d’acqua. Me la versò lungo tutto il corpo. Mi coprì con la coperta di tela e la bagnò completamente. Poi si sedette di fianco a me.
Era un uomo esile come un giunco, coperto di rughe. I capelli bianchi, sottili come lanugine, gli ricadevano sulla schiena e sul petto, confondendosi con i lunghi baffi. Se ne stava seduto con la spada sulle gambe incrociate, aspettando in silenzio. Sapeva bene che qualcuno sarebbe arrivato. Dopo poco, infatti, sentimmo dei passi.
– Ronin, via da qui – gli disse un uomo, avvicinandosi.
Il vecchio si sollevò, sfilò la spada e gliela puntò contro.
– Vecchio pazzo – borbottò il giovane. Fece un passo in avanti, fino a che la punta della lama gli premette sul petto.
– Lascia stare la balena – minacciò il vecchio.
– Andiamo, ronin… La gente ha fame e questo è un dono dal cielo. Siamo in guerra, quel cibo serve.
Il vecchio non si mosse dalla sua posizione.
– Domani tornerò con gli altri e sarà bene per te essere già a casa.
L’uomo andò via e il vecchio tornò a sedere. Scavò una piccola fossa nella sabbia e la riempì di pezzi di legna. Li accese e soffiò sul fuoco, facendo scintillare il carbone. Dalla scatola di legno tirò fuori un bollitore pieno d’acqua e lo mise sulla brace. Prese una ciotola, vi versò il tè in polvere e lo unì all’acqua bollente, mescolandola con un frustino di bambù. Poi bevve a piccoli sorsi, senza staccare mai gli occhi dall’orizzonte, e iniziò a parlare.
Nel paese era conosciuto come il ronin di Nagasaki. Dicevano che fosse pazzo, perché andava in giro vestito come un antico samurai. Portava un’armatura rossa e una spada. Diceva di essere un samurai che non aveva più un padrone, un guerriero errante. Ronin significava uomo onda, mi disse, e forse era per questo che il mare ci aveva fatti incontrare.
Il ronin parlò per tutta la notte. Mentre raccontava, si alzava e mi bagnava con l’acqua. Mi rivelò che l’anima di un samurai risiedeva nella spada. Quella del ronin aveva l’impugnatura in legno di magnolia, era ricoperta di pelle di razza ed era rivestita con una fettuccia di seta rossa intrecciata. La lama era affilata e tagliente.
All’improvviso, mentre il ronin parlava, udii un rombo in lontananza. Il vecchio alzò lo sguardo al cielo. Gli aerei da guerra stavano rientrando. Ci passarono sulle teste, in formazione.
– La guerra non è più come un tempo – sospirò il vecchio.
Strinse la spada tra le mani e la accarezzò. Quella era un’arma che non si usava più. Gli uomini ora combattevano con le bombe, con le armi da fuoco e con gli aerei.
Il ronin indicò con il dito la baia di Nagasaki e mi raccontò che quella costa, tanti anni prima, era stata ricoperta dalle teste di undicimila samurai. Le avevano infilzate su dei pali e le avevano lasciate sulla riva, ad attendere l’alba. Quei samurai erano stati battuti dalle armi da fuoco. I cittadini di Nagasaki si erano dichiarati cristiani e l’Imperatore li aveva condannati a morte, ma il popolo decise di reagire. Duecento ronin impugnarono le armi per proteggere i cristiani ed elessero come loro capo Amakusa Shiro. Il giovane samurai chiese a tutti quelli che volevano combattere per la libertà di seguirlo nel castello di Hara. Uomini, donne e bambini si barricarono con lui, ma dal mare spirò vento di morte. Il castello fu colpito con i cannoni. Le mura crollarono e la spiaggia di Nagasaki si ricoprì dei pali su cui conficcarono le teste dei cristiani.
Il ronin finì di raccontare. Mi chiesi perché mai gli uomini passassero il tempo a distruggersi a vicenda. Non aveva un senso, però quella era una bella storia e, se mai fossi tornata a casa, l’avrei raccontata a qualcuno.
Un lontano rumore di passi mi scosse da quei pensieri. Il ronin si alzò di scatto, scrutando nel buio. Sfilò la spada. L’uomo che voleva uccidermi era tornato, accompagnato da un amico.
– Il gioco è durato abbastanza. Ora vattene – disse l’uomo reggendo una lanterna. La fece oscillare, proiettando un’ombra sanguigna sul volto del vecchio.
Il ronin imbracciò la spada. La fece roteare e la calò con forza. Era stato così veloce che non avevo nemmeno visto i suoi movimenti. I due si guardarono, stupiti. Un secondo dopo i loro abiti caddero a terra, tagliati a metà, e i due presero a correre nudi come la natura li aveva fatti.
Il ronin sorrise, si massaggiò la barba bianca e si sedette. Se ne stette a pensare, in silenzio. Quando si decise sul da farsi, si alzò. Tornò con delle funi in mano, mi fece passare la corda sotto la coda e la legò stretta. L’altra estremità la allacciò attorno alla mia testa. Poi prese a tirare, forte. Come facesse quel corpo così vecchio ed esile a trascinarmi, non lo so. Ma lo faceva, pochi centimetri alla volta.
Quando il sole era ormai sorto, cominciai a muovere la coda e le pinne dentro l’acqua. Un’onda improvvisa mi trascinò più a largo, verso la libertà. Ormai in mare, vidi arrivare gli uomini con i fucili e i coltelli. Erano giunti troppo tardi.
Cominciai a saltare fuori dall’acqua, felice. Mi voltai per ringraziare il vecchio, ma non lo vidi più. Ruotai su di me, cercandolo ovunque. Mi immersi. Cominciai anche a cantare, per farmi sentire. Poi vidi il suo corpo. Era poco distante da me, adagiato sul fondo dell’oceano senza coscienza, la barba bianca leggera come una nuvola. Mi avvicinai e col muso lo sollevai, portandolo verso l’alto. Il vecchio ronin riaffiorò tossendo. Si aggrappò al mio dorso, stremato, e io nuotai verso un’isola, lontano dalla baia. Lontano dagli uomini con i fucili. Lui mi aveva salvato la vita e io volevo salvarla a lui.
Un aereo ci passò sopra le teste e virò con un rombo assordante, puntando in direzione di Nagasaki. Il rumore diminuì, svanendo poi del tutto. Dopo un istante, un boato squarciò il silenzio. Un lampo di luce infiammò l’orizzonte, sollevando una nuvola rossa come il sangue. Sembrava un fungo di polvere e fiamme. L’onda d’urto arrivò fino a noi, scaraventandoci più avanti. Il ronin si aggrappò a me, per tornare a galla. Rimase attaccato al mio corpo, mentre insieme guardavamo increduli Nagasaki in fiamme.
Fu in quell’istante che capii che quella che avevo da raccontare alle altre balene, nei lunghi viaggi dalla fredda Siberia al mite Giappone, sarebbe stata la più interessante e incredibile storia mai raccontata da una balena.
La vita è un bene prezioso e di essa gli animali capiscono il valore mentre gli uomini uccidono non solo gli animali. Il tuo racconto, pur trattando argomenti tosti, l’uccisioni di balene, la guerra e la prevaricazione dell’uomo, è delicato e, per quanto mi riguarda, mi ha portato a fare una scelta di campo a favore della balena e del ronin. Lo scenario di Nagasaki è l’unica conseguenza che può generare l’ombra di morte che accompagna l’uomo.
Emanuele.
Se l’uomo non fosse apparso sulla Terra, quanti animali sarebbero ancora presenti sul pianeta!
Avventuroso e un pó triste.
Angela
Bello e sconvolgente.
Mi piace la fantasia che rievoca passate realtà anche se sono brutti ricordi.
Se penso che quella nuvola rossa come il sangue ha ucciso 75000 persone e altrettante ne ha condannate a morte futura, rimpiango di non essere nata balena.