Premio Racconti nella Rete 2014 “L’inizio del nulla” di Luigi Lazzaro
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014L’Uomo timbrò il suo cartellino di uscita e si avviò a passo lento verso il cancello della fabbrica.
Le voci dei colleghi, eccitate dall’affrancamento del venerdì sera, si rincorrevano sotto lo sguardo indulgente dei sorveglianti; i pronostici delle partite del fine settimana si accavallavano con gli ultimi appuntamenti per la serata, rimbalzando tra salaci commenti su provocanti segretarie e annotazioni sulla dubbia moralità delle madri di vari capi e dirigenti.
Nella sua testa ogni suono si ripeteva in un’eco cacofonica mentre l’angoscia si scavava lentamente la tana nel suo petto.
Durante tutta la giornata una sottile inquietudine gli aveva spazzato il cervello, come un turbine di foglie secche, mentre se ne stava seduto, ingobbito alla sua scrivania.
Il suo amico Cenzino, inconsapevole della bolla d’ansia che gli stava avvampando il cervello, si raccomandò che non dimenticasse la partita di calcetto della domenica mattina, consigliandogli per l’ennesima volta di prendere qualcosa per quella brutta tosse.
L’Uomo rispose, svagato, distaccandosi dal gruppo vociante; una parete di ghiaccio nero lo divideva da quella confusa euforia.
L’ora paventata da ormai troppi giorni si stava avvicinando, minacciosa, come nuvole buie che rotolano sul mare.
L’ambulatorio di radiologia presso il quale il suo medico curante l’aveva indirizzato per “un torace” era a pochi minuti di cammino… un “torace”, incredibile come si possa rendere routine anche il dramma.
Quella mattina, dopo una notte insonne tormentata da accessi di tosse, aveva finalmente preso la decisione di sottoporsi a un controllo. Una telefonata in ufficio, due ore di permesso ed era andato dal suo medico, immergendosi nel vitale e disordinato flusso del traffico mattutino.
Lo studio era in un vecchio edificio, non lontano dalla fabbrica; era entrato nell’androne che puzzava di umidità e aveva salito le scale, giungendo al piano affaticato e rantolante.
Pazientemente seduto nell’ambulatorio tra bambini mocciosi, madri impazienti e pensionati dall’aria rassegnata, aveva sfogliato vecchi numeri di Famiglia Cristiana, evitando così il tentativo di due anziani dagli occhi opachi di coinvolgerlo nelle loro sterili lamentele sui giovani d’oggi, i politici corrotti e la scomparsa delle mezze stagioni.
Un forte accesso di tosse gli aveva scosso il petto lasciandolo senza fiato. Gli sguardi severi delle mamme lo avevano indotto a rifugiarsi sul pianerottolo, finché non giunse il suo turno.
Entrato nello studio, sedette alla scrivania in attesa che il medico terminasse di registrare qualcosa nel suo computer. Finalmente gli chiese nome e cognome, l’Uomo rispose e, mentre aspettava che i suoi dati fossero registrati, spostò oziosamente lo guardo dallo sbiadito certificato di laurea a vari manifesti di case farmaceutiche, per soffermarsi su un poster che mostrava gli organi interni del corpo umano, maschile e femminile. Nella rappresentazione femminile, la donna mostrava la sua nudità esterna e interiore con il volto soffuso di un’espressione di seria compenetrazione, mentre il viso del maschio era atteggiato a un sorriso ebete, cialtrone, quasi osceno, da adolescente che spia la nudità di una cugina o di una sorella.
I pensieri furono interrotti dal medico che, alzato lo sguardo dallo schermo del computer, si rivolse a lui: – Prego.
Man mano che elencava i sintomi che lo tormentavano da vari giorni, la secca tosse stizzosa, il cupo dolore alla schiena, il notturno senso di soffocamento, l’Uomo percepiva il marcato cambiamento di espressione del medico, che passò dal professionale/annoiato attraverso vari stadi di coinvolgimento, per arrivare a uno sguardo serio e intenso, le labbra strette in una sottile linea biancastra. Trafficò sulla tastiera, consultò quella che doveva essere la scarna storia clinica del paziente, gli chiese se fumava o avesse mai fumato e poi, senza visitarlo, chiamò lo studio di radiologia, fissando un appuntamento per un “torace”, urgente, quello stesso pomeriggio, alle 17:30.
– Le consiglio un esame a pagamento… così, per guadagnare tempo. Niente di cui preoccuparsi… una semplice precauzione, sa? Ma è sempre meglio esser sicuri. Torni con le lastre, domattina.
Lo sguardo dell’Uomo corse istintivamente al torace della figura maschile sul poster alla parete; il sorriso ebete del disegno si era trasformato in un ghigno malefico.
Uscì dallo studio con l’espressione assorta di chi sta riflettendo su un importante concetto non ancora pienamente assimilato. Fu soltanto mentre scendeva le scale che i pensieri delle notti insonni, gli incubi che era sempre riuscito a relegare nel limbo della mente, iniziarono a farsi avanti con arrogante prepotenza, calandogli addosso come l’ala nera di un corvo che eclissa il sole.
Un vecchio ricordo lo colpì con la forza di uno schiaffo: il muto grido di orrore del guitto de Il Settimo Sigillo, quando precipita nell’abisso eterno, dopo che la Morte ha abbattuto l’albero su cui si era rifugiato per sfuggire al contagio della peste nera.
Ora l’Uomo cammina verso lo studio radiologico, osservando con nuovi occhi le persone che incrocia, chiedendosi quante di esse stiano marciando verso un momento cruciale della loro esistenza.
Inizia a cadere una pioggia che si rovescia stizzosa sulla strada, piccole gocce fredde che feriscono come spilli.
Arriva alla porta dell’ambulatorio, una porta di vetro nero lucido su cui è incastrato un esagerato maniglione giallo. La porta riflette l’immagine di un uomo di circa quarant’anni, corporatura media, tratti del viso ordinari, altezza media; tutto è medio e ordinario, tranne il motivo che lo porta in quel posto, alla sua età.
Spinge l’impugnatura della porta con la mano umida di pioggia, la porta non cede alla spinta. Per un attimo spera che lo studio sia chiuso, ma un campanello con la pleonastica scritta “Suonare” lo riporta all’ineludibilità della sua condizione.
Entra in una grande sala fredda e male illuminata e si accoda a una decina di persone in fila davanti ad un banco, dove una donna in camice bianco, magra, il capello castano opaco, gli occhiali spessi, assegna i turni o consegna grandi buste color marrone.
Dal fondo del salone, sulla destra, parte una scala illuminata da un neon esaurito che lampeggia in modo irritante e disordinato.
Dopo una breve attesa, l’Uomo consegna l’impegnativa del suo medico e riceve dalla donna un talloncino rosa che riporta il numero 18/A.
Un sorriso malinconico gli si disegna sul volto, pensa: “diciotto, il prodotto di tre volte sei, 666, il numero della Bestia! Apocalisse di San Giovanni: la Bestia del mare ha sette teste, e dieci corna. Ha corpo di pantera, bocche di leone, e zampe simili a quelle dell’orso. Su ogni capo porta un diadema, e un titolo blasfemo”.
L’Uomo ricorda perfettamente la recita del teatrino della parrocchia, quando Don Zaccaria gli aveva attribuito l’onore (così diceva lui) di recitare brani dal libro dell’Apocalisse. La descrizione della Bestia (forse il Diavolo) era stata la causa di una congerie di notti popolate dai peggiori incubi, negli anni della sua fanciullezza.
Ora la Bestia è di nuovo lì, tra le sue mani, nascosta in un innocuo talloncino rosa, verosimile foriera di altre notti travagliate e senza conforto.
Nella sala d’attesa l’Uomo siede accanto a due anziane signore che parlano dei propri malanni, ciascuna di esse disinteressata a quanto l’altra racconta, prese esclusivamente dalle loro preoccupazioni. L’Uomo prova un profondo senso d’invidia nei loro confronti: i loro piccoli problemi di anca e ginocchio.
Una lampada rossa si spegne sopra una porta che si apre e un tecnico di radiologia dal camice bianco chiama: – A diciotto.
L’Uomo entra nel laboratorio e attende in piedi che il tecnico finisca di armeggiare intorno ad un macchinario mentre gli spiega che deve scoprire il torace fino alla maglietta intima – Per quale motivo fa le lastre?
– Tosse… e dolore alla schiena.
– Si accomodi alla macchina, per favore. Il mento sul supporto, per favore, le braccia un po’ più in alto… ecco, fermo così, vado di là.
Esce dal laboratorio e dopo pochi secondi una voce meccanica, disumanizzata, arriva dalla stanza accanto – Trattenga il respiro… respiri; trattenga il respiro… respiri.
Il tecnico torna nel laboratorio e sistema il paziente lateralmente rispetto al macchinario, poi rientra nella stanza accanto e scatta altre due lastre.
La voce meccanica dice al paziente di attendere, prima di rivestirsi.
Attraverso il vetro della porta divisoria, l’Uomo vede il tecnico che osserva le lastre appena sviluppate, le guarda sulla tavola luminosa, con attenzione, l’aria perplessa, sposta il peso del corpo da una gamba all’altra, la testa leggermente inclinata sul lato destro, le labbra chiuse che protrudono in avanti, il naso arricciato, gli occhi socchiusi nello sforzo di capire.
Si apre una porta che dà su un’altra stanza e si unisce a lui una giovane donna in camice bianco. Esamina anch’essa le immagini e parla con il tecnico, indicando vari punti delle lastre. Parlano per un paio di minuti poi la donna volge la testa verso la stanza, dove il paziente attende, lo guarda.
L’Uomo segue quanto sta accadendo in piedi, semivestito: si tormenta le mani in un gesto di profonda inquietudine, le nocche delle dita bianco-violacee, il respiro penoso e ansante, come di chi è sul punto di affogare. Sente un urgente impulso a scappar via, a lasciare quella stanza opprimente, quel pericolo che incombe come un’onda anomala all’orizzonte. Si guarda intorno come un animale ferito in cerca di una via di fuga, ma ecco che il tecnico e la signora si dirigono verso di lui, aprono la porta di comunicazione del laboratorio e gli dicono che le lastre dovranno essere ripetute, non tutta la superficie polmonare è chiaramente visibile.
La donna è un medico, sul camice indossa un cartellino: Dott.ssa Domizia Bandera.
L’Uomo non fa in tempo a chiedere altre spiegazioni, ma in fondo non ne vuole e, rassegnato come un agnello al mattatoio, si ridispone alla macchina mentre la porta si chiude e la voce meccanica lo esorta a inspirare, trattenere il fiato, respirare…
Ondate di fredda ansia si rovesciano lungo le vie del suo corpo per concentrarsi nel suo stomaco, in un unico nodo. La debole luce della lampada assume un’opacità irreale. Angoscia e smarrimento.
Un dolore sordo gli stringe il torace mentre sotto lo sterno delle fitte acute gli tagliano il respiro.
Il tecnico torna nel laboratorio e lo invita a rivestirsi, gli comunica che il referto sarà pronto tra una mezz’oretta e gli consegna un talloncino di un bel colore indaco, il colore del suo bungalow, nel villaggio vacanze di Itaca, l’estate appena scorsa.
L’Uomo cerca confusamente di ottenere qualche anticipazione sul risultato dell’esame ma il tecnico si allontana in fretta, biascicando qualcosa d’incomprensibile nel camice svolazzante. Sembra una grossa oca bianca in fuga da un pericolo.
Nella sala d’attesa sono rimaste poche persone, ciascuna cupamente chiusa nei propri pensieri, neanche gli anziani hanno più voglia di chiacchierare.
Esce dallo studio nella sera umida, i minuti e la pioggia gli cadono addosso come gocce di mercurio, percorre inquieto una decina di volte il marciapiede dalla porta dello studio medico all’angolo della strada e viceversa. Il dolore sordo continua a opprimergli il torace.
Osserva l’espressione assente di chi gli passa a fianco e lo sguardo indifferente che riceve in ritorno. Una donna, sembra una zingara, gli si avvicina mormorando qualcosa a proposito di numerosi bambini affamati. Lui si scansa e continua il suo cammino, lei mormora qualcosa: …hombre muy malo… no puedas tener paz.
L’Uomo ha perso la cognizione del tempo, non sa più quanti minuti siano trascorsi e decide di rientrare. Ecco, la porta del laboratorio medico gli si para davanti con il suo assurdo maniglione giallo. Vi sono quattro persone in coda di fronte al banco.
La fila davanti a lui si accorcia, l’agitazione gli fa tremare leggermente le mani, un cupo dolore gli tormenta la schiena.
– Prego signore, il suo numero?
Consegna il talloncino dal bel colore indaco, il suo sguardo si fissa sulle dita della segretaria, che cerca fra le buste: sembrano zampe di ragno che si arrampicano, veloci e inesorabili.
La donna cerca una volta, poi una seconda, controlla il talloncino dal bel colore indaco, prende il telefono e chiede qualcosa, alla risposta alza lo sguardo sull’Uomo, distogliendolo subito non appena incrocia i suoi occhi.
Posa la cornetta con un gesto esageratamente delicato e gli dice di andar di sopra, al primo piano, stanza tre, dove il medico l’aspetta. Deve parlargli.
Indica la scalinata al fondo del salone.
In preda all’angoscia l’Uomo si avvicina alla scala male illuminata e inizia la salita. Il dolore alla schiena è salito fino alla gola.
La luce del neon va e viene con dei secchi “tic, tic” poi, d’improvviso un guizzo blu e il buio gli si stringe addosso; resta solo una fioca luce violacea e lui continua a salire; ogni rampa ha sei gradini poi gira di novanta gradi e continua con altri sei gradini e poi altri sei, e ancora sei, sei, sei, sei…
“I soldati di Kurosawa!” L’Uomo ora ricorda il film: una compagnia di soldati giapponesi in assetto di combattimento, entra marciando in una galleria; il suono dei passi rimbomba, cadenzato e ossessivo… i soldati marciano, marciano, continuano a marciare mentre il tempo si fa indefinito. Nel tunnel non c’è più inizio, né fine. Sono tutti morti… dannati che marceranno per l’eternità.
L’Uomo sente che i suoi pensieri diventano una melassa vischiosa su cui passato e presente s’incollano come insetti morenti sulla carta moschicida.
Confuso, cerca le scale, ma non le trova, non le vede più. Anche i suoi piedi sono spariti. Sente il suono di una voce disumanizzata, lontana, che da un punto impreciso mormora: … no puedas tener paz… no puedas tener paz…Poi, il silenzio si fa totale, assoluto: un silenzio che nessun essere vivente è in grado di sentire. Nelle sue orecchie niente ronzii o altro, neanche il fruscio del sangue che scorre nelle arterie.
Non ha più alcuna percezione fisica, è immerso nel buio assoluto, una forza maligna lo avviluppa, ma la sua coscienza è viva e guarda con orrore all’inizio del nulla che l’attende, in eterna solitudine.
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Il lenzuolo bianco ricopriva la scala disordinatamente, come l’ultima chiazza di neve a primavera.
Da un angolo sbucava un piede che, sulla diagonale della composizione, si collegava a una mano nerastra.
Alla base della scala una torma di camici bianchi commentava l’evento che aveva coronato una giornata noiosa e grigia.
Un infermiere stava dicendo alla segretaria: – un infarto, ha detto il dr. Lo Zupone… di quelli che quando vengono a quarant’anni non lasciano scampo.
La segretaria si aggiustò gli occhiali sul naso con un gesto nevrotico e commentò: – quando gli ho detto di salire su, dal dr. Peguri, ho visto che sbiancava, e rantolava, in cerca di aria… non ho dato molto peso alla cosa, ne passano tanti qui di tipi nevrotici e ansiogeni.
A qualche metro di distanza un medico parlava con l’addetto alla sorveglianza, da poco arrivato sul posto: – il certificato di morte è già stato firmato, i necrofori saranno qui tra circa mezz’ora, così mi hanno detto, per cui al loro arrivo lei avrà solamente da firmare la bolla di ritiro.
Il metronotte sollevò il suo berretto con l’indice, e con aria perplessa biascicò: – la bolla di ritiro… cose ‘e pazze. Ma ch’è succiess, dottò?
Il dott. Peguri si tolse lo stetoscopio dal collo disse: – un infarto fulminante.
Una dottoressa si avvicinò: – Che esame aveva fatto?
Il medico rispose: – un torace… aveva una bronchite mal curata. Dal suo nome sulla lastra ho capito che si trattava di un compagno di scuola che non vedevo da anni e ho chiesto a Silvana di farlo salire da me; è successo sulle scale.
– Lo conoscevi bene?
– Non proprio, erano anni che non lo vedevo, anche a scuola era un tipo schivo, solitario. Ricordo che era tormentato da segni, premonizioni… qualsiasi cosa gli capitasse, anche la più banale, lui la interpretava in maniera esoterica: demoni, santi, segni del destino… Proprio uno sfigato.
Il medico tacque per qualche secondo, poi, volgendo il capo verso il lenzuolo aggiunse: – con tutto il rispetto, naturalmente.
Lentamente i presenti si dispersero verso gli spogliatoi e dopo pochi minuti il metronotte, rimasto solo, portò una sedia ai piedi della scala e sedette, dando la schiena al morto. Trascorsero pochi minuti, poi si alzò, girò la sedia, si tolse il berretto e sedette pazientemente con lo sguardo fisso sul lenzuolo, in attesa dei necrofori.
Bel racconto. Leggendo, son salita anche io su quella rampa di scale che “ha sei gradini poi gira di novanta gradi e continua con altri sei gradini e poi altri sei, e ancora sei, sei, sei, sei… “. Il riferimento cechoviano è voluto? Perché a me l’Uomo che aspetta in sala d’attesa ha ricordato quel Cerviakòv che, con indosso la divisa di servizio nuova,andò da Brizzalov a spiegare…. Complimenti, Luigi.
Grazie per il tuo lusinghiero commento, Carmen.
In effetti, oltre Cechov, vi sono diversi altri riferimenti… Bergman, Kurosawa, l’apocalisse di san Giovanni… il numero sei che si ripete…
Ti ringrazio nuovamente, in particolare quando dici che su quella rampa ci sei salita anche tu… 🙂
Un saluto cordiale
Luigi
Graffiante e angosciante al punto giusto con un finale che mette “K.O!”. Bravo!
Grazie Laura… commento che mi fa danzare l’anima! 🙂
Un saluto cordiale
Complimenti, veramente un bel racconto. Belle metafore, ben dosate, mai eccessive.
Scrittura curata senza essere “barocca” (a me personalmente troppi fronzoli non piacciono).
Si sente l’oppressione e l’angoscia. Il finale scioglie tutto.
Perfetto.
Grazie Christian, mi fa molto piacere che il racconto ti sia piaciuto.
Saluti cordiali
Luigi
Una bella storia, ben scritta, scorrevole, trascina fino al finale imprevisto.
Mi piace anche la scelta di non dare un nome (L’uomo) al personaggio principale la cui psicologia si evidenzia via via che il racconto procede.
Complimenti
Marco
Grazie anche a te, Marco
Mi è piaciuto tanto… anche a me hanno colpito le metafore delicate, ma efficaci. E il finale mi ha lasciato a bocca asciutta!
Angoscioso e angosciante racconto di premonizioni, errori e morte. Ben delineato l’Uomo e la sua psicologia. Graffiante il commento del medico nel finale “uno sfigato… con tutto il rispetto naturalmente”. Il gesto del metronotte ridona umanità e dignità alla morte dello “sfigato”.
@ Pasqualina e Roberto
Grazie per l vostri lusinghieri commenti, mi han fatto molto piacere
Un saluto cordiale
Luigi Lazzaro
Un racconto intenso, dettagliato, scorrevole, forte, amaro. Uno spaccato di vita aderente (purtroppo!) alla realtà. Ben scritto. Complimenti.
Scritto bene ma secondo me in un italiano troppo aulico per raccontare la storia di un operaio. Eccessivamente prolisso. Finisce per diluire l’effetto umoristico del finale che ricorda Pirandello.
@ Marinora
Grazie per il positivo commento
@Samantha
Grazie per il tuo commento.
Il protagonista del racconto non è necessariamente un operaio (non è specificato), ma, anche se fosse, il narratore dovrebbe, secondo te, usare un linguaggio popolare? Io non sono affatto d’accordo (a parte il fatto, oltretutto, che il linguaggio in questione non mi sembra assolutamente aulico)
Complimenti, un racconto ben strutturato e coinvolgente.
Il linguaggio secondo me va benissimo. Non esiste uno stile “da operaio” , se ne esistesse uno mi piacerebbe sapere quali caratteristiche dovrebbe avere!
Un saluto, Sara.
@ Samantha
Scusa, ma avevo dimenticato di commentare il secondo punto da te evidenziato e cioè “l’effetto umoristico del finale”.
Scusa, ma io proprio non ci vedo nulla di umoristico… tutt’al più possiamo parlare di paradossale… cosa che attiene meglio alla tua citazione di finale pirandelliano.
Comunque, grazie di nuovo e un saluto cordiale
@ Sara Maria
Grazie per il tuo commento e per “l’appoggio” circa il linguaggio “stile operaio”
Un saluto
Luigi
Bellissimo racconto, appassionante e cupo, una lettura che dà i brividi. Efficacissima la descrizione degli ambienti e delle sensazioni paranoiche del protagonista. Un incubo narrato con grande maestria e uno stile perfetto senza sbavature.
I miei sogni notturni sono spesso popolati di scale e ascensori inquietanti che portano in mondi sconosciuti, mi è quasi parso di ritrovarli qui, salendo i gradini dello studio medico.
Complimenti.
Grazie anche a te, Mara… commenti come il tuo mi danno la voglia e la forza di continuare questo mio sciagurato hobby 🙂
Un saluto cordiale
Luigi
Mi piace lo stile. In alcuni punti mi sono ritrovato con le mie paure della malattia che ti fa sentire ammalato. Le paturnie. Oppure, quando il medico ti dice:”Ti trovo bene”, ti senti bene, sono spariti il mal di schiena e la gotta. Ah, l’autosuggestione, l’inizio del nulla. Bravo Luigi, auguri.
Emanuele.
Grazie Emanuele, in effetti qualcuna delle nevrosi del protagonista, sono anche mie. In particolare, la scena della RX al torace è esattamente come io l’ho vissuta, qualche anno fa.
Un saluto cordiale
Luigi